Recenti sviluppi in tema di fine-vita e assistenza al suicidio nella giurisprudenza costituzionale italiana e tedesca
SOMMARIO: 1. Introduzione. Il fine-vita tra bioetica e biodiritto – 2. Recenti sviluppi sul fine-vita in Italia: il “caso Cappato/Antoniani” e la sentenza n.242/2019 della Corte Costituzionale – 3. “Oltre” il fine-vita: il quadro normativo e la pronuncia del BVerfG in Germania – 3.1 La normativa tedesca in tema di Sterbehilfe – 3.1.1 Il controverso reato di “favoreggiamento commerciale del suicidio” (art. 217 StGB) – 3.2 La recente sentenza del BVerfG: necessità e riconoscimento del diritto infelice a una morte autodeterminata – 4. Osservazioni conclusive e prospettive de iure condendo
- Introduzione. Il fine-vita tra bioetica e biodiritto
Il tema del fine vita e dell’assistenza al suicidio – eticamente sensibile e divisivo – ha guadagnato negli ultimi decenni grande interesse da parte della bioetica, che da sempre vede contrapporsi sul tema due opposte e inconciliabili filosofie: quella laica, fondata sulla teoria della disponibilità della vita, e quella religiosa, fondata invece sulla teoria della sacralità della vita, per la quale quest’ultima, in quanto donum, è da considerarsi un bene indisponibile all’uomo.
Tralasciando l’annoso dibattito etico sul fine vita, certamente degno d’attenzione ma pressoché inestinguibile, l’argomento si è posto da alcuni decenni come “problematico” anche per il diritto che, come sappiamo, spesso fatica ad adeguarsi prontamente a cambiamenti repentini della realtà cui si riferisce e, aggiungerei, a rimanere scevro dalle influenze delle posizioni confessionali su temi etici, quale il fine vita.
In riferimento al primo ostacolo che il diritto incontra nel disciplinare la materia, si deve necessariamente riscontrare, sul piano fattuale, l’innegabile progresso tecnologico e delle conoscenze della medicina negli ultimi decenni, uno sviluppo di cui l’uomo può andarne altamente fiero, in quanto è il più prezioso tra tutti i progressi conseguiti nella nostra epoca. Grazie a tale sviluppo è stato infatti possibile debellare alcune malattie, curarle meglio, migliorare la nostra aspettativa di vita e, più in generale, migliorare il nostro benessere misurato in termini di salute. Le nuove tecnologie rendono infatti possibile la sopravvivenza anche in seguito a traumi e malattie che in passato portavano in tempi celeri ad una morte certa. Le “macchine”, simbolo del nostro tempo, sono quindi in grado di sostituire funzioni vitali come la respirazione, la circolazione sanguigna, la funzione renale che l’organismo malato non è in grado di svolgere da solo, mantenendolo artificialmente in vita finché la cura non faccia effetto o sia disponibile un organo per il trapianto. La finalità è che l’efficacia della cura possa poi consentire di sospendere il funzionamento delle macchine grazie al recupero della salute del paziente. Quando ciò non accade, la sopravvivenza è affidata alle macchine.[1] In questi casi, ovvero quando la vita viene sostenuta artificialmente, si pone il problema delle decisioni relative all’uso dei dispositivi medici, della loro appropriatezza, dei costi sostenibili e dei limiti di durata, ingenerando inevitabilmente questioni etiche e giuridiche. A fronte di tali infelici circostanze, si potrebbe quasi dire che diventa difficile morire, in quanto la morte si tramuta in un percorso a tappe, che talvolta può durare addirittura anni, al punto che l’uomo moderno “ha paura di non riuscire a morire, di essere tenuto in vita come un simulacro di sé stesso”.[2]
Quanto al rapporto tra diritto e religione nella disciplina del fine vita, appare evidente – oltre alla complessità di disciplinare normativamente determinati argomenti – la difficoltà di conciliare la tutela dei beni giuridici biologici della persona con il principio di laicità, che richiede di delimitare la punizione ai soli casi ove sussiste la necessità di salvaguardare autentici beni giuridici non altrimenti efficacemente tutelabili.[3] Da qui la contrapposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica, di cui si è introduttivamente accennato.[4] Si tenga conto che, sul tema, l’ordinamento giuridico italiano si orienta rispondendo proprio al principio di indisponibilità della vita umana, alla luce di quanto disposto dagli artt. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, 575, 576, 577, 579 e 580 c.p., che puniscono, in particolare, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. L’orientamento è tuttavia stato parzialmente corretto negli ultimi anni – come si vedrà – in via giurisprudenziale e con l’intervento del Legislatore con l’introduzione della legge n.219/2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento. Ciononostante, la controversa materia del fine vita non può dirsi compiutamente legiferata, come del resto la Corte costituzionale stessa rileva, in attesa che il Parlamento intervenga a risolvere le aporie di una legislazione al momento lacunosa, soprattutto in riferimento al regime sanzionatorio della condotta di favoreggiamento e assistenza al suicidio.
