I Principi di legalità, offensività e colpevolezza in prospettiva europea*

Di Adelmo Manna e Andrea De Lia -

Sommario. 1. Introduzione. – 2. Il principio di legalità: i modelli relativi al caso “Taricco” e a quello “Contrada”. 3. Il principio di colpevolezza: ancora sul caso “Contrada”. – 4. Il principio di offensività. – 5. Conclusioni.

  1. Introduzione.

Lo studioso del diritto penale fino a qualche anno fa si confrontava esclusivamente con due parametri: la legge ordinaria e la norma costituzionale, anche alla luce dell’interpretazione resane dalla Consulta; negli ultimi anni, invece, è emersa una progressiva sensibilità dell’interprete rispetto al sistema giuridico sovranazionale, e dunque alla “norma europea” e al formante giurisprudenziale europeo derivante dalle Corti di riferimento (Corte EDU e Corte di Giustizia, nell’alveo delle rispettive competenze).

Tale interesse ha generato un effetto positivo da un lato ed un effetto negativo dall’altro: quello positivo è rappresentato dal fatto che il sistema giuridico sovrannazionale consente, talora, l’attribuzione al singolo di alcuni diritti in forme diverse e talora più ampie rispetto al sistema interno, tanto da poter condurre ad un’espansione della sfera dell’individuo, e ad un maggiore garantismo[1].

L’effetto negativo, invece, è rappresentato, innanzitutto, dal disorientamento che coinvolge l’interprete, in quanto il sistema penale è ormai diventato “multilivello”, con ogni consequenziale effetto di complicazione nell’interpretazione e nell’applicazione dello ius criminale.

Non a caso, uno dei più attenti studiosi del diritto penale ha intitolato un lavoro monografico “Il giudice nel labirinto”[2]; si tratta di un’opera che, in estrema sintesi, mette bene in evidenza che la magistratura si trova molto spesso in difficoltà a causa dell’irrompere sulla scena nostrana della normativa europea e dell’interpretazione che a questa attribuiscono le Corti.

E ciò in ragione dei problemi di adattamento e compenetrazione tra sistemi oggettivamente diversi, e del fatto che le Corti europee non “ragionano” esattamente come il giurista italiano: si è in presenza di tradizioni giuridiche totalmente diverse, e il processo di omogeneizzazione tra i due sistemi, quello “europeo” e quello interno, è tutt’altro che semplice.

Il quadro si complica, poi, per il fatto che viviamo ormai una stagione nefasta sotto il profilo dei principi generali, tanto che uno studioso della levatura di Giovannangelo De Francesco ha parlato, in un interessantissimo contributo, di un “crepuscolo dei dogmi”[3], di un momento di decadimento dei principi in un’ottica globalizzata e di finalismo spicciolo: “l’epoca della post-modernità”.

Questa crisi del diritto, della post-modernità si riscontra quindi in tutti i principi di riferimento: rispetto al principio di legalità, di offensività e a quello di colpevolezza, che ovviamente costituiscono i parametri fondamentali nel nostro sistema interno.

  1. Il principio di legalità: i modelli relativi al caso “Taricco” e a quello “Contrada”.

Un esempio sicuramente emblematico di tale decadimento è rappresentato dalla vicenda “Taricco”, definita da alcuni come una vera e propria “saga”, e che ha originato un complesso dialogo tra le Corti, ed in particolare, tra la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia, che ruotava attorno all’applicazione dell’art. 325 TFUE, che impone agli Stati membri l’adozione di misure efficaci finalizzate al contrasto degli illeciti che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.

La questione, come noto, era stata innescata da frodi carosello in materia IVA, e ha costretto la Corte costituzionale a paventare l’azionamento dei c.d. “contro-limiti”, a fronte di un delicato bilanciamento tra esigenze di tutela di interessi pubblici e di osservanza del diritto europeo, da un lato, e rispetto dell’art. 25 Cost., del principio di legalità e dei suoi corollari dall’altro[4].

In sintesi, la vicenda “Taricco” dimostra proprio come diversi siano gli approcci delle Corti sovrannazionali rispetto a quelle nazionali, per cui è necessario trovare un punto di raccordo che renda in qualche modo compatibile l’impostazione “europea” con quella interna, ed è questa forse la più emblematica espressione del “giudice nel labirinto”.

