Relazione della Commissione Palazzo-Pocar sul Codice dei Crimini Internazionali
Ad integrazione dell’Editoriale a firma del Prof. Adelmo Manna e del dott. Pierluigi Zarra “Il deficit giurisdizionale della Corte Penale Internazionale ed il ruolo delle Corti sovranazionali e nazionali nel conflitto russo-ucraino” pubblicato per il Fascicolo n.1/2022, si rende nota la Relazione della Commissione Palazzo-Pocar sul Codice dei Crimini Internazionali estratto da “Sistema penale” e fattoci pervenire dallo stesso prof. Adelmo Manna, 24 giugno 2022.
- I lavori della Commissione
La Commissione per elaborare un progetto di Codice dei Crimini internazionali è stata istituita presso il Gabinetto della Ministra della giustizia con d. m. 22 marzo 2022. Ha tenuto la sua prima riunione di insediamento il 31 marzo 2022 e altre due riunioni plenarie presso il Ministero l’11 e il 24 maggio 2022. Alle riunioni plenarie hanno partecipato il Capo di Gabinetto, pres. Raffaele Piccirillo, e il Vice Capo di Gabinetto, prof. Nicola Selvaggi, coi quali non è poi mancata un’utile interlocuzione durante tutto lo svolgimento dei lavori.
Fin dalla prima riunione plenaria, dopo avere individuato i principali nuclei tematici e adeguati criteri e metodi di lavoro, la Commissione si è articolata in sei sottocommissioni corrispondenti ai sei grandi temi di lavoro individuati, e cioè: 1) giurisdizione e competenza; 2) istituti di parte generale; 3) genocidio e crimini contro l’umanità; 4) crimini di guerra e di aggressione; 5) sanzioni; 6) immunità.
Le sottocommissioni hanno proceduto al lavoro preliminare mediante l’esame delle varie iniziative e progetti, pubblici e privati, già proposti per la compiuta attuazione dello Statuto di Roma, nonché mediante l’esame comparato della legislazione di alcuni Paesi culturalmente più vicini. Sulla base del lavoro svolto le sottocommissioni hanno prodotto dei documenti propositivi, contenenti delle bozze di articolato, ciascuna per il settore di propria competenza, corredate altresì da ampie ed approfondite relazioni illustrative. Tutto il lavoro si è svolto attraverso riunioni in maggior parte da remoto e con la continua consultazione e partecipazione dei Presidenti della Commissione, nonché attraverso interlocuzioni avvenute, ove necessario, tra le varie sottocommissioni.
Nella riunione plenaria dell’11 maggio 2022 sono stati discussi i documenti predisposti dalle singole sottocommissioni, in parte pervenendo alla condivisione di alcune e in parte formulando indicazioni di revisione, completamento o perfezionamento alle sottocommissioni. Queste ultime hanno quindi proceduto, sempre interloquendo con i Presidenti, a dare attuazione alle indicazioni espresse dalla Commissione plenaria.
Si è così pervenuti alla predisposizione di un testo unificato a cura dei Presidenti, che è stato sottoposto all’esame analitico della Commissione plenaria nella sua riunione del 24 maggio mediante discussione articolo per articolo. Dopo la discussione finale la Commissione ha dato mandato ai Presidenti di redigere il testo definitivo di articolato e la relazione di accompagnamento sulla base dei documenti progressivamente elaborati e delle discussioni via via svolte.
Durante tutte le fasi di svolgimento del lavoro ci si è potuti avvalere del puntuale supporto tecnico della Segreteria del Capo di Gabinetto.
In data 31 maggio 2022 i Presidenti hanno trasmesso alla Sig.ra Ministra della giustizia il progetto di Codice dei Crimini internazionali corredato dalla relazione, con propria lettera di accompagnamento in cui si esprimeva, a nome dell’intera Commissione, la più viva gratitudine per la fiducia accordata.
- I rapporti tra lo Statuto di Roma e il “codice dei crimini internazionali”
La stesura di un “codice dei crimini internazionali” (di seguito anche: “Codice”) trova la sua principale ragione e occasione nella opportunità di assicurare il compiuto adempimento degli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la ratifica, autorizzata con la legge 12 luglio 1999 n. 232, dello Statuto di Roma (di seguito anche: “Statuto”) istitutivo della Corte penale internazionale, entrato in vigore il 1° luglio 2002. Al riguardo la Commissione ha preso nota del parziale adattamento già operato con la legge 23 dicembre 2012 n. 237 con la quale sono state introdotte norme per l’adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi di cooperazione con la Corte penale internazionale previsti dallo Statuto e che resta pertanto confermata senza necessità di ulteriore revisione. Compito della Commissione è invece di redigere il progetto di uno strumento legislativo inteso ad introdurre nell’ordinamento italiano le disposizioni necessarie per assicurare che i crimini descritti nello Statuto di Roma possano essere sottoposti alla giurisdizione italiana.
Se un obbligo diretto di adottare una legislazione nazionale in questo senso non è espresso nello Statuto di Roma, tale obbligo si ricava indirettamente ma chiaramente dall’articolo 17 dello Statuto in cui si enuncia il cosiddetto “principio di complementarità” della giurisdizione della Corte penale internazionale rispetto a quella nazionale degli Stati contraenti. Secondo questo principio la Corte non ha infatti giurisdizione quando un crimine internazionale è o è stato oggetto di un procedimento penale davanti alle autorità giudiziarie dello Stato che può esercitare la giurisdizione rispetto a tale crimine, salvo che la mancanza di un procedimento penale nazionale dipenda dall’assenza di volontà o dalla effettiva incapacità dello Stato di investigare e di procedere penalmente. Questo sarebbe appunto il caso in cui uno Stato non avesse introdotto i crimini previsti dallo Statuto nella propria legislazione penale nazionale. In assenza di una legislazione con questo contenuto l’Italia sarebbe quindi esposta a un giudizio della Corte dichiarativo dell’assenza di volontà o di incapacità di perseguire crimini internazionali, che non può corrispondere alle intenzioni di un paese che ha ospitato nella sua capitale e presieduto con un suo autorevole giurista, il professor Giovanni Conso, la conferenza che ha adottato lo Statuto della Corte e che è stato fra i primi paesi a ratificarlo.
Alla luce di queste considerazioni è evidente che il principale strumento normativo al quale fare riferimento per la stesura di un codice dei crimini internazionali è lo Statuto di Roma, unitamente agli altri annessi documenti che lo completano, in particolare di quello che descrive gli “Elementi dei crimini”, adottato dall’Assemblea degli Stati parte con lo scopo di assistere la Corte penale internazionale nell’interpretazione e applicazione degli articoli dello Statuto relativi ai crimini, nonché della giurisprudenza finora prodotta della Corte stessa. Allo Statuto e agli Elementi dei crimini la Commissione si è pertanto in linea di principio attenuta al fine di includere nel codice dei crimini internazionali tutti i crimini in tali documenti previsti e descritti, al fine di permettere l’esercizio della giurisdizione italiana in tutti i casi nei quali, in sua assenza, possa intervenire la giurisdizione della Corte penale internazionale.
Va peraltro rilevato che lo Statuto di Roma, nell’indicare il diritto applicabile dalla Corte, dispone che essa può fare riferimento, sia pure solo “quando appropriato”, ad altre fonti giuridiche quali i trattati internazionali, i principi e le norme del diritto internazionale consuetudinario, nonché i principi generali di diritto desumibili dal diritto nazionale cui si ispirano i sistemi giuridici del mondo. Se la valutazione di questi ultimi compete alla Corte in ogni caso concreto, i trattati e le norme del diritto internazionale consuetudinario costituiscono invece diritto positivo che ha trovato amplissima applicazione nella giurisprudenza dei Tribunali penali internazionali ad hoc, quali il Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia e quello ad esso parallelo per il Ruanda, istituiti dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nell’ultimo decennio del secolo scorso.
La Commissione ha ritenuto pertanto opportuno tener conto, nella stesura del codice dei crimini, delle norme pattizie contenute delle Convenzioni di Ginevra del 12 aprile 1949 e nei relativi Protocolli aggiuntivi dell’8 giugno 1977 e, pur con la dovuta prudenza e sempre che non vi fossero contrasti con lo Statuto di Roma, di crimini o descrizioni di crimini che riflettessero lo sviluppo della consuetudine internazionale in materia di diritto penale, in particolare quando le disposizioni dello Statuto di Roma non codificano compiutamente il diritto consuetudinario e ne limitano la portata ai fini della giurisdizione della Corte, anche al fine di adeguare l’ordinamento italiano al diritto internazionale generale come previsto dall’articolo 10 della Costituzione. Delle motivazioni relative si dà conto nei luoghi opportuni della relazione.
In conclusione, come emerge dalle precedenti considerazioni, l’opera di codificazione condotta dalla Commissione è un esercizio complesso che pur avendo al centro e come base certa lo Statuto di Roma, ha richiesto una valutazione complessiva delle esigenze di adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale in tema di crimini internazionali, in modo da affiancare la legislazione italiana a quelle più avanzate nello sviluppo progressivo del diritto penale internazionale.
- Principi e criteri di codificazione
3.1. La Commissione ha condiviso e fatto propria l’impostazione assunta nel decreto ministeriale istitutivo, secondo la quale l’introduzione nell’ordinamento italiano delle nuove fattispecie criminose in attuazione dello Statuto di Roma avvenga mediante la creazione di un apposito “codice”, cioè di un corpus normativo topograficamente separato rispetto al codice penale. Si è pertanto scartata la soluzione, pur adottata da altri Paesi, di un innesto nel codice.
A sostegno di questa soluzione sta prima di tutto la natura sostanziale dei contenuti offensivi di questi reati, che si caratterizzano per attingere beni giuridici estremi ed universali, che si pongono fuori dell’ordine comune dei beni giuridici della normale vita sociale in quanto collegati a situazioni di assoluta eccezionalità da cui mutuano il loro disvalore particolare. In secondo luogo, da un punto di vista più tecnico-giuridico, nient’affatto trascurabile è il fatto che il numero dei “crimini internazionali” è indubbiamente così consistente da rendere più opportuna una loro sistemazione organica fuori dal codice penale, anche al fine di assicurare loro una più agevole “visibilità” senza nel contempo appesantire il codice con un grande numero di fattispecie destinate peraltro – auspicabilmente – a trovare un’applicazione rara ed eccezionale. Inoltre, la collocazione extracodicistica dei “crimini internazionali” è anche giustificata non solo dalle loro caratteristiche peculiari di struttura e di contenuto offensivo ma anche dal fatto che queste ultime hanno richiesto taluni adattamenti delle norme generali sia in materia di efficacia della legge penale nello spazio e di giurisdizione, sia in materia di presupposti e condizioni della responsabilità penale (di cui si darà poi conto analiticamente).
Infine, per tutto quanto si è osservato fin qui, è del tutto evidente che la creazione di un (relativamente) autonomo “codice dei crimini internazionali” non si pone in contrasto col principio della riserva di codice recentemente introdotto nell’art. 3 bis del codice penale (d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21). È chiaro, infatti, che il nuovo “codice dei crimini internazionali” integra perfettamente l’ipotesi di cui all’ultima parte dell’art. 3 bis c.p., che fa salve le disposizioni introduttive di nuovi reati fuori dal codice in quanto siano «inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia».
3.2. In ossequio alla terminologia utilizzata nel decreto ministeriale istitutivo, la Commissione ha ritenuto di utilizzare, anche nel testo delle disposizioni, l’espressione “crimini”. Si è ben consapevoli del fatto che nel nostro diritto penale, il termine “crimine” non è tecnico, e apparentemente potrebbe essere equivoco o addirittura fuorviante, essendo il nostro sistema impostato – com’è notissimo – sul dualismo che distingue il reato nelle due categorie dei delitti e delle contravvenzioni, facendone derivare fondamentali conseguenze applicative. Tuttavia, è parso di dover preferire, nell’esclusivo campo disciplinato dalle nuove disposizioni, l’espressione “crimini” per due essenziali ragioni.
In primo luogo, una ragione di natura linguistica consistente nel prendere atto che nel linguaggio corrente, anche in ambienti giuridicamente qualificati, è ormai invalso e preferito l’uso di denominare questi speciali reati, probabilmente proprio in ragione della loro natura particolare, come “crimini”, sicché tornare ad una loro denominazione in termini di “delitti”, sia pure tecnicamente più corretta, avrebbe potuto essere avvertita come dissonante.
In secondo luogo, nonostante l’apparente imprecisione tecnico-giuridica della denominazione “crimini”, da essa non deriva nessuna conseguenza negativa o comunque di incertezza od equivocità sul piano applicativo. Posto, infatti, che la natura giuridica di un reato, quale delitto o contravvenzione, e la conseguente disciplina applicativa, discende esclusivamente dal tipo di pene comminate (secondo quanto dispone l’art. 17 c.p.), non vi potrà essere dubbio alcuno che i nuovi “crimini” internazionali sono in realtà tutti delitti in quanto sanzionati con le pene dell’ergastolo o della reclusione. In ogni caso, per fugare ogni possibile dubbio e assicurare la massima chiarezza sul punto, il Codice si apre con una disposizione con la quale viene precisato expressis verbis che «ad ogni effetto di legge i crimini previsti dal presente Codice sono delitti e l’uso del termine crimine o crimine intendersi come riferito a delitto».
3.3. Il corpus dei nuovi crimini internazionali si pone all’incrocio di ben quattro punti di riferimento: a) lo Statuto di Roma, del quale il nuovo codice intende perfezionare l’attuazione; b) il codice penale, che costituisce pur sempre il quadro sistematico e di principio nel quale anche le nuove disposizioni debbono collocarsi; c) i codici penali militari, dai quali i nuovi crimini – specie quelli di guerra – traggono alcune fattispecie e comunque alcune nozioni (come ad es. quella di “militare”); d) last but not least, la Costituzione, i cui principi fondamentali, da quello di eguaglianza (ad es. in relazione alla responsabilità di militari o di soggetti civili) a quelli specificamente penalistici (come quello di legalità, di colpevolezza e di proporzione), possono essere messi in tensione dalle peculiarità di queste fattispecie.