Alle suddette controverse vicissitudini di natura giuridica non è estraneo l’ordinamento tedesco e, al riguardo, merita – nei paragrafi seguenti – ampia attenzione la sua disciplina normativa in tema di assistenza al suicidio e la recente declaratoria di incostituzionalità dell’art.217 StGB (Strafgesetzbuch, o codice penale tedesco) nella sentenza del 26 febbraio 2020 del BVerfG (Corte Costituzionale tedesca), che rappresenta un “azzardato” cambio di paradigma interpretativo, dapprima sconosciuto, o comunque mai operato in questi termini, dalle giurisdizioni statali europee e quella sovranazionale di Strasburgo.
Tuttavia, prima di procedere in questo senso e per capire appieno la portata della pronuncia del BVerfG in ottica comparativa, risulterà utile un rapido accenno agli sviluppi più recenti della giurisprudenza costituzionale italiana in tema di assistenza al suicidio.
- Recenti sviluppi sul fine-vita in Italia: il “caso Cappato/Antoniani” e la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale
Come si è detto introduttivamente, l’ordinamento italiano ha sofferto per anni di una mancanza di una legislazione che disciplinasse, almeno in parte, l’argomento del fine-vita. I casi Welby ed Englaro dello scorso decennio hanno testimoniato drammaticamente questa necessità, tali da dare impulso all’approvazione della legge n.38/2010 sull’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore e della succitata legge n.219/2017, che rappresenta una pietra miliare nel nostro ordinamento, definita anche “una buona legge buona”.[5] Sebbene ci si possa ritenere soddisfatti e si possa ritenere apprezzabile lo sforzo del Legislatore del 2017, vengono in rilievo alcuni aspetti irrisolti della legge, ed in particolare riguardo la punibilità del soggetto che offra assistenza all’aspirante suicida affetto da malattia terminale, la cui condotta, non essendo stata decriminalizzata, configura il reato di cui all’art. 580 c.p.. In altre parole, seppure in presenza di una malattia terminale e di insopportabili sofferenze delle quali il soggetto possa esserne affetto, non si ravvisa una causa di esclusione della pena.
Come si vedrà, è qui che risiede la novità, l’interpretazione fornita dal giudice delle leggi. Facendo prima un utile passo indietro, giova rammentare che in seguito alla vicenda umana di Fabiano Antoniani (anche noto come Dj Fabo), e il susseguente processo a Marco Cappato, con l’ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d’Assise di Milano – investita del processo a Cappato – ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. adducendo, in via principale, l’illegittimità dell’incriminazione delle condotte di mera agevolazione materiale, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio, per violazione degli artt. 2, 13 comma 1, e 117 comma 1 Cost., e, in subordine, l’illegittimità della previsione di identico trattamento sanzionatorio per condotte di istigazione e mera agevolazione materiale, per violazione degli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 Cost.