Un altro esempio è poi quello originato dal noto caso “Contrada” deciso dalla Corte EDU, IV Sezione con sentenza del 14 aprile 2015, con la quale (in estrema sintesi) la Corte di Strasburgo si è soffermata sulla fattispecie del concorso esterno nell’associazione a delinquere di stampo mafioso, e quindi sul combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p.

In particolare, affermandosi che questa figura delittuosa è di matrice giurisprudenziale (anche perché l’art. 110 c.p., finisce con il rivelarsi una sorta di “clausola vuota” –  ed in contrasto con i principi di eguaglianza e ragionevolezza – e l’art. 416-bis c.p. consente ancora interpretazione assai difformi tra loro), ed essendosi essa consolidata attraverso il formante giurisprudenziale interno soltanto a partire dalla metà dagli anni 90’ e dalla pronuncia delle Sezioni Unite “Demitry” (poi seguita da altre), e quindi dopo la realizzazione delle condotte contestate all’imputato, essa non avrebbe potuto trovare applicazione rispetto all’applicant senza violazione del principio della c.d. “foreseeability”[5].

Si tratta di una decisione particolarmente avversata dalla magistratura nostrana, tanto che di recente si è pronunciata la Cassazione a Sezioni Unite[6] sul controverso tema dell’applicabilità dei principi generali espressi dalla sentenza della Corte europea in ordine ai “fratelli minori” di Contrada, e cioè a soggetti che si sono trovati nelle medesime condizioni, e quindi in ordine all’efficacia “panprocessuale” del dictum europeo.

Se allora rispetto al caso “Contrada” la giurisprudenza si è dovuta adeguare alla decisione definitiva della Corte EDU rispetto al singolo applicant (anche in ossequio al principio sancito dall’art. 46 della Convenzione), la suprema Corte ha, invece, negato l’applicabilità generalizzata di tali principi, rilevando che la figura delittuosa del concorso esterno non sarebbe in realtà una figura di origine giurisprudenziale, come rilevato dal Giudice europeo, ma ricavabile dal diritto positivo. Il tutto, puntualizzando che l’efficacia della sentenza Contrada del 2015 sarebbe limitata in quanto non proveniente dalla Grande Camera, non costituendo quella che viene definita “pronuncia pilota” (cioè quella pronuncia attraverso la quale per la prima volta la Corte si arresta su un tema generale, esprimendo volutamente dei principi genarli estendibili a tutta la casistica rientrante in quella macrocategoria) né frutto di una giurisprudenza consolidata[7].

Si è allora al cospetto di una soluzione opinabile e idonea ad innescare un nuovo dialogo tra le Corti.

Per il vero la Corte di Cassazione in alcune occasioni ha disatteso i pronunciamenti generali della Corte EDU sul presupposto che l’adesione del giudice interno sarebbe limitata soltanto ad alcune, particolari tipologie di pronunce; tale soluzione[8] non è però da tutti condivisa, ed ha generato anche una risposta indiretta della Corte EDU, con un pronunciamento recente, la sentenza “G.I.E.M.”[9].

Nell’occasione, in particolare, la Corte di Strasburgo ha affermato che il giudice interno non sarebbe affatto legittimato a sindacare su quando la decisione della Corte EDU assuma efficacia panprocessuale o meno, perché tutte le sentenze da essa promananti rivestirebbero la medesima efficacia vincolante, laddove ovviamente si esprimessero su contenuti e principi a carattere generale.

Il caso “Contrada”, dunque, è particolarmente sintomatico delle difficoltà affrontate dagli operatori del diritto e di integrazione tra sistemi diversi; per di più tale pronunciamento è stato oggetto di critiche anche in ragione della manifesta apertura a una giurisprudenza c.d. “giuscreativa” (o “giurisprudenza fonte”) poiché la Corte, seppur indirettamente, avrebbe autorizzato, secondo alcuni, la creazione di fattispecie criminose da parte della giurisprudenza. Logica, questa, preclusa nel nostro ordinamento per l’effetto del principio di legalità ex 25 Cost., e dal suo corollario di tassatività (che è monito notoriamente riferito al giudice).

  1. Il principio di colpevolezza: ancora sul caso “Contrada”.

Al di là dell’apertura mostrata dalla Corte rispetto a proiezioni nomopoietiche dell’attività giurisdizionale, che trovano le proprie radici nel fatto che la Corte europea “ragiona” più in un’ottica di common piuttosto che di civil law[10], l’altro nodo della sentenza Contrada è rappresentato dal fatto che in essa si ribadisce l’estensione del principio della foreseeability, cioè della prevedibilità (già enucleato in un precedente pronunciamento molto importante che è rappresentato dalla sentenza “De Tommaso”, in tema di misure di prevenzione)[11].