Quanto ai rapporti col codice penale, e in particolare con la “parte generale” del Libro I, va rilevato in via preliminare che la Commissione ha ritenuto di ispirarsi al criterio di introdurre il numero minimo possibile di norme derogatorie, ritenendo che la maggior parte della disciplina di natura generale potesse essere fornita dalle disposizioni del Libro I del codice penale: così, ad es., per quanto riguarda la disciplina del tentativo, del concorso formale di reati, del reato continuato, della imputabilità, ecc. Ciò nell’ovvio presupposto che, per quanto concerne tutto ciò che non è espressamente disciplinato diversamente dalla nuova legge, si applicano le disposizioni del codice penale in virtù dell’art. 16 c.p. E’ parso, inoltre, di chiara evidenza, senza necessità quindi di introdurre un’apposita norma esplicativa al riguardo, che la natura delittuosa dei nuovi reati comporta di per sé l’automatico richiamo di tutte le altre disposizioni o complessi normativi applicabili ai delitti comuni: dall’ordinamento penitenziario, al codice di procedura penale fino a quelle di futura emanazione. In questo senso si può dire che la scelta della Commissione, senza disconoscere le peculiarità proprie dei crimini internazionali, è stata nel senso di mantenere la loro disciplina saldamente ancorata al quadro di riferimento costituito dalla disciplina comune. Anche l’impianto sistematico dello schema del progetto s’ispira a quello del codice penale, nella sua distinzione tra il Titolo I dedicato alle disposizioni di carattere generale e Titoli successivi dedicati ai crimini in particolare.
3.4. Quanto alla “parte speciale” del nuovo codice dei crimini internazionali, la Commissione si è ispirata ad alcuni criteri fondamentali. In primo luogo, nel delineare l’ambito della tutela e pertanto delle varie fattispecie, si è curato che esso non risultasse inferiore o più ristretto rispetto a quello assicurato dalle disposizioni dello Statuto di Roma: e ciò all’evidente scopo di evitare che la tutela apprestata ai “beni internazionali” dalla legislazione italiana corresse il rischio di apparire insufficiente rispetto a quella prevista dallo Statuto, così da innescare il meccanismo della giurisdizione complementare della Corte penale internazionale. Naturalmente, ciò non ha escluso che, laddove apparisse necessario anche per coerenza con altri campi di tutela, la Commissione abbia ritenuto di introdurre disposizioni di maggiore tutela rispetto allo Statuto (come è accaduto ad es. con la previsione del c.d. genocidio culturale o di un’autonoma e specifica fattispecie associativa).
Un ulteriore criterio che ha guidato la Commissione nella redazione delle norme incriminatrici è stato quello di utilizzare un linguaggio che, senza tradire ovviamente i contenuti espressi dallo Statuto, fosse però il più omogeneo possibile a quello del diritto penale interno. E ciò al fine precipuo di evitare il pericolo di un disorientamento interpretativo del giudice interno, che altrimenti si sarebbe trovato dinanzi a inutili discrasie o differenziazioni linguistiche potenzialmente foriere di dubbi e questioni interpretative in un ordinamento fortemente condizionato dal principio di legalità. Così, laddove possibile si è preferito non discostarsi da termini e concetti ben conosciuti e consolidati nel nostro linguaggio legislativo e nella nostra prassi applicativa, come ad es. quelli di violenza e minaccia o quelli di lesioni gravi o gravissime.
Infine, sempre sul piano della tecnica di formulazione delle nuove fattispecie, la Commissione si è trovata spesso dinanzi ad un bivio determinato dallo Statuto. Quest’ultimo, infatti, spesso adotta una tecnica descrittiva fortemente casistica col rischio di moltiplicare problemi di esegesi letterale sempre nocivi, ma in particolare in una materia così “sensibile” come quella dei crimini internazionali. Dall’altro lato, talvolta utilizza, per contro, formulazioni così generiche ed onnicomprensive da porsi in irrimediabile contrasto col principio di legalità e determinatezza della legge penale, avente rango costituzionale nel nostro ordinamento. La Commissione, pur nel dovuto rispetto della sostanza dell’incriminazione statutaria, ha ritenuto però, non senza dover superare difficoltà talvolta significative, di dover tenersi lontana da entrambi gli estremi prima messi in luce.
3.5. La Commissione ha dedicato una particolare attenzione all’individuazione delle pene edittali dei nuovi reati, ritenendo di doverle indicare nello schema del progetto. Sotto il profilo del metodo, la Commissione ha cercato di realizzare una coerenza intrasistemica tra le pene proposte, l’ordinamento sanzionatorio interno, le scelte dello Statuto di Roma e le soluzioni offerte dalla legislazione di altri Paesi. Determinante, in ogni caso, è stato il riferimento ai princìpi che delineano il “volto costituzionale” del sistema sanzionatorio complessivo. La dosimetria delle pene è stata pertanto individuata partendo dal confronto tabellare con le sanzioni previste dal nostro codice per i reati “corrispondenti” e con quelle stabilite per i crimini internazionali dai testi normativi di Paesi di cultura giuridica affine. Il confronto con le indicazioni codicistiche è stato però necessariamente privilegiato per restituire una scala di disvalore, evidentemente più grave, ma comunque comparabile e coerente con quella ordinamentale corrispondente.
Non di rado è apparso necessario proporre “forbici” edittali di ampiezza anche notevole tra il minimo e il massimo, secondo peraltro uno schema non lontano da altre scelte codicistiche e dalle esperienze di ordinamenti culturalmente affini. Si è ovviamente consapevoli che ciò comporta un certo ampliamento della discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena in concreto. Tuttavia, questo possibile risultato è apparso accettabile in ragione sia della formulazione necessariamente ampia di talune fattispecie di più diretta derivazione dallo Statuto, sia della constatazione che le caratteristiche criminologiche di questi reati li rende spesso suscettibili di manifestazioni in concreto sensibilmente differenziate quanto a disvalore.
3.6. Sempre in tema di trattamento sanzionatorio, la Commissione ha preso in esame l’eventualità di inserire anche i crimini internazionali nel novero dei reati comportanti il particolare regime restrittivo di accesso ai benefici penitenziari o il regime di particolare sicurezza di cui, rispettivamente, agli articoli 4 bis e 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
In ordine al regime restrittivo di cui all’art. 4 bis o.p., la Commissione ha ritenuto di non dover formulare nessuna proposta. In effetti, le ordinanze della Corte costituzionale (97/2021 e altra non ancora depositata) con cui sono stati già accertati, ancorché non ancora dichiarati, rilevanti profili di illegittimità costituzionale della norma e la conseguente riforma della stessa attualmente in corso in sede parlamentare, determinano una situazione tale da sconsigliare qualunque proposta al riguardo, visto e considerato che si tratterebbe di intervenire su un istituto dalla fisionomia in via di penetrante trasformazione.
In ordine al regime di massima sicurezza di cui all’art. 41 bis o.p., la Commissione ha ritenuto di non proporne l’estensione ai crimini internazionali per due concorrenti ragioni. Innanzitutto, perché anche su questa disposizione si addensano dubbi di costituzionalità, che hanno trovato adeguata eco nella sentenza della Corte costituzionale (97/2020) con cui sono stati delineati i limiti del legittimo ambito operativo della norma nella persistente pericolosità del detenuto derivante dal mantenimento dei collegamenti con le organizzazioni criminali di originaria appartenenza. In secondo luogo, perché sono proprio le caratteristiche fenomenologiche dei crimini internazionali a suggerire che quei requisiti di costituzionalità siano di regola assenti nella realtà criminologica di questi crimini. Infatti, il contesto in cui essi vengono perpetrati presenta i caratteri della contingenza e non è assimilabile a quello della criminalità associativa diffusa e stabile, così che l’applicazione dell’art. 41 bis o.p. a tali ipotesi finirebbe per assicurare un surplus di punizione per gli autori di speciali gravità, che è proprio quanto è stato censurato dalla Corte costituzionale con la sent. 18 del 2022.
Tutto ciò premesso, la Commissione si è fatta carica dell’eventualità che si verifichino casi particolari, in cui il condannato per crimini internazionali potrebbe mantenere i propri originari rapporti, nei quali i suoi reati hanno radice, con realtà anche potenzialmente pericolose. Si è allora immaginata una possibile disposizione per consentire di sospendere, per un tempo determinato, il trattamento ordinario sempre che sia possibile dimostrare la sussistenza di un pericolo concreto che deriverebbe dal suo mantenimento, specificando i pericoli che la nuova disposizione intenderebbe fronteggiare. La Commissione ha ritenuto, però, di non inserire la disposizione nell’articolato ma di predisporre un testo, che ad esso viene allegato alla presente Relazione (Allegato n. 1), per l’eventualità che si ritenesse di disciplinare le ipotesi prospettate.
- Le disposizioni di carattere generale del Codice
4.1 Con riferimento alla legge applicabile ai crimini internazionali la Commissione ha ritenuto di mantenere per quanto possibile i principi che ispirano il sistema italiano. Pertanto, per i crimini commessi nel territorio dello Stato, viene operato un semplice rinvio all’art. 6 c.p. che, in applicazione del principio della territorialità del diritto penale, sottopone alla legge italiana tutti i reati commessi, sia da cittadini sia da stranieri, nel territorio statale, come definito dall’art. 4 comma 2 c.p. Si tratta di scelta scontata che non mette conto di giustificare in modo più dettagliato. Più delicata si presenta la scelta della legge applicabile quando il crimine sia commesso all’estero, in quanto gli artt. 7-10 c.p. differenzia i termini di applicabilità della legge penale italiana in funzione dell’interesse decrescente dello Stato a punire determinati reati. Si muove dal paradigma di una punibilità incondizionata per arrivare a una punibilità che si attiva in presenza di condizioni tanto più numerose quanto minore è l’interesse dello Stato ad applicare la propria legge penale, vuoi per la minore gravità del reato, vuoi per la maggiore tenuità del collegamento con il reato, vuoi anche per risolvere sul nascere eventuali conflitti di giurisdizione. Senza entrare nelle specifiche disposizioni del codice penale, è parso alla Commissione che per coerenza razionale e sistematica, i crimini internazionali debbano essere assimilati a quelli per i quali il codice penale dispone la punibilità incondizionata, in particolare a quelli per i quali speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali prevedono l’applicabilità della legge penale italiana senza condizioni, in base al principio di universalità. Il disposto dell’art. 7 n. 5 c.p. esprime infatti l’interesse dello Stato italiano a giudicare comunque fatti oggetto di una convenzione internazionale che preveda l’obbligo non solo di incriminarli, ma anche di stabilire rispetto ad essi una clausola di applicabilità della legge penale nazionale. In questo contesto la soluzione prevista dal legislatore ben si attaglia anche ai crimini internazionali come reati ai quali la legge italiana trovi applicazione assoluta e incondizionata.
Va altresì rilevato che la soluzione proposta conduce al medesimo esito della procedibilità in Italia nel caso in cui il crimine sia commesso all’estero da un cittadino italiano o sia commesso di danni dello Stato italiano o di un cittadino italiano, in applicazione dei principi di personalità e difesa, che pure sono alla base dell’art. 7 c. p. La procedibilità in Italia non sarebbe condizionata anche nel caso in cui sia lo straniero a commettere all’estero un crimine internazionale ai danni dello Stato italiano o di un cittadino italiano, sempre in applicazione del principio di difesa.
Pertanto, l’unica ipotesi che nel Codice si discosta dalle scelte dell’art. 7 n. 5 c. p. è quella in cui il crimine sia commesso all’estero da uno straniero non ai danni dello Stato italiano o di un cittadino italiano. In questo caso è parso tuttavia alla Commissione opportuno prevedere, nell’art. 3 comma 3 del progetto di codice, che la punibilità del crimine secondo la legge italiana sia subordinata alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato, anche quando il reato sia commesso in concorso con un cittadino italiano. Si tratta di scelta che lungi dal compromettere la tenuta dell’ordinamento ne rafforza l’effettività. Una scelta diversa imporrebbe al pubblico ministero di perseguire qualunque reato commesso all’estero dallo straniero e di iniziare l’azione penale nei suoi confronti, con il conseguente determinarsi di complessi problemi dovuti all’incrociarsi con eventuali competenze di altri Stati, anche in posizione migliore per giudicare i fatti. La scelta operata è d’altra parte coerente con il modello codicistico italiano, che subordina la giurisdizione, nelle ipotesi degli artt. 9 e 10 c.p., alla presenza dell’autore nel territorio dello Stato.
Infine, per quanto attiene alla richiesta del Ministro della giustizia quale ulteriore condizione di procedibilità prevista dagli artt. 8, 9 e 10 c.p., la Commissione ha ritenuto di non inserirla, trattandosi di un’interferenza problematica tra politica e giurisdizione, espressione delle coordinate assiologiche del modello di Stato che ha espresso il codice penale del ’30. Ad avviso della Commissione, la richiesta del Ministro della giustizia trova peraltro giustificazione, in ragione della peculiare valenza politica dell’ipotesi, limitatamente al crimine di aggressione (v. infra).
4.2. La questione della giurisdizione e competenza a giudicare sui crimini internazionali è stata oggetto di particolare discussione in seno alla Commissione, che ne ha esaminato con attenzione tutti gli aspetti rilevanti trovando numerosi punti di consenso sulle soluzioni da adottare.
Questo è il caso del riconoscimento della competenza della Corte di Assise a conoscere dei crimini internazionali previsti dal Codice. Si è rilevato che la Corte di Assise va preferita al Tribunale in base alle peculiarità che le sono proprie e in ragione di una maggiore capacità di accogliere i carichi processuali. Essa presenta una collegialità più vasta e ritrova al suo interno una componente popolare che meglio rispecchia la rappresentatività democratica. La sua scelta è inoltre sistematicamente coerente per aver tradizionalmente competenza sui fatti dal disvalore più grave, e cioè sui reati “di sangue”. Essa gestisce procedimenti tecnicamente meno complessi ma che necessitano di spazi anche organizzativi sufficienti per approfondire la complessità dei fatti trattati e dà maggiori garanzie per il rispetto dei tempi processuali. In considerazione della loro natura e della loro specificità, si è ritenuto opportuno affidare alla competenza della Corte di Assise anche i crimini internazionali con pene di non elevata severità. Si è ritenuto inoltre di riconoscere la competenza della Corte di Assise di Roma per i crimini internazionali commessi all’estero, con una scelta che risponde a evidenti ragioni politiche e, lato sensu, simboliche.