La Corte ha ritenuto, infatti, che all’individuo debba essere riconosciuta la libertà di decidere quando e come morire, e che di conseguenza solo le azioni che pregiudichino la libertà della sua decisione possano costituire offesa al bene tutelato dalla norma in esame. Inoltre, alla luce dei principi di offensività, ragionevolezza e proporzionalità della pena – si legge nell’ordinanza – «si ritiene che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, non siano sanzionabili. E tanto più che non possano esserlo con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, prevista dall’art. 580 c.p., senza distinzione tra le condotte di istigazione e quelle di aiuto, nonostante le prime siano certamente più incisive anche solo sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito al realizzarsi dell’altrui autonoma deliberazione e nonostante del tutto diversa risulti, nei due casi, la volontà e la personalità del partecipe».[6]
Dunque, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art.580 c.p., si è espressa prima con l’ordinanza n.207/2018 e poi con la sentenza n.242/2019, inaugurando una nuova tecnica decisoria dacché, svolte le argomentazioni di merito, ha rinviato di un anno la decisione poi pronunciata in sentenza, lasciando che il Parlamento potesse intervenire con un’apposita normativa. Dall’inerzia del Parlamento, come sappiamo, ha fatto seguito la decisione della Corte.
Nella sua decisione – e qui il passaggio focale – la Corte ha infatti individuato una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Si tratta di situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta e che ora trovano attualità in virtù degli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali (§ in diritto, 2.3).[7] Viene osservato come la legislazione vigente permette, in forza della legge n. 219/2017 e della legge n. 38/2010, rispettivamente di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario (compresa idratazione e nutrizione artificiale) e di poter accedere alle terapie palliative, al fine di alleviare le sofferenze del paziente. Tuttavia, la legislazione vigente non consente in alcun modo al medico di mettere a disposizione del paziente trattamenti diretti a determinarne la morte e, pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Lo stesso Fabiano Antoniani, de facto, aveva scartato la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda, in quanto ciò non gli avrebbe assicurato una morte rapida, preferendo quindi ricorrere all’assistenza al suicidio.[8] Sul punto, la Corte conclude che se il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari (condizione che per essere attuata può anche richiedere una condotta attiva, come ad esempio lo spegnimento di un macchinario), non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.
Quindi, entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita (§ in diritto, 2.3).
Pertanto, si conclude che l’art. 580 c.p. è incostituzionale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
- “Oltre” il fine-vita: il quadro normativo e la pronuncia del BVerfG in Germania
Si passi ora in rassegna il caso tedesco e, a tal uopo, prima di analizzare la storica pronuncia del BVerfG dello scorso febbraio, sarà di utile comprensione una premessa, tale da illustrare l’approccio normativo tedesco al tema del fine vita che, come si vedrà, non è tanto dissimile da quello italiano nella ratio, ma certamente più “permissivo” nel contenuto. Si potranno cogliere, pertanto, analogie e differenze nella positivizzazione del reato di assistenza al suicidio da parte del legislatore italiano e tedesco e – alla luce delle sentenze del BVerfG, di cui si dirà, e della Corte costituzionale italiana, illustrata nel paragrafo precedente – gli orientamenti delle due giurisdizioni che vanno sì nella medesima direzione ma, potremmo dire, a due velocità differenti.
3.1 La normativa tedesca in tema di Sterbehilfe
In Germania, il cd. suicidio assistito ha trovato specifica regolamentazione normativa solamente in tempi recenti e dopo annosi dibattiti parlamentari in seno al Bundestag. Mentre, come d’altronde nella maggior parte dei Paesi europei, l’omicidio del consenziente costituisce reato in forza dell’art. 216 StGB (codice penale tedesco), diverso è l’atteggiamento del legislatore nei confronti di quelle condotte riconducibili ad atti di Sterbehilfe[9].