La foreseeability[12], a primo acchito, appare assumere alcuni tratti del principio di legalità e di quello di colpevolezza: la norma incriminatrice deve provenire da una fonte “qualificata” (fosse anche la giurisprudenza), ed essa deve essere “vigente” prima del fatto commesso, tanto che i consociati possano essere posti in condizione di orientare il proprio comportamento nella prospettiva delle conseguenze giuridiche che derivano dalla violazione del precetto.

Vi è però una netta differenza tra il principio della foreseeability e quello di colpevolezza accolto nel nostro ordinamento, sol che si ponga mente alla famosa sentenza di cui fu relatore il compianto Prof. Renato Dell’Andro, cioè la n. 364 che ha manipolato l’art. 5 del codice penale dell’1988 (cui va aggiunta la n. 1085 dello stesso anno sul furto d’uso).

In quell’occasione, più in particolare, la Corte ha stabilito che in caso di oscurità del precetto determinata dal contrasto giurisprudenziale il consociato dovrebbe astenersi dall’agire per motivi prudenziali, versando altrimenti in responsabilità; di contro, a ben vedere, la sentenza Contrada ha sancito un principio diverso, affermando che in caso di contrasto giurisprudenziale (quello in atto, perlomeno secondo la Corte EDU, al momento in cui l’applicant aveva realizzato le condotte contestate) mancherebbe la prevedibilità della conseguenza giuridica correlata all’illecito, con ogni consequenziale effetto in termini di “colpevolezza”.

Al di là di tale, non secondario, elemento di disallineamento rispetto al principio di colpevolezza, in accezione normativa[13], vi è che il diritto e la giurisprudenza europea, sotto altri versi, mostrano un’ampia apertura rispetto a forme di ascrizione di tipo oggettivo, laddove giustificate dalla necessità, da parte del legislatore dei Paesi “membri”, di tutelare interessi primari e laddove l’incriminazione di talune condotte non comporti l’effetto di compromettere le libertà riconosciute dal sistema giuridico sovrannazionale.

Sicché, sotto tale diverso angolo prospettico, che restituisce l’immagine di diritti fondamentali che potrebbero assumere una “diversa consistenza” in relazione ad esigenze individuate dallo Stato, il “modello europeo” sembra molto meno avanzato e garantista rispetto a quello interno, prodotto di un lungo percorso di elaborazione da parte della giurisprudenza, anche costituzionale, e della dottrina.

  1. Il principio di offensività.

Anche per quanto riguarda il principio di offensività, che è ricavato (almeno secondo alcuni orientamenti) dall’art. 25 Cost. e dal concetto di “fatto” (nonché dell’art. 27 comma 3 Cost.)[14], si riscontrano notevoli problemi di omogeneizzazione: con le varie direttive che stanno affastellando il nostro panorama giuridico vengono veicolate delle logiche che sono difficilmente conciliabili con i nostri principi cardine[15].

Ci si riferisce al fatto che molto spesso, ad esempio, le direttive impongono agli Stati membri la criminalizzazione[16] anche della mera istigazione a delinquere (o meglio a realizzare determinate fattispecie), al di fuori dunque dall’ipotesi di concorso morale, che nel nostro sistema interno presenta dei problemi proprio in chiave di offensività.

Si pensi, inoltre, alle questioni sollevate dall’introduzione nel nostro sistema giuridico dalla fattispecie di pedopornografia virtuale, di matrice per l’appunto europea, che genera delle problematiche sotto questo aspetto[17], così come le forme di anticipazione della risposta penale nell’ambito della più recente legislazione contro il terrorismo.

Sempre per esemplificare, vi è da sottolineare l’introduzione di alcune fattispecie molto dubbie sotto il profilo tecnico, come l’indebita percezione[18], che si va ad affiancare ad altre figure come la truffa aggravata ai danni dello Stato, da una parte, e la malversazione, dall’altra, creando un “triangolo” di difficile approccio per l’operatore del diritto; ma si ponga mente anche all’attuale unificazione tra le fattispecie di millantato credito e di traffico di influenze illecite[19].