È stata apportata tuttavia una sola deroga alla competenza della Corte di Assise per il caso di crimini imputabili a minorenni, mantenendo fermo quanto disposto dal decreto del Presidente della Repubblica del 22 settembre 1988 n. 448 per i reati commessi dai minori di diciotto anni e riconoscendo, anche in questo caso, la competenza del Tribunale dei minorenni di Roma per i crimini commessi all’estero.
La Commissione ha poi discusso se le funzioni dell’ufficio del Pubblico Ministero nel caso di crimini internazionali commessi in Italia dovessero rimanere decentrate o piuttosto accentrate presso l’ufficio di Roma, fermo restando naturalmente l’accentramento nel caso di crimini commessi all’estero dato la competenza a conoscere di tali crimini della Corte di Assise di Roma. La discussione ha rivelato l’opportunità di un parziale accentramento a livello distrettuale, sul modello di quanto già previsto nell’ordinamento italiano dall’art. 51 comma 3-bis per alcuni reati, quali le associazioni di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p.
4.3. Mentre sulle questioni ora menzionate la Commissione ha trovato un consenso unanime, tale unanimità è mancata rispetto alla questione se la giurisdizione sui crimini di guerra dovesse essere attribuita al giudice ordinario o invece riservata in tutto o in parte alla giurisdizione militare quando si tratti di crimini commessi in Italia o all’estero da appartenenti alle Forze armate italiane. L’ampia discussione al riguardo non è riuscita a raggiungere una soluzione sulla quale si potesse formare un consenso, di modo che la Commissione ha ritenuto di sotto porre alla Sig.ra Ministra tre soluzioni alternative, ciascuna delle quali ha raccolto il sostegno di componenti della Commissione senza che si verificasse un consenso o una maggioranza precisa in proposito. Le tre soluzioni sono riportate nell’art. 4 dell’articolato e qui si riassumono brevemente gli argomenti addotti a favore di ciascuna.
Con la proposta n. 1 si fa valere che la scelta di attribuire al giudice ordinario la giurisdizione per tutti i crimini internazionali non incide sul dettato costituzionale (art. 103 comma 3 Cost.), come confermato dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale sottolinea la discrezionalità del legislatore nell’inquadrare determinate fattispecie fra i reati militari o quelli ordinari “purché osservi il canone della ragionevolezza” (tra altre, ord. n. 402 del 2008). Si osserva inoltre che la giurisdizione militare in tempo di guerra è stabilita dalla legge, che il c.p.m.g. si applica quando vi sia stata una formale dichiarazione di guerra (art. 3 c.p.m.g.) e che tuttavia le disposizioni del suo Titolo IV si applicano in ogni caso di conflitto armato (art. 165 c.p.m.g.) indipendentemente cioè dall’avvenuta dichiarazione dello stato di guerra. Ai sensi dell’art. 9 c.p.m.g. fino all’entrata in vigore di una nuova legge organica nella materia penale militare, sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari “armate”, nonché il personale di comando e controllo e di supporto del corpo di spedizione, che resta nel territorio nazionale o che si trovi nel territorio di altri paesi al momento in cui venga loro comunicata l’assegnazione a dette funzioni. Nel colmare una lacuna di disciplina nell’ordinamento, la proposta affida alla magistratura ordinaria la competenza a conoscere dei crimini internazionali, considerando che per fatti lesivi di diritti umani fondamentali o di altri valori fondanti della comunità internazionale, anche in deroga al c.p.m.g., la giurisdizione non debba essere radicata in base allo status dei soggetti coinvolti, bensì in base agli elementi, del tutto prevalenti, del disvalore dell’evento e dei caratteri di contesto che connotano i crimini internazionali, elementi che trovano la loro origine nell’ordinamento internazionale, che li inquadra in modo unitario. Pertanto, la condivisibile osservazione che il tribunale militare meglio conosca le dinamiche proprie del sistema militare e sia quindi in posizione migliore per giudicare un soggetto appartenente alle Forze armate cede di fronte alle caratteristiche assolutamente peculiari dei crimini internazionali. L’unitarietà della giurisdizione risponde all’obiettivo di una ineludibile uniformità di trattamento, anche nell’ottica di una più puntuale aderenza agli obblighi internazionali di prevenzione e di repressione. La proposta conclude osservando che essa rispetta e rafforza, anche sotto il profilo della giurisdizione, la stigmatizzazione del precipuo disvalore dei crimini internazionali, e che l’attento trasferimento di fatti che diano luogo a crimini internazionali dai codici militari e da altre leggi applicabili al Codice dei crimini internazionali sarebbe in grado di dare all’intero sistema unità, coordinamento e coerenza. Quanto ai problemi del riparto tra la giurisdizione ordinaria competente per i crimini previsti dal Codice e la giurisdizione militare per i reati previsti dal c.p. in tempo di pace, essi potranno essere risolti in base ai principi generali di cui agli artt. 12 e 13 c.p.p.
La proposta n. 2, a sua volta, ritiene opportuno conservare la giurisdizione militare per i crimini previsti dal Codice quando siano commessi da militari principalmente per rispettare la “specialità” dello status del militare, al quale l’art. 103 Cost. riconosce rilevanza, attribuendo una giurisdizione “dedicata”, quella militare, che essendo fornita di autonomia e indipendenza al pari di quella ordinaria, riesce a garantire, nell’ottica di un giusto processo, competenza specifica nella materia e tempi rapidi, indispensabili per l’andamento delle Forze armate. Si richiama in proposito la giurisprudenza della Corte costituzionale che ha chiarito (sentenza n. 48 del 1959) che l’art. 103 ult. co. Cost. “nel regolare la competenza dei tribunali militari in tempo di pace e di guerra…si pone come disciplina permanente e organica della materia”, essendo necessario, per introdurre norme che incidano su tale previsione costituzionale strutturale, un intervento modificativo della Carta. Si osserva che rinunciare a tale risorsa che la Costituzione ha previsto per i militari significa arrecare un danno alle Forze armate che dovrebbero rapportarsi a un giudice ordinario che non ha specifica competenza della materia militare ed è in genere oberato di lavoro giudiziario. Si fa valere che i fatti previsti dal Codice, se commessi da militari, sono reati “funzionali”, riconducibili a un “abuso” nell’esercizio dell’attività organica. E si nota che l’espressione di maggiore gravità secondo cui un militare può realizzare un reato è il crimine di guerra e contro l’umanità, per cui non si comprende la ragione per cui proprio tali gravi reati connessi alla qualità di militare debbano essere sottratti alla competenza dei tribunali militari dal momento che questi sono previsti dal nostro ordinamento. Si osserva che la tesi di una giurisdizione unica ordinaria non tiene conto della volontà del costituente che, seppure non ha costituzionalizzato il concetto di reato militare, ha inteso mantenere una speciale giurisdizione per la cognizione di reati lesivi degli interessi della Difesa tra cui in primis devono annoverarsi i crimini in questione i quali ledono, tra altro, i principi di correttezza e lealtà nei teatri di conflitto. Secondo la proposta, appare quindi ragionevole che detti reati trovino un trattamento differenziato in considerazione della speciale natura della violazione in contrasto con i propri doveri di militare. Attribuire a tali reati la qualità di reati comuni di competenza del giudice ordinario significa non tener conto di tale specificità e appiattire tutte le condotte, commesse dal civile e dal militare, impedendo di cogliere la specificità della condotta del militare da parte del giudice speciale. Si rammenta inoltre che esiste già una previsione normativa nell’art. 23 della l. 20 dicembre 2012 n 237, che riconosce la giurisdizione militare per reati commessi da militari. Si osserva infine che la totale equiparazione della giurisdizione militare a quella ordinaria sotto il profilo dell’indipendenza e autonomia, impedisce che si possa ipotizzare una condizione che potrebbe comportare l’attrazione della giurisdizione della Corte penale internazionale per inidoneità degli strumenti giudiziari apprestati dallo Stato italiano, in quanto i tribunali militari italiani assicurano un giusto processo con le stesse regole processuali della giurisdizione ordinaria. La previsione dell’art. 108, comma 2 Cost. è stata infatti attuata dalla l. n. 561 del 1988 istitutiva del Consiglio della magistratura militare, 12 organo di autogoverno assimilabile al c.s.m., e dalle regole di ordinamento giudiziario militare (artt. 52 ss. del d.l. 15.3.2010 n. 66) che prevedono l’estensione alla magistratura militare delle regole ordinarie per quanto applicabili. Inoltre, al processo militare si applicano le regole processuali ordinarie, ai sensi dell’art. 261 c.p.m.p. e, ovviamente, le regole costituzionali del giusto processo (art. 111 Cost.). Infine, in relazione alla connessione tra reati di competenza del giudice ordinario e del giudice militare, l’art. 13 c.p.p. già prevede la separazione dei procedimenti solo quando il reato più grave sia militare e la competenza del giudice ordinario per tutti i reati se quello comune sia il più grave, e non si ravvisano motivi per derogare a tale procedura.
Infine, secondo la proposta n. 3, la giurisdizione per i crimini internazionali previsti dal Codice è attribuita al giudice ordinario. Per i crimini di guerra, di cui al titolo II, capo 3 dell’articolato, commessi da appartenenti alle Forze armate italiane, la competenza è attribuita al giudice militare. La proposta rispecchia i principi che regolano i tradizionali criteri di giurisdizione e di competenza vigenti nell’ordinamento italiano. La regola è l’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario, ma, per la specificità dei soggetti coinvolti, i crimini internazionali commessi da minori sono devoluti al Tribunale dei minorenni, che ha competenza generale e di tipo “esclusivo” ed è giudice “specializzato”, in quanto, secondo il quadro costituzionale dei principi e la politica minorile stabilita a livello internazionale, il minore ha diritto a un proprio giudice e a un proprio processo, calibrato sulle sue esigenze e specificità. I giudici che compongono il Tribunale (togati e onorari con competenze particolari) hanno la capacità e la formazione necessaria per interpretare al meglio i comportamenti dei minori. Nella stessa logica i crimini internazionali, limitatamente ai crimini di guerra di cui al titolo II, capo 3, esclusivamente laddove siano commessi da appartenenti alle Forze armate italiane, sono devoluti alla giurisdizione militare, riconosciuta dalla Costituzione e munita dal legislatore di tutte le garanzie di indipendenza e di autonomia assicurate alla giurisdizione ordinaria. I giudici militari sono magistrati togati, civili, affiancati da una componente militare (a seconda del grado del procedimento, su una composizione del collegio rispettivamente di 3 e 5 giudici, uno o due ufficiali, appartenenti alle Forze armate, estratti a sorte). Anche in questo caso, l’attribuzione della giurisdizione alla magistratura militare è in grado di valutare i fatti commessi dagli appartenenti alle Forze armate con una migliore conoscenza delle dinamiche militari. D’altra parte, la maggior parte dei crimini di guerra trasposti nel Codice sono già, se commessi da militare, di competenza del tribunale militare in quanto previsti dal c.p.m.g. o da leggi speciali. Resta ferma, inoltre, l’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario per i crimini di guerra commessi da uno straniero; per i crimini contro l’umanità e il genocidio, anche se commessi da appartenenti alle Forze armate italiane; nonché in caso di connessione tra procedimenti per crimini di guerra di competenza del giudice militare e procedimenti per crimini di guerra o crimini contro l’umanità o genocidio di competenza del giudice ordinario. A proposito dei rapporti tra la giurisdizione interna e la giurisdizione della Corte penale internazionale, le garanzie di indipendenza e imparzialità della giurisdizione militare italiana soddisfano pienamente il criterio del “giusto processo secondo il diritto internazionale” posto dall’art. 17(2) dello Statuto di Roma per determinare la genuinità della volontà (willingness) della giurisdizione nazionale di investigare o di procedere. La proposta 13 tiene in considerazione anche la circostanza che i crimini di guerra devoluti al giudice militare non rientrerebbero comunque nella giurisdizione della Corte penale internazionale che ai sensi dell’art. 8(1) dello Statuto è limitata ai crimini di guerra commessi come parte di un programma o di una politica o come parte di una commissione su larga scala, circostanze che, secondo dati esperienziali, determinerebbero il coinvolgimento di non appartenenti alle forze armate o la ricorrenza anche di crimini contro l’umanità, che comportano l’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario. Infine, anche per la giurisdizione militare si è seguita la stessa logica dell’accentramento presso il tribunale militare di Roma per i crimini di guerra commessi dall’estero dagli appartenenti alle Forze armate italiane.
4.4. La Commissione ha ritenuto che l’introduzione di una norma ad hoc che escluda la possibilità di invocare la natura politica dei crimini internazionali nelle ipotesi di estradizione verso un altro Stato o di consegna alla Corte penale internazionale risponda ad esigenze di chiarezza. Tale clausola uniforma il progetto di Codice allo Statuto di Roma senza derogare rispetto all’orientamento interpretativo prevalente affermatosi con riferimento agli artt. 10 e 26 Cost. in tema di estradizione.
Invero, la nozione costituzionale di reato politico, in parte autonoma rispetto a quella dell’art. 8 c.p., è ormai pacificamente da intendere come espressione dell’esigenza di tutelare gli autori di reati commessi per lottare contro regimi illiberali, e per ciò esposti al rischio di violazioni dei propri diritti negli Stati in cui hanno commesso i crimini politici. Anche i crimini internazionali, per le ragioni sottostanti e i contesti in cui vengono perpetrati, possono astrattamente assumere significati “politici”. Al fine di evitare ambiguità interpretative, la clausola di “depoliticizzazione” statuisce in termini espressi che gli autori dei crimini internazionali sono sottratti al riconoscimento di uno status privilegiato solo in ragione del tipo di crimine commesso, coerentemente con la scelta già operata con legge costituzionale n.1/1967 in relazione al crimine di genocidio.
L’evoluzione del quadro giuridico internazionale ed interno va, ormai dal secondo dopoguerra, nel senso della tendenza a “depolicitizzare”, ai fini dell’estradizione, delitti politicamente motivati in funzione della loro particolare gravità e di esigenze di cooperazione internazionale.