Infatti – diversamente dall’art. 580 c.p. previsto dal legislatore italiano – la condotta di istigazione o aiuto al suicidio – dopo la caduta dell’impero tedesco – ha cessato di essere considerata reato, salvo poi essere introdotto nel 2015, l’art. 217 StGB, che incrimina il favoreggiamento commerciale del suicidio, fino ad allora rimasto impunito in tutte le sue forme. Volendo comunque fornire una panoramica d’insieme, giova rammentare le diverse forme di eutanasia e i rispettivi reati previsti dall’StGB. La cd. aktive Sterbehilfe (eutanasia attiva), se non si ravvisa alcuna volontà espressa della vittima di essere uccisa, è punibile come omicidio doloso semplice ai sensi dell’art. 212 StGB, mentre per chi cagioni la morte di un soggetto, in seguito alla richiesta espressa di quest’ultimo, si configura il reato di cui all’art. 216 StGB[10], che punisce l’omicidio del consenziente (Tötung auf Verlangen).
A tal riguardo, risulta spesso problematico, nonché labile, il confine tra causare la morte del paziente (gezielten Tötung) e lasciarlo morire (Sterbenlassen), sebbene sul tema il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia), nella sentenza concernente il cd. caso Putz[11], abbia chiarito che il lasciar morire “non si limita a comprendere, secondo il suo significato naturale e sociale, una mera inattività: piuttosto può abbracciare una moltitudine di condotte attive e passive, il cui inquadramento secondo i criteri sviluppati dalla dogmatica e dalla giurisprudenza sulla base del delitto omissivo di cui al §13 risulta problematico, e in parte può dipendere dal puro caso. Perciò appare ragionevole e necessario comprendere ogni condotta posta in essere in rapporto a una tale interruzione del trattamento medico alla categoria normativa del Behandlungsabbruch (interruzione del trattamento), che affianca agli elementi oggettivi della condotta anche la soggettiva determinazione della finalità del trattamento da parte di chi la compie.” Occorre dunque accertare l’elemento soggettivo, stabilendo se la condotta sia stata posta in essere in rapporto a un trattamento medico del paziente o se invece sia stata realizzata per togliere la vita intenzionalmente, e quindi come obiettivo primario e non come conseguenza dell’interruzione del trattamento.
Quanto alla cd. “Indirekte Sterbehilfe” (eutanasia indiretta), ovvero l’evento morte causato da effetti indiretti di farmaci analgesici tesi a lenire le sofferenze del paziente, questa non è punibile se corrisponde alla volontà attuale del paziente capace di agire oppure, se incapace, espresso tramite disposizioni precedentemente comunicate. Un chiaro riflesso del concetto di “dignità” quale perno dell’ordinamento tedesco, da cui discende la considerazione che una morte priva di dolore fisico sia preferibile rispetto al prolungamento della vita. Tale interpretazione è conforme alla pronuncia del BGH, nella quale si afferma che “la somministrazione medica di farmaci analgesici, corrispondente alla volontà espressa o presunta del paziente, non diventa, se eseguita su un morente, inammissibile solo per il fatto di causare l’accelerazione della morte come effetto collaterale non voluto, ma accettato in quanto inevitabile.”[12]
Infine, la cd. “passive Sterbehilfe” (eutanasia passiva), intesa quale rinuncia ad un trattamento salvavita, è anch’essa penalmente irrilevante laddove corrisponda alle volontà espresse dal paziente capace o incapace, con le stesse modalità previste dai casi di indirekte sterbehilfe. Il consenso costituisce quindi la scriminante, che copre sia la punibilità del comportamento attivo, sia quello omissivo del medico. Tuttavia, il BGH, nella già citata sentenza del 25 giugno 2010, individua quattro condizioni che devono coesistere al momento dell’interruzione del trattamento salvavita affinché la condotta sia lecita: a) l’interessato deve essere in pericolo di vita a causa di una malattia; b) il consenso si deve riferire ad un trattamento medico; c) si deve trattare di «lasciar scorrere» un processo patologico naturale, in modo che la vita del paziente venga meno per il decorso della malattia e non per mezzo di un intervento intenzionalmente mirato; d) l’interruzione deve essere eseguita dal medico, dal fiduciario del paziente, dai loro delegati o dai loro ausiliari.[13]
3.1.1 Il controverso reato di “favoreggiamento commerciale del suicidio” (art. 217 StGB)
Come detto, nel 2015, in seguito all’incremento del numero di associazioni favorevoli all’eutanasia[14], si è introdotto l’art. 217 StGB[15], che incrimina il favoreggiamento commerciale del suicidio ad un duplice scopo: proteggere l’autodeterminazione del suicida da manipolazioni da parte di persone o organizzazioni che praticano commercialmente il suicidio assistito e, più in generale, quello di impedire la diffusione del suicidio assistito stesso.
