Sequestro e morte di lavoratori italiani all’estero: la Procura contesta cooperazione colposa in delitto doloso al CdA dell’azienda e la relativa responsabilità da reato dell’Ente
1. Il caso. Il 19 luglio 2015 venivano sequestrati a Mellitah (Libia) da gruppi armati libici quattro tecnici dell’impresa Bonatti, azienda di Parma che opera nel settore oil&gas, la quale offre servizi a livello internazionale per il tramite di appalti commissionati dalle più importanti compagnie petrolifere. Due dei dipendenti venivano uccisi nel febbraio del 2016 a seguito di un conflitto a fuoco, mentre gli altri due erano riusciti a rimpatriare.
La Procura di Roma, per la prima volta in assoluto, ha contestato ai quattro componenti del Consiglio di Amministrazione della Bonatti e al Dirigente dell’azienda in Libia la cooperazione colposa in delitto doloso collegato all’evento morte dei due lavoratori per non aver adottato le cautele necessarie a tutelarli, pur conoscendo la situazione critica della Libia.
Infatti, qualche mese prima del sequestro, nel febbraio 2015, l’ambasciata italiana in Libia era stata chiusa ed il Ministero degli Affari Esteri aveva chiesto alle aziende italiane impegnate in Libia di abbandonare quei luoghi o, in caso contrario, di predisporre tutte le misure necessarie ad evitare danni ai lavoratori ivi impiegati.
Oltretutto la Bonatti non aveva rispettato quanto previsto dai protocolli della Farnesina, i quali indicavano di spostarsi via nave dall’isola di Djerba, in Tunisia, mentre i quattro dipendenti si spostarono via terra su un’automobile con autista libico.
La contestazione della Procura, però, non si è limitata al CdA dell’impresa, ma ha coinvolto anche l’ente, per il tramite della responsabilità degli enti prevista al d.lgs. 231/2001.
2. Il reato presupposto: cooperazione colposa dei vertici aziendali. Prima di procedere nella disamina è doveroso premettere che non si hanno a disposizione atti giudiziari certi, per cui le informazioni principali derivano da articoli di giornale.
La contestazione parrebbe essere quella di cooperazione colposa nell’omicidio doloso, con conseguente configurabilità ex art. 589 c.p.. La possibilità di prevedere un concorso colposo nel delitto doloso è sempre stata ampiamente criticata sia dalla dottrina maggioritaria che dalla giurisprudenza.
Una prima critica deriva dal dogma dell’unitarietà del titolo di responsabilità per i concorrenti: in tal senso, se il reato principale è stato commesso con dolo il partecipe non può rispondere per colpa. Questo perché il concorrente è tale solo se agisce nella consapevolezza di voler concorrere con l’altrui condotta e, dunque, tutti rispondono del medesimo reato. Si esclude perciò, sulla base di tale posizione, sia la configurabilità del concorso colposo nel reato doloso che del concorso doloso in reato colposo.
Una seconda posizione fa leva su argomenti di carattere letterale: l’art. 113 c.p. prevede esclusivamente la “cooperazione nel delitto colposo” e quindi, in assenza di espressa previsione di legge non è ipotizzabile la cooperazione in delitto doloso.
Oggi la giurisprudenza afferma unanimamente che “il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell’evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello della cooperazione colposa purché, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano presenti gli elementi della colpa, in particolare la finalizzazione della regola cautelare violata alla prevenzione del rischio dell’atto doloso del terzo e la prevedibilità per l’agente dell’atto del terzo” (Cass. Pen., sez. IV, 27/04/2015, n. 22042, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario) 2015, 3, 1174 (nota di: DI LELLO FINUOLI)).
Nel caso in esame non sussistono problemi: è presente la relativa fattispecie colposa (art. 589 c.p.), la posizione di garanzia del datore di lavoro (rinvenibile all’art. 2087 c.c. secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), peraltro arricchita dalle indicazioni e dai protocolli del Ministero degli Affari Esteri e la prevedibilità di eventuali gravi conseguenze in capo ai lavoratori.
3. La responsabilità da reato dell’ente. Come anticipato, la Procura ha contestato la relativa responsabilità da reato dell’ente. Tale addebito è stato possibile grazie all’inserimento nel D. Lgs. 231/2001 dell’art. 25 septies, rubricato “omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”.
La problematicità di tali reati presupposto sta nell’individuazione del vantaggio o interesse che possa derivare in capo all’ente, il quale in genere si sostanzia nel risparmio di costi per l’impresa o nella rapidità di esecuzione delle prestazioni.
Tale circostanza è stata confermata dalla giurisprudenza, secondo la quale “in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, allorché il reato presupposto sia uno di quelli elencati nell’art. 25 septies d.lg. n. 231 del 2001 (“Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”), l’unico criterio ascrittivo applicabile nei confronti dell’ente è quello dell’interesse, elemento da porsi in relazione solamente alla condotta che ha prodotto l’evento del reato e non anche all’evento stesso. In tale accezione, l’interesse dell’ente è integrato da una tensione finalistica verso un risparmio d’impresa, indipendentemente dal fatto che tale obiettivo sia concretamente raggiunto” (Tribunale Cagliari, 04.07.2011, Riv. dottori comm. 2012, 4, 918 (nota di: TROYER, INGRASSIA)).
E ancora “in tema di responsabilità da reato dell’ente in conseguenza della commissione dei reati di omicidio colposo o di lesioni gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (art. 25 septies d.lg. 8 giugno 2001 n. 231), ricorre il requisito dell’interesse dell’ente quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un’utilità alla persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa: pur non volendo il verificarsi dell’infortunio in danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre, invece, il requisito del vantaggio per l’ente quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, anche in questo caso ovviamente non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, consentendo una riduzione dei costi e un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto” (Cass. Pen., sez. IV, 19.5.2016, n. 31210, in Guida al diritto 2016, 39, 68).
Pertanto si individua un limite in senso contrario nei profili di colpa dovuti a semplice imperizia, in quelle condotte non volte a soddisfare l’interesse dell’ente. Sul punto, è stato sottolineato come “in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, allorché il reato presupposto sia uno di quelli elencati nell’art. 25-septies, d.lgs. 231/2001, non assumono rilievo le violazioni che non siano frutto di esplicite deliberazioni volitive finalisticamente orientate a soddisfare l’interesse dell’ente. Sono dunque irrilevanti i profili di colpa consistenti nella semplice imperizia, nella mera sottovalutazione dei rischi, nella non adeguata considerazione od esecuzione delle misure preventive da assumere, ovvero nella violazione, in via episodica ed in ambito locale e decentrato, di procedure operative vigenti o di sistemi di sicurezza esistenti nel contesto aziendale e, in prospettiva ex ante, idonei a prevenire l’evento” (G.u.p., Trib. Tolmezzo, 23.1.2012, in www.penalecontemporaneo.it).
Tornando al caso de quo, parrebbe emergere che il Responsabile dell’azienda in Libia abbia spiegato l’utilizzo dello spostamento via terra perché la nave solitamente utilizzata sarebbe arrivata con un giorno di ritardo ed i lavoratOggi la giurisprudenza afferma unanimamenori avrebbero dovuto raggiungere d’urgenza una località a 700 km da Mellitah.
Se nel corso del processo si dimostrerà che la tutela dell’incolumità dei lavoratori sia stata posposta alla necessità di non perdere guadagni dovuti all’impiego dei lavoratori rimasti uccisi, emergerà inequivocabilmente il presupposto per l’applicazione della responsabilità 231. In caso contrario, in assenza di prova dell’interesse e/o del vantaggio in capo all’impresa, la stessa dovrà essere scriminata.