L’inserimento nel Codice dei crimini internazionali della clausola su estradizione e consegna, in definitiva, pone il sistema italiano in linea con una significativa tendenza riscontrabile a livello internazionale e comparato, contribuendo inoltre a chiarire il perimetro di operatività degli artt. 10 Cost. e 26 Cost., in coerenza con la l. cost. 21 giugno 1967, n. 1 in materia di genocidio. Il pregio di una simile delimitazione interpretativa si coglie anche nella prospettiva degli obblighi di cooperazione tra Stati. Tale disposizione rende conto della descritta diversità di fondamento ideologico-culturale sotteso alle disposizioni costituzionali, destinate a tutelare il cittadino o lo straniero dalle pretese punitive avanzate da Stati esteri. La dimensione offensiva dei crimini internazionali, infatti, è del tutto incompatibile con la ratio di protezione dell’estradando per il solo fatto che tali crimini possano essere determinati, in tutto o in parte, da motivi politici. Chiaro che, coerentemente con gli 14 artt. 10, co. 4 e 26, co. 2, Cost., tale articolato lascia invariate le normali clausole di salvaguardia dei diritti umani dell’estradando ai sensi dell’art.705 c.2 c.p.p., e sancite da numerosi trattati internazionali come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, la Convenzione contro la tortura. Anche nel caso dei crimini internazionali, questioni come il mancato rispetto dei diritti fondamentali nel paese richiedente o il rischio di tortura, per esempio, rimangono cause ostative all’estradizione, o consegna.
Il presente articolato fa inoltre riferimento alla consegna di persone alla Corte penale internazionale ai sensi degli artt. 11-12 della l.20 dicembre 2021, n. 237 per equiparare la disciplina estradizionale all’analogo meccanismo di trasferimento di persone previsto dall’art. 89 dello Statuto di Roma.
4.5. La Commissione si è soffermata sul delicato problema della eventuale incidenza delle immunità riconosciute dal diritto internazionale consuetudinario sull’esercizio della giurisdizione italiana in materia di crimini internazionali, in attuazione dell’art. 27 dello Statuto di Roma. Ha distinto in proposito tra immunità funzionale, che spetta agli individui che svolgono funzioni ufficiali per gli atti posti in essere nell’esercizio delle loro funzioni, e immunità personale riconosciuta alle più alte sfere statali (Capi di Stato, Capi di Governo, Ministri degli affari esteri) allo scopo di rappresentanza internazionale.
Quanto all’immunità funzionale, ha rilevato che, mentre è pacifico che rispetto alla giurisdizione di tribunali internazionali tale immunità venga meno nel caso di commissione di crimini internazionali, due tesi sussistono per quanto riguarda la giurisdizione dei tribunali penali nazionali: una più risalente favorevole al riconoscimento dell’immunità, l’altra più recente nel senso di un’eccezione alle immunità anche di fronte alla giurisdizione nazionale. Questa seconda posizione trova qualche riscontro nella giurisprudenza italiana e nel progetto di articoli della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, sia pure con l’opposizione di diversi Stati. La Commissione ha ritenuto che si debba accogliere questo aspetto dello sviluppo progressivo del diritto internazionale nel senso che l’immunità funzionale non operi rispetto ai crimini internazionali previsti dal Codice.
Con riferimento all’immunità personale, invece, si è rilevata l’affermazione della tendenza, confermata da pronunce della Corte internazionale di giustizia e della stessa Corte penale internazionale, a considerare l’art. 27(2) dello Statuto espressione di una norma internazionale consuetudinaria secondo la quale non vi è immunità personale di fronte a corti e tribunali internazionali nel caso di procedimenti relativi a crimini internazionali, mentre l’immunità viene riconosciuta nel contesto della giurisdizione dei tribunali penali nazionali, in relazione alla quale il diritto internazionale non sembra allo stato prevedere eccezioni per il caso in cui il soggetto che gode dell’immunità abbia commesso crimini internazionali ma non ci sia alcun provvedimento notificato dalla Corte penale internazionale, nel qual caso l’immunità verrebbe meno per consentire l’adempimento degli obblighi di cooperazione con la Corte stessa. In proposito la Commissione ha quindi ritenuto opportuno stabilire nel Codice che l’immunità personale opera rispetto alla giurisdizione nazionale anche per quanto riguarda i crimini internazionali da questo previsti, fatti salvi gli obblighi di 15 cooperazione con la Corte penale internazionale previsti dalla l. 20 dicembre 2012 n. 237. A completamento della norma, la Commissione ha ritenuto altresì opportuno aggiungere un riferimento alla cooperazione con altri tribunali penali internazionali eventualmente competenti al fine di favorire tale cooperazione senza la necessità di ulteriori specifici interventi legislativi.
4.6. La Commissione ha ritenuto di introdurre nel Codice l’istituto della responsabilità del comandante militare e del superiore civile, di cui all’art. 28 dello Statuto, che non è espressamente previsto nel nostro ordinamento interno.
Ai sensi dello Statuto, il comandante militare e il superiore civile rispondono penalmente a titolo omissivo dei crimini commessi dai subordinati, per non avere esercitato il proprio dovere di controllo su questi ultimi e non avere impedito/punito la commissione di crimini da parte degli stessi. Tale forma di responsabilità trova le sue origini in campo militare e in diritto internazionale umanitario e ha rango consuetudinario. La sua portata è stata estesa all’ambito civile dalla giurisprudenza dei tribunali ad hoc (ICTY, ICTR) e tale estensione è stata sancita nell’art. 28 dello Statuto di Roma. La norma ha una funzione importante non solo sul piano della repressione (estendendo la punibilità verso l’alto per il crimine commesso da altri), ma anche su quello della prevenzione, essendo basata su doveri di controllo.
La command responsibility non è direttamente prevista nell’ordinamento penale italiano, che tuttavia ben conosce le posizioni di garanzia, tra cui quelle volte all’impedimento del reato altrui, e le ipotesi di commissione mediante omissione di una condotta giuridicamente doverosa, secondo la clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2 c.p. (la quale, combinandosi con l’art. 110 c.p., può dar luogo ad un concorso doloso per omissione nel reato doloso altrui).
In osservanza ai principi di colpevolezza, di determinatezza della fattispecie e di proporzione della pena, la Commissione ritiene di scomporre le diverse ipotesi di command responsibility di cui all’art. 28 Statuto, tenendo conto delle differenze strutturali che intercorrono tra la mancata adozione di misure preventive/impeditive da un canto e di misure repressive/punitive dall’altro, nonché del diverso atteggiarsi dell’elemento psicologico. Si è deciso pertanto di procedere secondo il seguente schema tripartito: a) prevedere l’omesso impedimento doloso come reato omissivo improprio (combinato disposto tra la posizione di garanzia, volta all’impedimento del crimine del subordinato, e le singole fattispecie di parte speciale); b) introdurre una disposizione intesa a sanzionare l’omesso impedimento colposo del crimine doloso del subordinato (sul modello dell’art. 57 c.p.); c) introdurre una disposizione che disciplini le fattispecie di omessa punizione dolosa e omessa denuncia dolosa del crimine del subordinato come fattispecie omissive proprie. Queste ultime, non costituendo forme né di concorso né di agevolazione, ma un reato di violazione di doveri funzionali del tutto autonomo e successivo al crimine già realizzato, sono state collocate nel Capo V del Titolo II dedicato a fattispecie per così dire accessorie a quelle dei crimini internazionali.
- Omesso impedimento doloso
La norma si compone di due commi, rispettivamente dedicati alla responsabilità del comandante militare e del superiore civile per mancato impedimento del crimine del subordinato. La responsabilità del comandante/superiore per omesso impedimento doloso integra una forma di reato omissivo improprio, di carattere concorsuale, che si basa sulla esistenza di una corrispondente posizione di garanzia in diritto internazionale (cui implicitamente si rinvia, inserendo il riferimento ad un preesistente “obbligo”). La formula evoca la disciplina di cui agli artt. 40, comma, 2 e 110 e ss. c.p., in virtù della quale il comandante/superiore risponde del medesimo crimine commesso dal subordinato. Il crimine deve essere stato effettivamente commesso dai subordinati (almeno in forma tentata). Il crimine del subordinato rappresenta l’evento della fattispecie omissiva impropria e deve essere coperto dal dolo del superiore. Non si tratta di una responsabilità di posizione, quanto piuttosto – in conformità con i principi costituzionali – di una forma di imputazione per omesso impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuridico e il potere di impedire. Per il tramite e quale effetto di tale struttura del titolo della responsabilità, la Commissione intende insomma evitare dilatazioni improprie della command responsibility. Sulla stessa linea, si è anche voluto specificare che presupposto per l’operatività dell’obbligo, e l’attuazione dei poteri, di impedimento, sia una condizione di effettivo controllo sui subordinati.
- Omesso impedimento colposo
La Commissione propone un’ipotesi di agevolazione colposa propria del comandante militare e del superiore civile, da inserire nella parte generale del Codice dei Crimini internazionali. La responsabilità colposa del comandante/superiore per mancato impedimento dei crimini dei subordinati può essere assimilata, sul piano strutturale, alla forma di responsabilità prevista dall’art. 57 c.p., notoriamente relativa ai reati commessi a mezzo stampa. Tale norma introduce nel nostro ordinamento una responsabilità del direttore (o vicedirettore) per fatto proprio omissivo colposo, consistente nell’omesso esercizio del necessario controllo sul periodico che dirige, per impedire che siano commessi reati a mezzo stampa: il direttore è punito con la medesima pena stabilita per il reato commesso a mezzo stampa, diminuita fino ad un terzo. Si tratta di una figura speciale di agevolazione colposa del reato, applicabile, per espressa disposizione legislativa, al di fuori dei casi di concorso di persone nel reato. L’analogia con la struttura dell’omesso impedimento colposo di crimini commessi dai subordinati è evidente. In entrambi i casi, infatti, il presupposto della responsabilità del direttore/superiore risiede nel riconoscimento di una posizione di garanzia, volta alla protezione dei beni tutelati dalle norme che reprimono i reati che potrebbero essere commessi nella sfera di controllo dell’agente. Come per l’art. 57 c.p., la configurabilità di questa forma di responsabilità del superiore dipende dunque dalla commissione di un reato da parte di un subordinato. Si configura, quindi, un reato autonomo rispetto a quello commesso dal subordinato, la cui autonomia non è però da intendersi in senso assoluto: da un lato, vi è il fatto colposo del superiore e, dall’altro, l’evento-reato del subordinato. Il crimine del subordinato non sarebbe pertanto una mera condizione obiettiva di punibilità, bensì un elemento del fatto di reato, e più precisamente un evento, rappresentando ciò che sin dall’origine si vuole evitare attraverso l’imposizione del controllo. Tuttavia, perché il principio di proporzione sia soddisfatto, è necessario prevedere una pena diminuita – nella specie, da un terzo alla metà – in capo al superiore rispetto a quella comminata per il crimine commesso dal subordinato. La diminuzione della pena va introdotta anche allo scopo di evitare inaccettabili equiparazioni tra l’ipotesi di omesso impedimento doloso e quella di omesso impedimento colposo.
4.7. Il quadro della disciplina della command responsibility è completato da una disposizione definitoria, che precisi le nozioni di militare e di superiore civile ai fini del Codice dei crimini internazionali.
La disposizione chiarisce anzitutto che la figura del comandante militare è fondata su poteri di comando e controllo ed estende il concetto al comandante de facto, in linea con la disposizione di fonte internazionale. A differenza del comandante militare, il superiore civile non ha poteri di comando, ma è richiesto che abbia poteri di autorità e controllo sui subordinati del cui crimine deve eventualmente rispondere. Nella giurisprudenza dei tribunali penali internazionali si fa fondamentalmente riferimento ai civili che abbiano un potere di controllo sui subordinati comparabile a quello che si rinviene nelle strutture militari: tipicamente si tratta dei vertici politicoamministrativi statali, nazionali o locali, quali membri del governo, prefetti, sindaci, capi della polizia. Ma un controllo effettivo può riscontrarsi anche da parte di chi rivesta ruoli sovraordinati di carattere politico/partitico, economico, societario. Nella soluzione qui proposta, in linea con la norma internazionale e con le leggi di adeguamento di altri ordinamenti, non si è ritenuto di definire la nozione di superiore civile. Come richiede la giurisprudenza, ciò che rileva è che il potere di controllo derivi da una struttura gerarchica con un certo livello di stabilità e un’organizzazione indipendente dalla situazione contingente. In altri termini, per esservi superiore civile ai fini dell’imputazione di questa forma di responsabilità, occorre un rapporto di subordinazione analogo a quanto si riscontra in campo militare. Si deve trattare di veri e propri poteri di controllo inerenti allo specifico contesto in cui il crimine è stato commesso. Come ben chiarito dalla giurisprudenza ICTY, non sono sufficienti forme di controllo che dipendono solo da una relazione personale o da una “influenza sostanziale”. In questo senso pare importante riferirsi al rapporto di subordinazione, utilizzando la terminologia superiore, ad evitare che qualsiasi rapporto di lavoro e subordinazione privatistica possa trasformarsi in un obbligo di prevenzione e impedimento dei reati dei sottoposti.
4.8. In tema di esimenti la Commissione ha ritenuto di intervenire esclusivamente sull’adempimento dell’ordine del superiore e sull’uso legittimo delle armi.
Quanto all’adempimento dell’ordine del superiore, sia lo Statuto sia il diritto italiano costruiscono l’esimente secondo il criterio della manifesta criminosità dell’ordine. L’art. 51 c.p. prevede che, in caso di comando accolto ed eseguito, del reato commesso risponda il superiore che ha impartito l’ordine, secondo una disciplina corrispondente a ordinarie logiche concorsuali e che trova altresì corrispondenza nell’art. 25 (3)(b) dello Statuto. Prevede poi che possa operare una scusa a favore del subordinato quand’egli creda legittimo l’ordine per “errore di fatto” o quando sia 18 insindacabile, con il limite però della oggettiva manifesta criminosità dell’ordine ovvero della soggettiva consapevolezza della criminosità, secondo una logica fin qui sostanzialmente corrispondente a quella di cui all’art. 33 dello Statuto.