Ai fini della norma in questione, non è necessario che l’aspirante suicida compia concretamente o tenti il suicidio, dal momento che è sufficiente l’offerta di rendere possibile o assecondare il suicidio da parte del soggetto terzo, che quindi “favorisce” il suicidio. Tale agevolazione può, ad esempio, consistere nella messa a disposizione di appositi farmaci, apparecchiature o località. Si tratta, pertanto, di un cd. delitto di pericolo astratto, che sanziona la condotta in modo anticipato rispetto al potenziale suicidio, sulla base della semplice messa in pericolo del bene giuridico.
Tuttavia, assume rilevanza il carattere commerciale del favoreggiamento, sebbene per geschäftsmäßig (commerciale) non si debba intendere necessariamente un comportamento orientato al profitto, ma qualcosa di certamente più ampio. Il legislatore tedesco richiede infatti che vi sia un’attività persistente o ricorrente dell’autore del reato (ovvero di colui che agevola il suicidio altrui), anche in assenza di motivo di lucro o reddito, in quanto includere questo carattere comporterebbe una facile elusione della responsabilità penale. Il punto cruciale è quindi che l’attività sia concepita in modo da essere ripetuta o durevole, rimanendo invece impunita se posta in essere da familiari, amici o dall’esercente sanitario.
Quanto alla fattispecie soggettiva dell’art. 217 StGB, essa consiste nella mera intenzione di favorire il suicidio di un’altra persona. Questo dolo specifico serve a mantenere impunita la cosiddetta eutanasia indiretta[16], e altresì il medico che intende precipuamente attenuare la sofferenza del paziente mediante la somministrazione di analgesici, seppure questi abbiano effetti collaterali infausti prevedibili.
Rilevante appare anche l’esclusione della responsabilità penale prevista dal comma 2, ampiamente criticata in dottrina per le modalità previste. Per il comma 2, infatti, “In qualità di compartecipe è esente da pena chi agisca in modo non commerciale e sia o parente della persona favorita di cui al comma 1, oppure legata ad essa da stretti rapporti”. A tal riguardo, la definizione legale di parente si ricava dall’art. 11 StGB[17], mentre per le altre persone in “stretti rapporti” si deve fare riferimento all’art. 35, comma 1, StGB, che richiede la sussistenza di rapporti interpersonali di una certa durata e di un sentimento di solidarietà, di cui non può godere il medico, a meno che non sia legato al paziente anche da un rapporto di amicizia.[18]
La discutibilità della disposizione prevista al comma 2 consiste anzitutto in riferimento al principio di uguaglianza, in quanto la norma finisce per penalizzare il favoreggiamento messo in atto da soggetti estranei al paziente, che agirebbero nel suo interesse “commercialmente”, pur non considerando la motivazione dell’agente che potrebbe essere mosso anche da motivi compassionevoli. Essi sarebbero meritevoli di pena per il solo fatto di reiterare, o di avere l’intenzione di reiterare, tale condotta. Rimanendo, invece, esenti da responsabilità penale familiari o altre persone legate al paziente da rapporti interpersonali stabili, il legislatore finisce per indirizzare le condotte in questione verso coloro che, proprio in virtù del rapporto personale con l’aspirante suicida, verterebbero in una condizione di difficoltà psicologica e disagio morale nell’attuare direttamente l’altrui desiderio. In altre parole, dato il vincolo affettivo, familiari o amici dell’aspirante suicida potrebbero preferire rivolgersi ad istituti o cliniche specializzate nel dare assistenza al suicidio, piuttosto che agevolare essi stessi l’azione ultima del suicida.