Detta unificazione, che è il prodotto delle raccomandazioni provenienti dall’Europa, solleva questioni sotto il profilo del rispetto del principio di ragionevolezza e di offensività in quanto attualmente sono state parificate due fattispecie: il millantato credito, che è sostanzialmente una truffa ai danni del privato, e il traffico di influenze illecite, che è invece una condotta prodromica (ascrivibile a chi può effettivamente esercitare un’influenza sul soggetto qualificato) ai reati di corruzione. Senza che si possa sottacere il problema dell’attuale incriminazione del terzo, cioè del soggetto che si interfaccia con il millantatore, che in base alle indicazioni dell’Europa, e oggi in base al testo normativo interno, risulta punibile, con buona pace del principio di offensività[20].

Detto principio, del resto, è un prodotto intellettuale della scienza penalistica italiana, e in Europa, nei sistemi giuridici più avanzati (Spagna, Francia, Germania), esso ha avuto un’evoluzione molto più rallentata[21]; così come si può notare che se da un lato la Corte EDU riconosce, già a partire dalla famosa sentenza Salabiaku c. Francia del 1988, un’ampia discrezionalità in capo al legislatore interno nelle scelte di criminalizzazione[22], dall’altro il diritto positivo europeo – come attesta l’accoglimento, in materia di ambiente e di responsabilità da prodotto, del principio di precauzione[23] – mostra che il principio di offensività, per lo meno “in accezione forte”, abbia avuto finora una scarsa penetrazione in Europa, anche perché pure in Italia alla fine è prevalsa una concezione “debole” a partire dalla sentenza n. 333 del 1991 della Corte costituzionale in tema di stupefacenti, che ha sostanzialmente identificato l’offensività con l’eguaglianza/ragionevolezza, così “salvando” anche le figure di pericolo astratto/presunto, a condizione della possibilità di individuazione di una precisa ratio legis.

  1. Conclusioni.

In conclusione si deve allora rilevare che in tema di rapporti tra diritto “europeo” e diritto penale interno si è al cospetto di un working in progress e il confronto deve alimentare l’attività tanto degli studiosi, quanto degli operatori per cercare di trovare il bandolo della matassa e l’uscita dal c.d. “labirinto”.

Ovvio che l’europeismo abbia aperto nuovi scenari, e che costituisca un motore per ripensare il sistema punitivo intorno a temi centrali, come ad esempio in ordine la finalità della sanzione criminale, alla valorizzazione del ruolo della vittima anche in sede processuale (con conseguenti riflessi anche in ordine ai meccanismi premiali post-delictum in correlazione a condotte riparatorie), il trattamento carcerario, etc.

Altrettanto ovvio è, però, che la crisi del “testo scritto”, del giuspositivismo, che è conseguente all’estensione dei poteri di interpretazione della legge ad opera della magistratura, e che finisce con l’avallare la coltivazione di esigenze di politica criminale in sede giudiziaria, l’apertura a forme di responsabilità sine culpa, e a norme incriminatrici che anticipano la risposta dell’ordinamento sotto il profilo dell’offesa, o che addirittura erigono beni giuridici ex nihilo, autolegittimandosi, rappresentano degli orizzonti niente affatto auspicabili.

Insomma, non è vero che “l’erba del vicino è sempre più verde”…

* Il contributo è frutto della collaborazione tra i due Autori; tuttavia i paragrafi 1-5 sono da attribuire ad Adelmo Manna, e i paragrafi da 2 a 4 ad Andrea De Lia.

[1] Sulla nozione di “garantismo penale” vd. Ferrajoli, Il paradigma garantista. Filosofia e critica del diritto penale, Napoli, 2016. L’A., notoriamente, è peraltro fermo oppositore della giurisprudenza “giuscreativa”, attraverso il richiamo delle nozioni di “conoscere” e “interpretare”.

[2] Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovrannazionali, Roma, 2012; vd. anche Sotis, Il diritto senza codice: uno studio sul sistema penale europeo vigente, Milano, 2007.

[3] De Francesco, Crepuscolo di dogmi? Appunti sparsi su di una problematica “moderna”, 11 luglio 2017, in www.lalegislazionepenale.eu. Vd. anche Id., Invito al diritto penale, Bologna, 2019.

[4] Sull’affaire “Taricco” vd. Cupelli, La Corte costituzionale chiude il caso Taricco e apre a un diritto penale europeo “certo”, 4 giugno 2018, in www.penalecontemporaneo.it.

[5] Su questi temi vd. Viganò, Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Cassazione chiude il caso Contrada, 26 settembre 2017, in www.penalecontemporaneo.it.