L’art. 51, co. 4, c.p., tuttavia, non distingue il proprio ambito applicativo in ragione della tipologia astratta di reati, e potrebbe in ipotesi consentire di scusare la commissione di crimini contro l’umanità o atti di genocidio. Lo Statuto, invece, presume la manifesta criminosità di queste due tipologie di core crimes. È peraltro improbabile che un giudice italiano consideri non manifestamente criminoso il comando di realizzare delitti di tale gravità, ed infatti la giurisprudenza ha già stabilito che azioni contrastanti con i più elementari principi di umanità risultano in sé “manifestamente criminose”. La criminosità potrebbe esser, invece, meno evidente rispetto ad alcuni crimini di guerra principalmente incentrati sulla violazione di ius in bello. Tuttavia, non si può escludere che la scusa operi, eccezionalmente, anche riguardo a crimini di genocidio e contro l’umanità, considerato che la tipizzazione talvolta elastica di tali fattispecie potrebbe attribuire rilievo in concreto a “condotte individuali” di minore offensività, e che tali condotte potrebbero essere dichiarate formalmente legittime o doverose dal diritto “interno”, così determinando nell’esecutore un disordine valoriale e percettivo particolarmente pronunciato ed eventualmente scusabile.
La Commissione ha pertanto ritenuto opportuno un intervento di adeguamento in tema di ordine del superiore, come proposto nell’articolato, non dissimile da quello compiuto nel §3 VStGB tedesco. La scelta è volta a fugare il rischio di maggiore permissività dell’ordinamento italiano se confrontato con le pretese statutarie, e la dissonanza rispetto al principio di colpevolezza è comunque ragionevole: la dottrina generalmente riconosce al legislatore un’ampia discrezionalità nel tipizzare i presupposti oggettivi di operatività delle scusanti, ed in questo caso la plausibilità della scelta compiuta dovrebbe emergere, tra l’altro, dalla corrispondenza a standard internazionali anche di rilievo consuetudinario.
4.9. L’esimente di cui all’art. 53 c.p., priva di corrispondenza nel diritto penale internazionale, esclude la responsabilità del pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, faccia uso o ordini di fare uso delle armi o altri strumenti di coazione fisica, quando costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità, o comunque allo scopo di impedire la consumazione di gravissimi delitti. Ipotesi speciali di tale causa di giustificazione sono l’art. 1, legge 100/1958 in materia di repressione del contrabbando, l’art. 41 legge 26 luglio 1975 n. 354, che riguarda l’impiego della forza fisica all’interno degli stabilimenti di pena, e l’art. 158 TULPS, che riguarda l’impedimento di passaggi abusivi attraverso valichi di frontiera non autorizzati. Come sottolineato dalla dottrina, gravano su queste disposizioni gravi dubbi di illegittimità costituzionale e di sospetto contrasto con l’art. 2 CEDU.
Un’ulteriore ipotesi speciale di uso legittimo delle armi è prevista all’art. 19 della legge 21 luglio 2016 n. 145 in materia di missioni militari internazionali.
È interessante notare come tale legge abbia già espressamente, ed opportunamente, escluso dall’ambito di operatività dell’esimente i crimini di competenza della Corte penale internazionale. Tanto considerato, la Commissione propone di inserire un’analoga clausola generale di non applicazione delle cause di giustificazione sull’uso legittimo delle armi in relazione a chi abbia consumato un delitto di cui al Codice dei Crimini internazionali. Si propone, altresì, di abrogare il cit. comma 4 dell’art 19 l. 145/2016, posto che il limite di operatività ivi previsto deriverebbe già dalla regola generale che si propone di introdurre nell’anzidetto Codice, sia pure con riferimento alle indicazioni dell’ordinamento italiano.
4.10. La Commissione propone l’introduzione di una circostanza attenuante speciale in caso di collaborazione processuale ovvero di impegno riparatorio in favore delle vittime. In questa stessa direzione la Rule 145 (Determination of sentence), al par.2(a)(ii) delle ICC Rules of Procedure and Evidence”, prevede: “The convicted person’s conduct after the act, including any efforts by the person to compensate the victims and any cooperation with the Court”. Per parte sua, l’ordinamento italiano conosce diverse previsioni di analogo tenore relative ai reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 4 d. l. 625/1979 convertito in l. 15/1980, artt. 2 e 3 l. 304/1982).
L’esigenza di un’attenuante modellata su comportamenti di “ravvedimento” appare particolarmente forte proprio in un campo come quello dei crimini internazionali. Se, da un lato, si tratta di crimini gravissimi, che attingeranno spesso i massimi livelli di pena consentiti dall’ordinamento anche in ragione del verosimile frequente concorso di pene e conseguente cumulo di pene, dall’altro lato tali crimini potranno anche costituire manifestazioni criminose legate a situazioni contingenti esercitanti un forte condizionamento motivazionale almeno su alcune tipologie di autori. Da qui l’esigenza di prevedere uno strumento che consenta al giudice di tener conto di queste peculiarità in caso di comportamenti successivi di “ravvedimento”.
La circostanza è strutturata su tre requisiti. I primi due sono cumulativi e consistono nella la “dissociazione” dal contesto criminoso e nella “piena confessione” del reato commesso; il terzo può alternativamente consistere o nell’aiuto fornito all’autorità per la scoperta di altri crimini del contesto e dei loro autori, oppure nell’efficace impegno riparatorio in favore delle vittime.
Considerando la particolarità dei crimini internazionali caratterizzati da indagini complesse e dilatate nel tempo, va ritenuta l’applicabilità in favor rei anche a distanza temporale molto lontana dal reato ove comunque vengano messe a disposizione dell’Autorità di polizia o giudiziaria elementi di conoscenza significativi e concreti. Per questo si è utilizzata la formula “prima della sentenza di condanna e in ogni fase e grado del processo”. Quanto agli effetti dell’attenuante si è ritenuto di attestarsi su una posizione di equilibrio: da un lato, la consistenza dell’effetto riduttivo della pena è abbastanza contenuto (l’ergastolo viene sostituito con la pena temporanea da 24 a 30 anni, la pena temporanea viene diminuita fino a un terzo); dall’altro, però, nel caso di concorso eterogeneo con circostanze aggravanti, queste ultime non potranno mai prevalere sull’attenuante.
4.11. L’art. 29 dello Statuto di Roma dispone che «I crimini di competenza della Corte non sono soggetti ad alcun termine di prescrizione». L’art. 7 del progetto si conforma allo Statuto dichiarando l’imprescrittibilità dei crimini internazionali previsti dai Capi I, II, III e IV del Titolo II del Codice: cioè dei core crimes. Rimangono, dunque, fuori dal campo di operatività della norma i reati previsti nel Capo V e cioè l’omessa punizione o l’omessa denuncia dolosa del crimine del subordinato e l’associazione per il compimento di crimini internazionali. L’esclusione è del tutto giustificata in ragione del fatto che si tratta di fattispecie in qualche mode accessorie a quelle dei crimini internazionali: la prima punisce un fatto successivo al crimine internazionale realizzato dal subordinato e consistente sostanzialmente in un mancato adempimento di un dovere d’ufficio; la seconda punisce un fatto prodromico alla futura e possibile realizzazione del crimine internazionale. E, pertanto, essendo chiara la loro natura strutturalmente e contenutisticamente diversa da quella dei crimini che attentano ai beni giuridici propriamente offesi dai crimini internazionali, sarebbe stata incongruo e ai limiti della illegittimità costituzionale l’assoggettamento al regime di imprescrittibilità.
Alla luce delle modifiche recate in materia dalla l. 27 settembre 2021, n. 134, che ha introdotto la nuova causa di improcedibilità per eccessiva durata del processo, si rende altresì necessario intervenire sul nuovo art. 344 bis c.p.p. Il comma 9 dell’art. 344 bis c.p.p. preclude l’applicazione della causa di improcedibilità ai procedimenti per i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti. In tale previsione va quindi aggiunto il riferimento ai crimini internazionali di cui ai Capi I, II, III e IV del Libro II del Codice, indipendentemente dalla pena comminata. E, coerentemente, i reati di cui al Capo V (omessa punizione e omessa denuncia dolosa del delitto del subordinato e associazione per commettere crimini internazionali) devono essere inseriti nel comma 4 dell’art. 344 bis c.p.p., ove è disciplinata la possibilità del prolungamento del termine per la improcedibilità.
4.12. Quanto alla confisca la Commissione ritiene che possa prevedersi la misura come obbligatoria, sia in forma diretta sia per equivalente, per tutti i crimini internazionali con riguardo alle cose che in tutto o in parte servirono o furono destinate a commettere il reato e dei beni, denaro o altre utilità che ne costituiscono il prodotto, il prezzo o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, nonché di ciò che consegue all’eventuale impiego di tale prodotto, prezzo o profitto.
Il testo dell’articolo redatto a questo riguardo è pertanto strutturato sulla falsariga del disposto degli artt. 240 e 322-ter del codice penale.
Circa la confisca in casi particolari di cui all’art. 240-bis c.p., è invece opinione della Commissione che ne sia inopportuna la previsione rispetto ai crimini internazionali. La c.d. confisca allargata porrebbe infatti in rapporto ad essi problemi di compatibilità costituzionale, cui si aggiungono non poche criticità legate al fatto che lo strumento previsto dal codice penale è nato per esigenze e finalità non coincidenti con quelle ora in considerazione e si fonda su presupposti difficilmente verificabili rispetto alle fattispecie di crimine internazionale.
4.13. La Commissione avanza la proposta di introdurre la responsabilità amministrativa da crimine internazionale per gli atti collettivi, da collocarsi nell’impianto del d.lgs. n. 23/2011.
Secondo una linea interpretativa condivisa, la circostanza che lo Statuto non contempli una previsione di tal fatta non rappresenta un impedimento all’introduzione in via autonoma dell’istituto. È linea metodologica cui la Commissione si è attenuta quella di evitare, ove possibile, arretramenti di tutela rispetto allo standard predisposto dallo Statuto e, viceversa, di consentire scelte legislative improntate a maggior rigore rispetto allo standard statutario, ove queste siano imposte o suggerite da stringenti vincoli di fonte costituzionale o da esigenze di coerenza interna al sistema normativo italiano.
La Commissione ha preso pertanto in considerazione gli argomenti, ampiamente rappresentati in dottrina e oggi recepiti in alcune decisioni giurisprudenziali straniere, che sottolineano il ruolo degli attori economici nella commissione dei crimini internazionali (“business complicity”).
Nel merito, la Commissione conviene sull’estrema delicatezza dell’intervento prospettato e sulla necessita di perimetrare le forme di responsabilità dell’ente, tenuto conto anche della circostanza che i crimini internazionali assumono rilevanza per effetto della sussistenza di un elemento di contesto che ne segnala il carattere tendenzialmente sistematico e comunque non episodico. Si tratta altresì di preservare lo svolgimento di attività economiche lecite che presentano intrinseche dimensioni di rischio (tipicamente la produzione e commercializzazione di materiale di armamento, ma anche la fornitura di software o tecnologia a duplice uso).
Nel comma 1, la Commissione ritiene di poter operare una selezione in ragione della rilevanza del contributo dell’ente, mediante l’impiego della seguente formula, attinta dall’art. 13 d.lgs. n. 231/2001 in tema di sanzioni interdittive: “Quando il reato sia stato determinato da gravi carenze organizzative”. Occorre chiarire che la formula è qui intesa sia per l’ipotesi in cui il reato sia espressione della politica aziendale, espressa dalla condotta dell’apicale, sia nel caso in cui esso risulti da una colpa di organizzazione che abbia consentito la commissione del crimine da parte del subordinato. Nel comma 2 sono individuate le ipotesi di condotte aggravate che possono dare luogo a sanzioni pecuniarie più elevate (da valutare con attenzione nella dosimetria sanzionatoria, tenendo conto del fatto che al comma 1 sono state già introdotte le sanzioni pecuniarie di massima entità contemplate nella parte generale del decreto). Nel comma 3 è prevista l’ipotesi di applicazione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 co. 2 senza esclusioni di sorta, al ricorrere delle consuete condizioni cui il d.lgs. n. 231/2001 assoggetta il ricorso a tali conseguenze punitive connotate da maggiore afflittività. Sul punto, la Commissione non ha inteso definire il quantum sanzionatorio, tenendo conto delle scelte dissonanti compiute dal legislatore con riferimento all’art. 25 del d.lgs., che impongono una attenta riflessione di sistema. Nel comma 4 è prevista l’ipotesi della c.d. impresa illecita sul modello degli artt. 24-ter e 25-quater del d.lgs. n. 231/2001, focalizzandosi sulla stabile destinazione dell’ente o di una sua unità organizzativa alla commissione dei crimini internazionali, cui consegue coerentemente l’applicazione della sanzione dell’interdizione definitiva 22 dell’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 16, co. 3 del suddetto decreto. Mediante il comma 5, la Commissione ritiene di escludere la responsabilità dell’ente in presenza di provvedimenti dell’autorità che autorizzino l’attività espletata. La Commissione suggerisce pertanto l’introduzione di una causa di non punibilità dell’ente (afferente sostanzialmente alla colpa di organizzazione e fondata sulla ‘buona fede’ dell’ente medesimo) formulata nei termini seguenti: “L’ente non risponde quando la condotta sia stata realizzata nel rispetto di provvedimenti dell’autorità”.
La disposizione modificativa del d.lgs. 231/2001 è contenuta nel Titolo III del Codice, mentre tra le disposizioni generali del Titolo I si trova una norma chiarificatrice per agevolare la visione sistematica dell’interprete dei rapporti tra Codice e d.lgs. 231/2001.
- I crimini di genocidio e contro l’umanità
5.1. Per quanto riguarda il genocidio, la Commissione ha apportato limitate modifiche alla risalente fattispecie della Convenzione del 1948, in modo da aggiornarne opportunamente l’ambito applicativo e garantirne un’adeguata armonizzazione lessicale e sistematica con l’ordinamento penale italiano. Pur nella consapevolezza della gravità del crimine e del rilievo del principale bene tutelato – l’esistenza del gruppo protetto – si è scelto di distinguere opportunamente le diverse fattispecie in considerazione del loro diverso livello di offensività, accentuato dalla natura di reato di pericolo del crimine.
Gli elementi unificanti delle varie fattispecie sono il dolo specifico di distruzione del gruppo, previsto dalla Convenzione del 1948, e un elemento contestuale (“agendo in un contesto di condotte… dirette a provocare la distruzione anche parziale del gruppo…”) redatto adattando l’espressione degli Elements of Crime della Corte Penale Internazionale, in modo da escludere le condotte inidonee a ledere o a mettere in pericolo il principale bene protetto e da evitare la deriva soggettivistica riscontrabile in alcune applicazioni giurisprudenziali internazionali.
La Commissione ha ritenuto peraltro di introdurre alcune significative innovazioni rispetto al quadro tradizionale.