Come poi si vedrà nel prossimo paragrafo, la norma è stata recentemente tacciata di incostituzionalità dalla Corte Costituzionale della Repubblica Federale Tedesca, nella sentenza del 26 febbraio 2020.
3.2 La recente sentenza del BVerfG: necessità e riconoscimento del diritto infelice a una morte autodeterminata
La Corte Costituzionale tedesca, nel dichiarare incostituzionale l’art. 217 StGB, ha argomentato che il divieto previsto dalla norma dell’aiuto professionale al suicidio lede il generale diritto alla personalità, di cui agli articoli 2 (comma 1) in combinato disposto con l’articolo 1 (comma 1) della Costituzione, che nel complesso garantiscono il diritto di prendere la decisione autodeterminata di porre fine alla propria vita consapevolmente e volontariamente, ricorrendo, nella realizzazione, anche all’aiuto di un terzo. L’art. 217 StGB opera, pertanto, un’ingerenza ingiustificata di questo diritto, in quanto lesiva di un diritto fondamentale.[19]
La Corte prosegue ricordando che il rispetto e la tutela della dignità umana e della sua libertà sono principi fondamentali dell’ordine costituzionale. In particolare, l’autonoma tutela della propria personalità presuppone che l’uomo possa disporre del proprio corpo e secondo i propri criteri, senza costrizione da forme di vita che siano in irresolubile contraddizione con la propria immagine e la propria concezione di sé. Di conseguenza, il generale diritto alla personalità include come espressione dell’autonomia personale anche un diritto a una morte autodeterminata, il quale comprende il diritto al suicidio, esteso altresì alla libertà di ricercare aiuto presso terzi per realizzarlo e, qualora esso sia offerto, di ricorrervi.
La decisione di porre fine alla propria vita – sostiene la Corte – ha un significato esistenziale per la personalità di un uomo e, perciò, il diritto a una morte autodecisa – in quanto espressione di libertà personale – non è limitato a situazioni eterodeterminate. Il diritto di disporre della propria vita, che riguarda il più intimo ambito della autodeterminazione individuale, in particolare, non può essere limitato a malattie gravi o inguaribili o a determinate fasi della vita e della malattia, in quanto una restrizione del suo esercizio è estranea al concetto di libertà previsto dalla Costituzione. Ne consegue, altresì, che la decisione di porre fine alla propria esistenza non necessiti di alcuna motivazione o giustificazione. L’autonomia sul proprio fine vita appartiene all’ambito più privato della personalità dell’uomo, nel quale egli è libero di scegliere i suoi metri di giudizio e di decidere alla luce di essi. Tale diritto deve sussistere in ogni fase della vita e la decisione del singolo di porre fine alla propria esistenza secondo la sua idea di qualità della vita e della significatività della propria esistenza deve essere rispettata dallo Stato e dalla società come atto di autodeterminazione (§§ 209-210).
Interrogandosi se il concetto di dignità sia compatibile con l’azione suicida, la Corte sostiene che il suicidio sia invero l’ultima espressione di dignità dell’uomo, poiché quest’ultimo, con tale atto, rinuncia alla sua vita come persona autonoma e secondo il proprio obiettivo. La dignità dell’uomo non è quindi un limite all’autodeterminazione ma il suo fondamento.
Quanto al coinvolgimento di terzi nell’azione suicida, la Corte ritiene sia lecita la possibilità dell’aspirante suicida di rivolgersi ad altri, in quanto se la tutela di un diritto fondamentale dipende dall’intervento di terze persone e se il libero svolgimento della personalità dipende in questo modo dalla cooperazione di un altro, allora il diritto fondamentale tutela anche dalla circostanza che non sia limitato da un divieto nei confronti dei terzi di offrire loro aiuto.