[6] Cass., Sez. Un., 3 marzo 2020, n. 5844, reperibile anche sul sito web www.giurisprudenzapenale.it.

[7] Il tutto esprimendo la seguente massima: «i principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una “sentenza pilota” e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata».

[8] Condivisa anche, in alcune occasioni, dalla Consulta. Vd. Corte cost., 23 luglio 2015, n. 187; Corte cost., 26 marzo 2015, n. 49; Corte cost., 18 luglio 2013, n. 210.

[9] Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. e alt. c. Italia.

[10] Come è noto, i sistemi di common law (in disparte dai processi di codificazione che stanno interessando anche i Paesi che tradizionalmente aderiscono a tale modello) hanno un’apertura notevole alla c.d. giurisprudenza gius- creativa, inammissibile nel sistema interno per l’effetto del principio di legalità (anche se esso è continuamente sotto scacco per l’effetto dell’interpretazione e dell’analogia poiché l’interpretazione viene costituzionalmente orientata o condotta secondo criteri “teleologici” o “sistematici”, ma molto spesso nasconde una vera e propria interpretazione in malam partem, come dimostrano, ad esempio, gli orientamenti giurisprudenziali intervenuti sulla perdurante rilevanza della distrazione nel contesto del delitto di peculato; sul falso c.d. “valutativo” nel rinnovato contesto delle false comunicazioni sociali; sulla figura di millantato credito, nella formulazione vigente fino alla riforma “spazzacorrotti”, estesa a ipotesi diverse da quella “tradizionale”, che è rappresentata da una forma particolare di truffa; sul c.d. “disastro innominato”, etc.). Sull’argomento vd. anche Donini, An impossible exchange? Prove di dialogo tra civil e common lawyers su legalità, morale e teoria del reato, in Stile, Manacorda e Mongillo (a cura di), Civil law e common law: quale “grammatica” per il diritto penale?, Napoli, 2018, pp. 115 ss. Vd. anche Id., Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, passim.

[11] Sul quale vd. Manna, Misure di prevenzione e diritto penale; una relazione difficile, Pisa, 2019.

[12] Su questo tema vd. anche Pomanti, La “riconoscibilità” della norma penale, Napoli, 2019.

[13] Sul quale sia tollerato il rinvio a De Lia, La perdurante rilevanza penale dell’omesso versamento dell’assegno di mantenimento in favore dei figli nati fuori dal matrimonio. Brevi note a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 189/2019, 7 settembre 2019, in www.forumcostituzionale.it.

[14] Vd. Bricola, Teoria generale del reato, voce in Novissimo Digesto Italiano, vol. XIX, Torino, 1974, pp. 7 ss.

[15] Su questi temi si veda anche il contributo di Masarone, Il “diritto penale europeo” al vaglio dell’offensività: fondamento ed esiti, 21 marzo 2019, in www.archiviopenale.it.

[16] Sull’argomento vd. anche Paonessa, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Pisa, 2009.

[17] Vd. per approfondimenti B. Scarcella, La pedopornografia virtuale e la lotta “al nemico” in rete. Il discrimine tra diritto penale del fatto e diritto penale dell’autore, in Cadoppi, Canestrari, Manna e Papa (a cura di), Cybercrime, Milano, 2019, pp. 545 ss.

[18] Vd. M. Romano, Art. 316-ter c.p., in I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2013, pp. 82 ss.

[19] Operata, anche questa, attraverso la l. 9 gennaio 2019, n. 3 (la “spazzacorrotti”).

[20] Su questi temi vd. Gambardella, Il grande assente della nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. Pen., 2019, pp. 44 ss.

[21] Su questi temi vd. diffusamente Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005. Vd. per i paesi anglosassoni il principio del c.d. “harm to others”, e l’opera di Feinberg, Moral limits of the criminal law, New York – Oxford, 1984 – 1988.

[22] Detta pronuncia ha stabilito che «in principle the Contracting States remain free to apply the criminal law to an act where it is not carried out in the normal exercise of one of the rights protected under the Convention and, accordingly, to define the constituent elements of the resulting offence. In particular, and again in principle, the Contracting States may, under certain conditions, penalise a simple or objective fact as such, irrespective of whether it results from criminal intent or from negligence. Examples of such offences may be found in the laws of the Contracting States» (il corsivo è nostro).

[23] Su questo tema vd. di recente Fornasari, Offensività: beni e tecniche di tutela, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2018, pp. 1514 ss.

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