In primo luogo, quanto al novero dei gruppi protetti si è bensì riproposta per ragioni di coerenza sistematica la formulazione della Convenzione del 1948, ripresa in termini letterali anche dallo Statuto di Roma e dall’art. 604 bis del codice penale, ma vi si è aggiunto altresì il gruppo linguistico, altrimenti irragionevolmente privo di tutela.
In secondo luogo, è stata aggiunta la fattispecie di costrizione ad atti sessuali di appartenenti ad un gruppo protetto di cui alla lett. d) in linea con la significativa giurisprudenza internazionale sul punto, in ragione della ricorrenza fenomenologica di tali condotte nelle situazioni nelle quali sono commessi i più 23 gravi crimini internazionali e la crescente sensibilità del legislatore interno ed internazionale sul tema.
In terzo luogo, è stata prevista la fattispecie di genocidio culturale, articolata in due gruppi di condotte di diversa offensività, al fine di assicurare la punizione di gravissimi atti, ricorrenti nella storia e nell’attualità, caratterizzati dall’intento di rimuovere le caratteristiche culturali, linguistiche o religiose che connotano un gruppo in modo che la sua identità vada perduta ed esso sia assimilato al gruppo dominante.
5.2. Per quanto riguarda i crimini contro l’umanità, la Commissione ha scelto, primariamente, di distinguere in diverse disposizioni incriminatrici i singoli crimini, in ragione della loro differente caratterizzazione quanto ad origine, fenomenologia criminologica, struttura tipica e livello di offensività. Elemento unificante è la partecipazione di tutte le condotte a un attacco esteso e sistematico a una popolazione civile (c.d. “elemento di contesto”), già pretesa dalle consuetudini internazionali. L’attacco è stato altresì definito come inerente al programma di uno Stato o di una organizzazione: scelta suggerita dallo Statuto di Roma, e utile a guadagnare tassatività e fruibilità processuale, nonché ad escludere che assurgano a crimine internazionale fenomeni che non sembrano averne il significato, come ad es. delitti commessi durante spontanei moti di piazza.
L’elemento di contesto appartiene al fatto tipico, nei termini di un (macro-) presupposto della condotta: esso, dunque, sarà oggetto solo della componente di “rappresentazione” del dolo, non potendo la “volontà” del reo concernere requisiti non condizionati dalle sue scelte perché trascendenti la condotta e ad essa preesistenti. In questi termini, il sistema italiano dovrebbe adeguarsi spontaneamente al diritto internazionale penale, che pretende la mera knowledge dell’attacco esteso e sistematico.
Si segnala che il crimine di Apartheid è costituito da un’ipotesi speciale dell’elemento di contesto (la generalizzata e istituzionalizzata politica di segregazione razziale è, invero, una particolare ipotesi di attacco a una popolazione civile), che, combinandosi con le singole condotte criminose, ne aggrava il disvalore.
5.3. Nella codificazione dei singoli crimini contro l’umanità, si è deciso di non troppo discostarsi dal significato delle definizioni dei crimini proposte dallo Statuto di Roma, per come precisate anche dagli Elements of crimes e dalla elaborazione giurisprudenziale e dottrinale. Non è mancata una considerazione del diritto consuetudinario e della giurisprudenza di altri Tribunali penali internazionali.
Si è tentato di corrispondere, altresì, a criteri, costituzionalmente imposti, di determinatezza, frammentarietà, praticabilità processuale e coerenza sistematica nella cornice del diritto penale italiano. Per tale ragione, salvo ne derivassero frizioni insanabili con lo Statuto di Roma, si sono preferiti termini noti alla tradizione italiana (ad es. “costringere”, “violenza o minaccia”, “atto sessuale”, “atti idonei”, “condizioni di vulnerabilità”, “lesioni gravi o gravissime”, “interruzione di gravidanza” ecc.). Ancora, salvo minimi discostamenti quando il delitto comune avesse contenuti non compatibili con un attacco esteso e sistematico (si pensi, nell’art.600 c.p., alla riduzione in schiavitù a fini di “accattonaggio”), o comunque con la fattispecie statutaria, si è operato per imitazione dei delitti del codice penale “affini” (ad es. omicidio, riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, tortura, arresto arbitrario, violenza sessuale, mutilazioni genitali). Opzione volta anche a rendere meglio governabili problemi di convergenza sulla stessa condotta di norme penali comuni e del Codice dei crimini internazionali.
Ancora, si è cercato di rendere processualmente dimostrabili requisiti, suggeriti dalle definizioni internazionali, in sé non sempre riconducibili ad evidenze oggettive. Così, nella fattispecie di tortura, non si pretende l’effettiva causazione (e dunque la prova) di “acute sofferenze” – che potrebbero essere “transeunti”, interiori, non lasciare segni obiettivi – bensì l’accertamento della idoneità ex ante della condotta a provocare quegli effetti; nella fattispecie di apartheid si è accompagnato il dolo specifico indicato dallo Statuto, orientato a una finalità invero fuori della portata del singolo reo (la perpetuazione del regime), a un dolo specifico più plausibile, volto soltanto alla “attuazione degli scopi” del regime nel caso singolo. Nello sterminio, in luogo del pericolo di uno sfuggente macroevento quale la “distruzione di una popolazione”, si è preferito parlare di idoneità della condotta a provocare morte o lesioni gravi o gravissime alle persone che a quella popolazione appartengono.
Come già ha fatto il legislatore tedesco, non si è recepita, perché gravemente indeterminata, la fattispecie di “altri atti inumani”, conosciuta dal diritto internazionale penale. In sua vece sono state distintamente codificate figure che la giurisprudenza e la dottrina han tratto da quella generica clausola, come il matrimonio forzato, o lesioni gravi o gravissime. Quanto alla tortura, la nozione derivante dalle consuetudini, che prescinde da un previo “rapporto di potere” tra torturatore e torturato, è apparsa troppo lata e imprecisa (considerato che già si prescindeva tanto dalla “qualifica pubblica” del soggetto attivo, quanto dal dolo specifico, pretesi dalla definizione della Convenzione ONU). Si è dunque optato per una formula che media tra quelle dello Statuto di Roma e dell’art.613 bis c.p. (di quest’ultima non riproducendo requisiti limitativi molto criticati in dottrina). Nella persecuzione, la poco perspicua condotta di “privare taluno di diritti fondamentali”, proposta dalle fonti internazionali, è stata resa più tassativa precisando le modalità della condotta e parlando altresì, piuttosto che di “privazione”, di un “impedimento dell’esercizio” di quei diritti.
5.4. In linea generale, si è posto attenzione al coordinamento lessicale e strutturale tra crimini contro l’umanità e analoghe ipotesi di genocidio, non solo per ragioni stilistiche, ma per prevenire dubbi circa le relazioni tra fattispecie, che potrebbero derivare vuoi da scelte lessicali irragionevolmente dissonanti, vuoi in caso di convergenza di più crimini internazionali sulla stessa condotta o sullo stesso fatto.
Salvo quando si trattasse di figure per loro natura a vittima “massiva” (ad es. lo sterminio), si è scelto di formulare l’incriminazione in rapporto a una sola vittima (ad es.: cagionare la morte di una persona), così che, quando le vittime dovessero in concreto essere più di una, opereranno le ordinarie regole in tema di concorso di reati e un proporzionale incremento del carico sanzionatorio. Di conseguenza, va sottolineato che, per quanto concerne in particolare il crimine dello sterminio, la sua repressione risulta articolata su un duplice livello. L’ipotesi di effettiva uccisione di più persone sarà “coperta” dal concorso di più omicidi consumati, cui corrisponderà un cumulo di ergastoli, e cioè la massima risposta sanzionatoria consentita dal nostro ordinamento. Per l’ipotesi, poi, in cui siano imposte a più persone condizioni di vita idonee a provocare la distruzione totale o parziale di una popolazione, anche senza che ne consegua la morte, l’articolato prevede la comminatoria della pena da dieci a ventiquattro anni, realizzando così un’anticipazione della tutela.
Si è optato, nel complesso, per un articolato il più possibile sintetico, di agevole lettura, al fine di evitare ridondanze che creano dubbi esegetici, e sul presupposto che non tutti i nodi debbano, o possano, essere sciolti dalla definizione legale (così, ad es., valuterà il giudice se nella figura della sparizione forzata per diniego di informazioni sullo stato di detenzione possano rientrare omissioni riferibili a privati che operino per una “organizzazione”, o se ciò entri in collisione con il nemo tenetur se detegere). In questa prospettiva, si è ad es. evitato di ribadire nella descrizione dei singoli crimini requisiti già desumibili dall’elemento di contesto (ad es. la partecipazione dello Stato o della organizzazione, fosse pure per sola acquiescenza, al crimine di “sparizione forzata”; le modalità delle condotte “costrittive”), nonché di replicare in articoli diversi fattispecie analoghe (ad es., la schiavitù sessuale, già ricompresa nel crimine di riduzione in servitù, non è richiamata nei crimini contro la libertà e dignità sessuale. La condotta di “arresto o sequestro illegali”, crimine di per sé nonché possibile presupposto, secondo il diritto internazionale, del crimine di sparizione forzata – il quale, tuttavia, può anche postulare un arresto “legale” – non è stata ribadita nel redigere l’articolo sulla sparizione forzata, invece riferito soltanto a una situazione contestuale o successiva – la custodia della vittima – comportante un obbligo di “informazione” penalmente sanzionato: in tal modo, risponderà di entrambi i delitti chi abbia dolosamente contribuito tanto alla indebita privazione della libertà personale, quanto alla successiva sparizione per diniego di informazioni, mentre sarà autore di un (solo) delitto chi sia responsabile solo della prima condotta, ovvero della seconda, detenendo un soggetto in origine legalmente arrestato, o non avendo dolosamente partecipato al previo sequestro o arresto illecito).
Sono state usate, quando inevitabile, formule elastiche, sul presupposto che l’elaborazione di diritto internazionale, l’orientamento impresso alla fattispecie dall’elemento di contesto, e ove previsto dal dolo specifico, fossero sufficienti a fornire loro determinatezza e conformità ai corrispondenti requisiti dei crimini internazionali. Così, il concetto di “trattamento inumano e degradante” trarrà significato dalla giurisprudenza CEDU; palpeggiamenti o “baci rubati” difficilmente potranno dirsi connessi a “un attacco esteso e sistematico alla popolazione civile”, e dunque non rientreranno nel concetto di “atti sessuali” gravemente offensivi della libertà e dignità sessuale.
Ove necessaria l’introduzione di elementi normativi (ad es. per distinguere l’arresto, o il trasferimento di persone, arbitrario da quello lecito; il diniego di informazioni sullo stato di detenzione non dovute da quelle essenziali ai fini dell’esercizio della difesa, ecc.), si è avuto cura di privilegiare rinvii al diritto internazionale ed evitare, invece, rimandi alla lex loci che potrebbe legittimare gravi violazioni di diritti fondamentali. In taluni casi, come in specie nel crimine di persecuzione, la fattispecie è esattamente concepita per attribuire rilievo penale (anche) ad atti legislativi, giudiziari o amministrativi dell’ordinamento interno di carattere intrinsecamente criminoso.
- I crimini di guerra
6.1. La formulazione dei crimini di guerra ha dovuto tener conto della pluralità delle fonti normative vigenti a livello sia nazionale sia internazionale e della necessità di coordinamento delle stesse, al fine soprattutto di limitare problemi in sede di interpretazione circa la sussistenza di concorsi tra norme o conflitti apparenti. Se la prima fonte a cui si è fatto riferimento è stato lo Statuto di Roma in ragione dell’obiettivo del presente Codice di adeguare ad esso l’ordinamento interno, sono stati altresì presi in considerazione in particolare il codice penale militare di guerra – in relazione al quale si è ritenuto di procedere a uno “svuotamento” delle norme relative a crimini di guerra da esso previste e alla loro allocazione delle stesse nel Codice – e la l. 16 aprile 2009 n. 45 di ratifica ed esecuzione del II Protocollo alla Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato del 26 marzo 1999).
Si è reso pertanto indispensabile un raffronto tra le fattispecie criminose previste dalle dette fonti al fine di snellire l’articolato, evitando le duplicazioni e raggruppando le fattispecie che presentassero gli stessi elementi costitutivi. Si è tuttavia ritenuto di posticipare ad un momento successivo l’abrogazione delle norme collocate nelle dette leggi speciali e trasposte ora nel Codice.
Al fine di codificare le disposizioni rispettando criteri sistematici e di inquadramento, la Commissione ha proceduto a una suddivisione tra crimini contro le persone protette e crimini relativi a mezzi e metodi di combattimento proibiti. Nella redazione dei singoli articoli, si è scelto di accorpare alcune dei crimini previsti nello Statuto di Roma, al fine di ottenere una struttura snella, seppure del tutto esaustiva, e più facilmente comprensibile. A questo fine si è anche cercato di amalgamare il più possibile la terminologia usata nello Statuto con quella adottata dal legislatore italiano, riprendendo termini giuridici del diritto penale italiano.
La Commissione si è posta il problema della differenziazione dei crimini di guerra in base alla natura internazionale o non del conflitto armato. Ha però concluso che, ai fini dell’applicazione di norme relative alla responsabilità penale individuale nell’ordinamento interno italiano, la distinzione non assume rilievo. In questa ottica si è mirato ad unificare la categoria dei crimini di guerra a prescindere dalla natura del conflitto armato. Il Codice prevede quindi che le condotte descritte costituiscono crimini di guerra se commesse nel corso di un conflitto armato, sia internazionale sia non internazionale, e collegate a tale conflitto.
Al fine di estendere il livello di protezione a tutti i contesti di fatto caratterizzati da una situazione di effettiva conflittualità si è ritenuto opportuno di inserire nell’articolato esplicite definizioni delle due tipologie di conflitto, anche per l’esigenza di “superare” la nozione di conflitto armato prevista nell’art. 165 co. 2 c.p.m.g., che appare disposizione per taluni aspetti superata e restrittiva rispetto a quanto previsto dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e dai relativi recenti Commentari.