A tal riguardo, pertanto, l’art. 217 StGB svolge un effetto obiettivamente limitante della libertà di suicidarsi, dal momento che il singolo che desideri porre termine alla sua vita con l’aiuto di terzi che agiscano professionalmente è costretto a ripiegare ad alternative, con l’elevato rischio che in mancanza dell’oggettiva disponibilità non possa realizzare la sua decisione (§ 218).
Per tali motivazioni, la Corte conclude dichiarando nullo l’art. 217 StGB, in quanto non può essere interpretato in modo conforme alla Costituzione.
- Osservazioni conclusive e prospettive de iure condendo
A ben vedere, la succitata sentenza merita una riflessione. Appare chiaro che si è di fronte a un nuovo paradigma interpretativo ma risulta difficoltoso ritenersi certi che tale interpretazione ponderi nella giusta misura il diritto alla libertà e il diritto posto a tutela del bene vita. Si deve convenire che il diritto, sia esso in forma di legge o di sentenza, non possa considerarsi qualcosa di slegato dalla realtà cui si riferisce. Si devono pertanto considerare anche le conseguenze che l’affermazione di un diritto può comportare, o meglio, se l’affermazione di un diritto può lederne altri. Ebbene, è proprio qui che si nasconde la “pericolosità”, più o meno manifesta, della pronuncia della Corte costituzionale tedesca. Affermare il diritto di suicidarsi e di essere aiutato in tale proposito, in qualunque condizione, situazione e tempo della propria esistenza – poiché considerato espressione della libertà di ogni individuo – va, anzitutto, ben al di là delle questioni legate al fine vita (dal momento che investe l’intero corso della vita, anche in assenza di malattia) e apre spazi per una ulteriore riflessione. Il diritto alla libertà, così declinato, finisce, de facto, per prevalere sul diritto alla vita, dal momento che sono stati rimossi i limiti circostanziali della malattia terminale. Quest’ultima funge da scriminante, poiché effettivamente compromette – in termini sostanziali – il concetto di vita, in quanto la morte ha fatto anticipatamente il suo ingresso, ma la vita in assenza di malattia è a tutti gli effetti, inequivocabilmente, “vita”. La sua lesione risulterebbe una violazione di un diritto fondamentale, se non il più fondamentale tra i diritti, in quanto è condizione necessaria per l’esercizio di ogni altro. In tal senso, la parallela sentenza n.242/2019 della Corte costituzionale italiana è più oculata, in quanto individua un ambito circoscritto e non confonde il concetto tradizionale di suicidio con un diritto al “suicidio medicalmente assistito”, censurando quindi l’art. 580 c.p. nella misura in cui contempla una fattispecie incriminatrice redatta in un’epoca in cui il suicidio medicalmente assistito non esisteva.
Concludendo, in riferimento al concetto di dignità della vita, bisognerebbe interrogarsi se la vita gode essa stessa di una propria dignità, autonoma rispetto alla dignità dell’individuo, che la renda inviolabile in assenza di un’adeguata motivazione e di un elemento oggettivo (che potrebbe sussistere, appunto, in presenza di una malattia terminale); poi, se tale orientamento – ovvero quello del BVerfG – sia compatibile con quello della Corte EDU sul tema che, dapprima aveva riconosciuto l’obbligo dello Stato di tutelare la vita di ogni cittadino[20], poi aveva individuato nell’elemento patologico e psicologico le condizioni necessarie per poter accedere a una morte assistita[21]; infine, in riferimento alla gerarchia dei diritti costituzionalmente garantiti, occorre esplicitamente chiarito se la Corte costituzionale tedesca intenda il diritto alla libertà personale gerarchicamente superiore al diritto alla vita, poiché questo è ciò che implicitamente afferma nella suddetta sentenza, derogando il diritto alla vita in favore di quello alla libertà. Adottare tale interpretazione, tuttavia, richiederebbe ricavare anche un adeguato fondamento giuridico, che non è ravvisabile nella Costituzione tedesca, la quale enuncia il diritto alla vita e alla libertà entrambi nell’art.2, comma 2, attribuendone pari grado (“Ognuno ha diritto alla vita e all’integrità fisica. La libertà della persona è inviolabile. Solo la legge può limitare questi diritti.”)