Giova inoltre sottolineare l’espressa applicabilità delle disposizioni sui crimini di guerra alle missioni internazionali istituite nell’ambito di organizzazioni internazionali, o comunque in conformità al diritto internazionale, che prevedono l’utilizzo della forza armata da parte del personale impiegato. Si tratta di previsione in linea con le direttive delle Nazioni Unite che indicano i principi fondamentali e le regole del diritto internazionale umanitario applicabili alle Forze sotto l’egida delle Nazioni Unite impegnate in operazioni di mantenimento della pace, nonché con la prassi italiana evidenziata dal manuale di diritto umanitario dello Stato Maggiore della Difesa (SMD-G-014, 1991), e con la legislazione italiana espressa nel citato art. 165 co. 2 c.p.m.g. e nella più recente l. n.45 del 2016, che chiarisce perentoriamente che la partecipazione a missioni internazionali è consentita a condizione che avvenga nel rispetto “del diritto internazionale generale, del diritto internazionale dei diritti umani, del diritto internazionale umanitario e del diritto penale internazionale”.
6.2. In relazione ai singoli crimini la Commissione ha deciso, come per i crimini contro l’umanità, di non discostarsi troppo dalle descrizioni dello Statuto di Roma, seguendone anche l’ordine di presentazione. Il mancato rilievo della distinzione tra conflitti internazionali e conflitti non internazionali nel Codice ha peraltro comportato in taluni casi la estensione di crimini previsti nello Statuto solo per i conflitti internazionali anche a quelli interni. È il caso ad esempio del crimine di detenzione illegale, che il Codice prevede indipendentemente dalla natura del conflitto. È il caso ancora del crimine di trasferimento della popolazione civile che lo Statuto configura limitatamente e solo come “trasferimento, diretto o indiretto, e ad opera della Potenza occupante, di parte della propria popolazione civile nei territori occupati”. O ancora del crimine di privazione dei mezzi di sopravvivenza, di quello costituito dall’utilizzo di scudi umani e di quello dell’uso ingannevole e arbitrario della bandiera bianca. Analogamente, in qualche caso il mancato riferimento alla distinzione tra conflitti internazionali e non internazionali ha richiesto l’utilizzo di una terminologia differente che consentisse di riferire la condotta a tutti i conflitti armati indipendentemente dalla loro natura. Così, ad esempio, il riferimento operato nello Statuto a “cittadini della parte avversa” è stato sostituito con “soggetti appartenenti alla parte avversa”, nel caso del crimine di “privazione di diritti o azioni”.
Particolare attenzione la Commissione ha riservato ai crimini relativi al reclutamento e arruolamento nelle forze armate e di impiego di minori nelle ostilità. Va notato al riguardo che, mentre lo Statuto di Roma prevede l’età minima di quindici anni per l’arruolamento e la partecipazione di fanciulli alle ostilità, il Codice fissa tale età minima a diciotto anni, in considerazione del fatto che l’Italia ha ratificato il protocollo opzionale della Convenzione sui diritti del fanciullo relativo al coinvolgimento dei fanciulli nei conflitti armati, che prevede appunto il limite di diciotto anni in proposito.
Va rilevata anche la previsione di un’autonoma disposizione per l’attacco a beni culturali, in considerazione della particolare importanza del bene protetto e della conseguente necessità di prevedere pene maggiori, anche in virtù della differenza nel grado di protezione di cui godono i beni culturali secondo le convenzioni internazionali, nonché della necessità di armonizzare le disposizioni del Codice con quanto previsto dalla l. n 45 del 2009. Va altresì osservato a questo proposito che nella disposizione relativa al crimine di attacco a beni culturali si è anche considerata la categoria dei beni sottoposti a protezione speciale non menzionati nella citata l. n 45 del 2009, al fine di evitare lacune normative.
Mette ancora conto di indicare che la Commissione ha talora ritenuto opportuno accorpare in un’unica disposizione crimini previsti separatamente nello Statuto in ragione dell’assimilabilità dell’interesse protetto, come nel caso di attacchi a personale o beni di missioni di assistenza umanitaria o di mantenimento della pace o protetti dagli emblemi distintivi del diritto internazionale umanitario.
In altri casi si è preferito discostarsi dallo Statuto per aderire alla descrizione accolta in altri strumenti di diritto internazionale umanitario, come nel caso del principio di proporzionalità, in relazione al quale non è stato mantenuto l’avverbio “manifestamente” per qualificare i danni eccessivi rispetto ai vantaggi militari previsti in un attacco armato, poiché tale avverbio non figura nelle disposizioni del I Protocollo che vietano gli attacchi sproporzionati.
In altri casi la Commissione ha cercato di prevedere l’applicazione della norma descritta anche a situazioni future senza necessità di un ulteriore intervento legislativo, come ad esempio per il crimine di “impiego di mezzi di combattimento vietati”, per il quale la formulazione permette di comprendere in un’unica disposizione tutti i mezzi di combattimento (armi, sistema di armi o piattaforme impiegate nella condotta delle ostilità) attualmente vietati dalle convenzioni internazionali, senza ricorrere a un’elencazione analitica che potrebbe lasciare vuoti di tutela. Il rinvio ivi operato al diritto internazionale consuetudinario o alle convenzioni internazionali o a mezzi di combattimento che per loro natura colpiscono in modo indiscriminato o possono 29 causare mali superflui o sofferenze inutili consente infatti di prevedere la punibilità anche per l’utilizzo di tutte quelle armi attualmente esistenti ma non espressamente vietate dal diritto internazionale ovvero nuove armi che, per loro caratteristiche intrinseche, possono essere di natura indiscriminata o in grado di provocare mali superflui o sofferenze inutili.
Merita infine di segnalare che il progetto di Codice prevede il crimine di “diffusione del terrore tra la popolazione civile”, che non figura nello Statuto di Roma, ma che è apparso opportuno inserire nel Codice perché il divieto di compiere atti di tal genere è previsto all’art. 33 della IV Convenzione di Ginevra e agli artt. 51(2) e 13 rispettivamente del I e II Protocollo Aggiuntivo.
- Il crimine di aggressione
7.1. La formulazione del crimine individuale di aggressione, distinto dalla responsabilità dello Stato conseguente all’attività del suo agente che commette gli atti che costituiscono aggressione, riprende sostanzialmente la descrizione del crimine inserita nell’art. 8-bis dello Statuto di Roma alla conferenza di revisione di Kampala l’11 giugno 2010, la cui ratifica ed esecuzione sono state disposte con la l. 10 novembre 2021 n. 202.
Nella formulazione adottata dallo Statuto di Roma l’ambito criminoso delle condotte lesive del bene protetto dalle norme (prevalentemente consuetudinarie sul piano del diritto internazionale) che censurano sul piano della responsabilità penale individuale l’uso o la provocazione dell’uso illecito della forza armata da parte di uno Stato avrebbe potuto essere più ampio. La Commissione ha però ritenuto, trattandosi di crimine per il quale non esistono precedenti giurisprudenziali – se si eccettua la sentenza del Tribunale penale militare di Norimberga – di attenersi strettamente, nella redazione della norma penale da inserire nel Codice, al testo dell’art. 8-bis dello Statuto. Viene consentita in tal modo una piena attuazione degli obblighi internazionali ma resta al tempo stesso impregiudicata l’applicazione da parte degli organi giudiziari italiani delle norme del codice penale (artt. 241 ss. c.p.). Si è anche ritenuto che i possibili conflitti apparenti di norme coesistenti derivati dall’entrata in vigore del crimine di nuova introduzione vadano risolti dal giudice in sede interpretativa. Quanto alla pena, data la gravità delle condotte descritte, per il crimine di aggressione la Commissione ha previsto la pena dell’ergastolo.
- Le altre disposizioni incriminatrici “accessorie”
8.1. Come già detto in precedenza, la Commissione ha ritenuto di scomporre il quadro della command responsibility in due fattispecie di sostanziale concorso nel crimine del subordinato, mediante omesso impedimento doloso o colposo (v. retro), e in una terza fattispecie di reato autonomo e successivo al crimine del subordinato, consistente nell’omessa punizione ovvero nell’omessa denuncia di quest’ultimo.
Si propone, dunque, di introdurre una disposizione che punisca più condotte proprie del comandante militare e del superiore civile. La fattispecie in questione è costruita su due commi, ciascuno dei quali punisce il comportamento del superiore, militare o civile, posteriore alla notizia della commissione di crimini da parte dei subordinati. Nella proposta qui presentata si è voluto meglio specificare, nel primo comma, l’autonomo dovere di punizione che grava sul comandante militare (a differenza del superiore civile) che in determinate circostanze può e deve procedere con la sanzione disciplinare del subordinato autore di uno dei crimini di cui alla presente legge. Il primo comma sanziona, quindi, il solo comandante militare per l’omessa punizione del subordinato che abbia commesso un crimine internazionale. La mancata tempestiva denuncia alle autorità competenti, al fine di permettere le indagini e l’apertura di un procedimento sui crimini commessi, viene invece punita nel secondo comma, ove a realizzarla sia tanto il comandante militare quanto il superiore civile. Si tratta di reati omissivi propri, punibili solo a titolo doloso, autonomi rispetto alla fattispecie criminosa integrata dal comportamento del subordinato. In funzione limitativa, e in conformità alla tradizione codificatoria italiana (v. ad es. art. 361 c.p.), si precisa che la notizia che fa da premessa all’obbligo penalmente sanzionato è solo quella appresa “nell’esercizio o a causa delle sue attribuzioni”.
8.2. La Commissione ha ritenuto, pure con l’opinione contraria di alcuni suoi componenti, di prevedere una fattispecie di reato associativo per il compimento di uno o più dei crimini internazionali previsti dal codice.
L’opinione contraria si fonda principalmente sulla considerazione che la fattispecie associativa sarebbe ignota al diritto internazionale consuetudinario, con la conseguenza che l’Italia potrebbe non ottenere assistenza dagli altri Stati per un tale reato; inoltre, la fattispecie associativa sarebbe eccentrica rispetto al sistema dei reati nella quale la si vorrebbe innestare e non sarebbe in grado di aiutare a risolvere le problematiche della disciplina della partecipazione plurisoggettiva al reato.
La maggioranza della Commissione ha ritenuto che dallo Statuto sia ricavabile la previsione di una responsabilità ulteriore e diversa rispetto a quella della partecipazione concorsuale, individuabile nel richiamo (art. 25 (3) (d)) a “un gruppo di persone agenti con un proposito comune”: anzi, si è ritenuto di dover estendere la portata dell’associazione all’ipotesi in cui la finalità criminosa s’identifichi con la commissione anche di un solo crimine. Ritenuto poi che il problema del rapporto tra realizzazione plurisoggettiva del reato e responsabilità per reato associativo si ponga su un altro piano e investa comunque qualunque fattispecie associativa, determinante è stato il rilievo di ordine sistematico. E’ apparso, infatti, incongruo ed irragionevole che, in un sistema come il nostro in cui proliferano i reati associativi, l’ipotesi – tutt’altro che irrealistica – di un gruppo che si proponga la commissione proprio dei più gravi crimini internazionali, cioè l’ipotesi in assoluto più grave di associazione criminosa, sia sanzionabile alla stregua della semplice associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p.
ALLEGATI
Allegato 1: Disposizione relativa alle situazioni eccezionali tali da comportare la sospensione del trattamento penitenziario per i condannati di crimini internazionali:
Articolo XY
(Situazioni di emergenza)
- Quando ricorrono gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, il Ministro della giustizia ha la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalle norme generali di ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti e internati per taluno dei reati di cui al presente Codice, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere l’attualità di collegamenti con le milizie, i raggruppamenti o le entità politiche che hanno concorso alla consumazione dei reati o li hanno consentiti.
- La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con le milizie, i raggruppamenti o le entità politiche di cui al comma precedente.
- Il provvedimento è adottato con decreto motivato del Ministro della giustizia, ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni, quando risulta che la capacità di mantenere i collegamenti di cui ai commi precedenti non è venuta meno, tenuto conto anche degli esiti del trattamento penitenziario.
- In materia di procedura, di reclamo e di impugnazione si applicano le disposizioni previste dall’art. 41 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni. Le altre disposizioni di cui al medesimo articolo si applicano in quanto compatibili.