[1] R. MASONI, Rifiuto di trattamento medico e scelte di fine vita nella l. n. 219/2017: l’ultima tappa di un lungo percorso, Diritto di Famiglia e delle Persone (II), fasc.3/2018, p.1139 ss.
[2] U. VERONESI, Il diritto di morire: la libertà del laico di fronte alla sofferenza, Mondadori, 2005, p.25
[3] S. CANESTRARI, Fondamenti del biodiritto penale e la legge 22 dicembre 2017 n.219, Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 1/2018, p. 55 ss.
[4] Sul punto, S. CANESTRARI, Bioetica e diritto penale. Materiali per una discussione, II ed., Giappichelli, Torino, 2014; G. FORNERO, Bioetica cattolica e bioetica laica, Paravia, Milano, 2005
[5] S. CANESTRARI, “Una buona legge buona (ddl recante “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), in Riv. Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc.3/2017
[6] Corte di Assise di Milano, ordinanza del 14 febbraio 2018.
[7] Corte Cost., sent. n. 242/2019
[8] «Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopraggiunta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo», Corte Cost., ordinanza n.207/2018
[9] Il termine “eutanasia”, in tedesco Euthanasie, è in realtà poco usato in Germania in quanto ritenuto troppo evocativo. Il termine è infatti sostituito con Sterbehilfe (“aiuto alla morte”), sebbene alcuni preferiscano ancor più il sintagma “Sterbebegleitung”, ovvero “accompagnamento alla morte”, ritenuto lessicalmente più dolce.
[10] “(1) Chi viene indotto all’omicidio su espressa e seria richiesta del soggetto ucciso, sarà punito con la reclusione da sei mesi fino a cinque anni. (2) Il tentativo è punibile.”, §216 StGB, trad.
[11] BGH, 25 giugno 2010, 2 StR 454/09, trad.
[12] BGH, 15 novembre 1996, 3 StR 79/96, trad.
[13] M. T. ROERIG, Germania, in P. PASSAGLIA (a cura di) Decisioni di fine vita ed ausilio al suicidio, Corte Costituzionale, Servizio Studi, settembre 2019
[14] Tra queste, in particolare, “Sterbehilfe Deutschland”, associazione che promuove l’adozione del modello svizzero in tema di assistenza al suicidio
[15] “(1) Chiunque, con l’intenzione di favorire l’altrui suicidio, offre, procura o trasmette l’opportunità in forma commerciale, anche in forma di autodeterminazione, è punito con la pena detentiva fino a tre anni o con pena pecuniaria. (2) In qualità di compartecipe è esente da pena chi agisca in modo non commerciale e sia o parente della persona favorita di cui al comma 1, oppure legata ad essa da stretti rapporti.”, §217 StGB
[16] K. JAVERS, La fattispecie tedesca di favoreggiamento del suicidio, in G. FORNASARI – L. PICOTTI – S. VINCIGUERRA (a cura di), Autodeterminazione e aiuto al suicidio, Padova University Press, 2019, p. 57
[17] “Parenti e affini in linea retta, coniuge, partner “di fatto” (Lebenspartner) o fidanzato/a, anche ai sensi della legge sulle unioni civili (Lebenspartnerschaftgesetz), fratelli e loro coniugi o partners di fatto, e ciò anche qualora il matrimonio o la Lebenspartnerschaft, su cui si fonda la relazione, non sussista più o se la parentela o l’affinità siano venute meno”, § 11 StGB
[18] M. T. ROERIG, cit., p. 104
[19] BVerfG, 2 BvR 2347/15, 26 febbraio 2020
[20] Corte EDU, sent. n. 2346/02, Pretty c. Regno Unito
[21] Corte EDU, sent. n. 31322/07, Haas c. Svizzera
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