Allegato 2: Elenco delle disposizioni del c.p.m.g. suscettibili di abrogazione espressa
Codice dei crimini internazionali (numeri dell’articolato non disponibile) | Disposizioni vigenti per le quali va valutata la totale o parziale abrogazione |
Ambito di applicazione | Cpmg Art. 9 – Corpi di spedizione all’estero; Art.165. Applicazione della legge penale militare di guerra in relazione ai conflitti armati. |
Omicidio volontario | Cpmg Art. 185 – Violenza di militari italiani contro privati nemici o di abitanti dei territori occupati contro militari italiani |
Tortura e altri trattamenti crudeli e inumani | Cpmg Art.185-bis – Altre offese contro persone protette dalle convenzioni internazionali; Art.211. Violenza, minaccia o ingiuria, in generale; Art.212. Costringimento a dare informazioni o a compiere lavori vietati |
Lesioni personali | Cpmg Art.185-bis – Altre offese contro persone protette dalle convenzioni internazionali; Art. 194. Violenza contro le persone addette al servizio sanitario e i ministri del culto; Art. 198. Arbitrario disconoscimento della qualità di legittimo belligerante; Art.209. Sevizie o maltrattamenti. |
Cattura di ostaggi | Cpmg Art. 184-bis Cattura di ostaggi |
Violazione della dignità personale | Cpmg Art.185-bis – Altre offese contro persone protette dalle convenzioni internazionali; Art. 192 – Maltrattamenti verso infermi, feriti o naufraghi; Art. 193. Spogliazione d’infermi, feriti o naufraghi; Art.210. Vilipendio. |
Mutilazione, vilipendio o sottrazione di cadavere | Cpmg Art. 196. – Mutilazione, vilipendio o sottrazione di cadavere |
Esperimenti medici, scientifici o biologici | Cpmg Art.185-bis – Altre offese contro persone protette dalle convenzioni internazionali |
Deportazione, trasferimento o detenzione illegale | Cpmg Art. 195. Omesso rilascio di persone addette al servizio sanitario o di ministri del culto |
Partecipazione forzata alle ostilità | Cpmg Art. 185 Costringimento di sudditi nemici a partecipare alle operazioni militari o a favorirle |
Attacchi ai civili | art. 42 della legge di guerra, allegato A al R.D. 8 luglio 1938, n. 1415 rubricato “Divieto di bombardamento”; Art. 194. Violenza contro le persone addette al servizio sanitario e i ministri del culto. |
Attacchi a beni protetti | Cpmg Art. 187 – Incendio, distruzione o grave danneggiamento in paese nemico |
Attacchi a beni culturali | Cpmg Art. 187 – Incendio, distruzione o grave danneggiamento in paese nemico; L. 45/2009 Art. 7 – Attacco e distruzione di beni culturali; Art. 9 – Devastazione e saccheggio di beni culturali protetti; Art. 13 – Causa di esclusione della punibilità |
Attacchi a personale o beni di missioni di assistenza umanitaria o di mantenimento della pace o protetti dagli emblemi distintivi del diritto internazionale umanitario | Cpmg Art. 191 – Uso delle armi contro ambulanze, ospedali, navi o aeromobili sanitari o contro il personale addettovi |
Danni collaterali eccessivi | Cpmg Art.174. Comandante che ordina o autorizza l’uso di mezzi di guerra vietati; Art.175. Uso di mezzi di guerra vietati, da parte di persona diversa dal comandante |
Impiego di mezzi di combattimento vietati | Cpmg Art.174. Comandante che ordina o autorizza l’uso di mezzi di guerra vietati |
Saccheggio, devastazione e appropriazione illecita di beni su larga scala | Cpmg Art. 186 – Saccheggio |
Diniego di quartiere | R.D. 8 luglio 1938, 1414 di approvazione delle leggi di guerra Capo II prevede tra gli atti bellici vietati “dichiarare che non si dà quartiere”; Cpmg Art.174. Comandante che ordina o autorizza l’uso di mezzi di guerra vietati; Art.175. Uso di mezzi di guerra vietati, da parte di persona diversa dal comandante |
Perfidia | Cpmg Art. 177.Violenza proditoria. Resa a discrezione |
Testo delle norme vigenti citate
Codice militare penale di guerra di cui al REGIO DECRETO 20 febbraio 1941, n. 303
Art. 9 – Corpi di spedizione all’estero
- Sino alla entrata in vigore di una nuova legge organica sulla materia penale militare, sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari armate, dal momento in cui si inizia il passaggio dei confini dello Stato o dal momento dell’imbarco in nave o aeromobile ovvero, per gli equipaggi di questi, dal momento in cui è ad essi comunicata la destinazione alla spedizione. 2. Limitatamente ai fatti connessi con le operazioni all’estero di cui al primo comma, la legge penale militare di guerra si applica anche al personale militare di comando e controllo e di supporto del corpo di spedizione che resta nel territorio nazionale o che si trova nel territorio di altri paesi, dal momento in cui è ad esso comunicata l’assegnazione a dette funzioni, per i fatti commessi a causa o in occasione del servizio.
Art.165. Applicazione della legge penale militare di guerra in relazione ai conflitti armati.
Le disposizioni del presente titolo si applicano in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra. Ai fini della legge penale militare di guerra, per conflitto armato si intende il conflitto in cui una almeno delle parti fa uso militarmente organizzato e prolungato delle armi nei confronti di un’altra per lo svolgimento di operazioni belliche. In attesa dell’emanazione di una normativa che disciplini organicamente la materia, le disposizioni del presente titolo si applicano alle operazioni militari armate svolte all’estero dalle forze armate italiane.
Art.174. Comandante che ordina o autorizza l’uso di mezzi di guerra vietati.
Il comandante di una forza militare, che, per nuocere al nemico, ordina o autorizza l’uso di alcuno dei mezzi o dei modi di guerra vietati (1) dalla legge o dalle convenzioni internazionali, o comunque contrari all’onore militare, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni, salvo che il fatto sia preveduto come reato da una speciale disposizione di legge. Se dal fatto è derivata strage, si applica la reclusione non inferiore a dieci anni. (1) Vedi l’art. 35 della legge di guerra, allegato A al R.D. 8 luglio 1938, n. 1415.
Art.175. Uso di mezzi di guerra vietati, da parte di persona diversa dal comandante.
Le pene stabilite dall’articolo precedente si applicano anche a chiunque, per nuocere al nemico, adopera mezzi o usa modi vietati dalla legge o dalle convenzioni internazionali, o comunque contrari all’onore militare. Tuttavia, la pena può essere diminuita.
Art. 177. Violenza proditoria. Resa a discrezione
Chiunque, violando la legge o le convenzioni internazionali, usa proditoriamente violenza a una persona appartenente allo Stato nemico, è punito con la reclusione da uno a quindici anni, se dal fatto è derivata una lesione personale, e con l’ergastolo, se dal fatto è derivata la morte.
Art.182. Costringimento di sudditi nemici a partecipare alle operazioni militari o a favorirle.
Il militare, che, nel territorio dello Stato nemico occupato dalle forze armate dello Stato italiano, o in qualsiasi altro luogo, costringe un suddito nemico (1) a partecipare ad azioni di guerra contro il proprio paese, ovvero a favorirne in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito con la reclusione militare non inferiore a tre anni. La disposizione del comma recedente non si applica, se il fatto è commesso contro sudditi nemici, che possiedono in pari tempo la nazionalità italiana, o che, comunque, siano soggetti agli obblighi del servizio militare, a norma della legge sulla cittadinanza. (1) Vedi l’art. 37 della legge di guerra, allegato A al R.D. 8 luglio 1938, n. 1415.
Art. 184-bis Cattura di ostaggi
Il militare che viola i divieti della cattura di ostaggi previsti dalle norme sui conflitti armati internazionali è punito con la reclusione militare da due a dieci anni. La stessa pena si applica al militare che minaccia di ferire o di uccidere una persona non in armi o non in atteggiamento ostile, catturata o fermata per cause non estranee alla guerra, al fine di costringere alla consegna di persone o cose. Se la violenza è attuata si applica l’articolo 185 Aggiornato con LEGGE 31 gennaio 2002, n. 6 34
Art. 185 – Violenza di militari italiani contro privati nemici o di abitanti dei territori occupati contro militari italiani
Il militare, che, senza necessità o, comunque, senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra, usa violenza contro privati nemici, che non prendono parte alle operazioni militari, è punito con la reclusione militare ((fino a cinque anni)). Se la violenza consiste nell’omicidio, ancorché’ tentato o preterintenzionale, o in una lesione personale gravissima o grave, si applicano le pene stabilite dal codice penale. Tuttavia, la pena detentiva temporanea può essere aumentata. Le stesse pene si applicano agli abitanti del territorio dello Stato nemico occupato dalle forze armate dello Stato italiano, i quali usano violenza contro alcuna delle persone a esse appartenenti.
Art.185-bis – Altre offese contro persone protette dalle convenzioni internazionali
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il militare che, per cause non estranee alla guerra, compie atti di tortura o altri trattamenti inumani, trasferimenti illegali, ovvero altre condotte vietategli dalle convenzioni internazionali, inclusi gli esperimenti biologici o i trattamenti medici non giustificati dallo stato di salute, in danno di prigionieri di guerra o di civili o di altre persone protette dalle convenzioni internazionali medesime, è punito con la reclusione militare da due a cinque anni
Art. 186 – Saccheggio
Chiunque commette un fatto diretto a portare il saccheggio in città o altri luoghi, ancorché presi d’assalto, è punito con la morte (1) con degradazione
Art. 187 – Incendio, distruzione o grave danneggiamento in paese nemico
- Chiunque, in paese nemico, senza essere costretto dalla necessità delle operazioni militari, appicca il fuoco a una casa o a un edificio, o con qualsiasi altro mezzo li distrugge, è punito con la reclusione non inferiore a quindici anni.
- Se dal fatto è derivata la morte di una o più persone, si applica la pena di morte con degradazione.
- Le stesse disposizioni si applicano nel caso d’incendio o distruzione o grave danneggiamento di monumenti storici, di opere d’arte o scientifiche, ovvero di stabilimenti destinati ai culti, alla beneficenza, alla istruzione, alle arti o alle scienze, ancorchè appartenenti allo Stato nemico.
Art. 191 – Uso delle armi contro ambulanze, ospedali, navi o aeromobili sanitari o contro il personale addettovi
Chiunque fa uso delle armi contro ambulanze, ospedali, formazioni mobili sanitarie, stabilimenti fissi per il servizio sanitario, navi-ospedale, navi ospedaliere o rispettive imbarcazioni, aeromobili sanitari addetti al servizio militare e ogni altro luogo di ricovero o cura di infermi o feriti, ovvero contro il personale addettovi, quando a norma della legge o delle convenzioni internazionali devono considerarsi rispettati e protetti, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la pena della reclusione militare non inferiore a dieci anni.
Art. 192 -Maltrattamenti verso infermi, feriti o naufraghi
Chiunque usa maltrattamenti contro infermi, feriti o naufraghi, ancorché nemici, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni. Se i maltrattamenti sono gravi, o trattasi di sevizie, la reclusione non è inferiore a dieci anni; e, se il fatto è inoltre commesso da un incaricato del trasporto o dell’assistenza dell’infermo, del ferito o del naufrago, si applica l’ergastolo. Si applica la pena di morte con degradazione, se dal fatto è derivata la morte dell’infermo, del ferito o del naufrago. ((38a))
Art. 193. Spogliazione d’infermi, feriti o naufraghi.
Chiunque spoglia infermi, feriti o naufraghi, ancorché nemici, ovvero sottrae a essi denaro o altri oggetti, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Se il fatto è commesso con violenza contro la persona, la reclusione non è inferiore a dieci anni. Se il colpevole è un incaricato del trasporto o della assistenza dell’infermo, ferito o naufrago, si applica: 1) la reclusione non inferiore a quindici anni, nel caso preveduto dal primo comma; 2) l’ergastolo, nel caso preveduto dal secondo comma. Si applica la pena di morte (1) con 35 degradazione, se dal fatto è derivata la morte dell’infermo, del ferito o del naufrago. (1) Vedasi nota all’art. 25.
Art. 194. Violenza contro le persone addette al servizio sanitario e i ministri del culto.
Fuori del caso preveduto dall’articolo 191, chiunque usa violenza contro alcuna delle persone regolarmente addette al servizio sanitario, quando a norma della legge o delle convenzioni internazionali devono essere rispettate e protette, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni. La stessa pena si applica, se il fatto è commesso contro alcuno dei ministri del culto addetti alle Forze armate. Se la violenza consiste nell’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, o in una lesione personale gravissima, si applicano le corrispondenti pene stabilite dal codice penale. Tuttavia, la pena detentiva temporanea è aumentata.
Art. 196. – Mutilazione, vilipendio o sottrazione di cadavere
Chiunque mutila o deturpa il cadavere di un militare caduto in guerra, o commette sopra di esso atti di vilipendio, o, comunque, atti di brutalità o di oscenità, ovvero sottrae per intero o in parte il cadavere, e’ punito con la reclusione non inferiore a dieci anni.
Art. 198. Arbitrario disconoscimento della qualità di legittimo belligerante.
Il comandante, che, non usando verso i legittimi belligeranti nemici caduti in suo potere, ovvero infermi, feriti o naufraghi, il trattamento preveduto dalla legge o dalle convenzioni internazionali, cagiona grave danno alle persone suindicate, ovvero determina l’uso di rappresaglie, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare non inferiore a tre anni.
Art.209. Sevizie o maltrattamenti.
Il militare incaricato della scorta, vigilanza o custodia di prigionieri di guerra (1), che, abusando di questa sua qualità, commette, per qualsiasi motivo, sevizie o maltrattamenti verso un prigioniero di guerra è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare da due a dieci anni. (1) Vedi gli artt. 99 e 106 della legge di guerra, allegato A al R.D. 8 luglio 1938, n. 1415, e la L. 27 ottobre 1951, n. 1739, di ratifica ed esecuzione della Convenzione firmata a Ginevra l’8 dicembre 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra.
Art.210. Vilipendio.
Il militare, che vilipende un prigioniero di guerra, in sua presenza e per questa sua qualità, è punito con la reclusione militare fino a tre anni.
Articolo 211 – Violenza, minaccia o ingiuria, in generale.
Fuori dei casi preveduti dai due articoli precedenti, il militare, che usa violenza [c.p.m.p. 43] o minaccia o commette ingiuria contro un prigioniero di guerra, è punito con le stesse pene, che la legge stabilisce per tali fatti quando sono commessi da un militare contro un suo inferiore. La stessa disposizione si applica [c.p.m.p. 195, 196] relativamente al prigioniero di guerra preposto dall’autorità militare italiana alla disciplina del drappello o reparto di prigionieri, quando egli commette alcuno dei fatti suindicati contro un prigioniero di guerra del drappello o reparto.
Articolo 212 – Costringimento a dare informazioni o a compiere lavori vietati
- E’ punito con la reclusione militare da due a sette anni chiunque usa violenza o minaccia verso uno o più prigionieri di guerra:
1) per costringerli a dare informazioni, che possano compromettere gli interessi della loro patria, ovvero delle forze armate a cui appartengono;
2) per costringerli a lavori, che abbiano diretto rapporto con le operazioni della guerra, o che, comunque, siano specificamente vietati dalla legge o dalle convenzioni internazionali.
- Se la violenza consiste nell’omicidio, ancorché tentato o preterintenzionale, o in una lesione gravissima o grave, si applicano le corrispondenti pene del codice penale. Tuttavia, la pena detentiva temporanea può essere aumentata.
legge 16 aprile 2009 n. 45 ABROGARE/RIFORMULARE GLI ARTT. 7, 9 e 13
Art. 7 – Attacco e distruzione di beni culturali
- Chiunque attacca un bene culturale protetto dalla Convenzione è punito con la reclusione da quattro a dodici anni.
- Se il fatto previsto dal comma 1 è commesso su un bene culturale sottoposto a protezione rafforzata, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni.
- Le pene stabilite dai commi 1 e 2 sono aumentate se al fatto consegue il danneggiamento, il deterioramento o la distruzione del bene.
Art. 9 – Devastazione e saccheggio di beni culturali protetti
- Chiunque commette fatti di devastazione ai danni di beni culturali protetti dalla Convenzione o dal Protocollo, è punito con la reclusione da otto a quindici anni.
- Le pene stabilite dal comma 1 si applicano anche a chiunque saccheggia beni culturali protetti dalla Convenzione o dal Protocollo.
Art. 13 – Causa di esclusione della punibilità
- Non è punibile chi commette i fatti di cui agli articoli 7 e 8 per esservi costretto da una necessità militare imperativa ai sensi dell’articolo 6 del Protocollo.
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