Paradisi normativi e paradisi fiscali: non soltanto centri di raccolta per capitali in fuga.

Di Giovanni Tartaglia Polcini -

Le opinioni espresse dall’autore sono ad egli solo riconducibili e non impegnano l’amministrazione di appartenenza.

Con l’allocuzione “Paradisi normativi” si intende discorrere di sistemi ordinamentali in cui è chiara la volontà dello Stato di dar vita a regimi giuridico-normativi nei quali sia possibile la creazione di un sistema fiscale e di tassazione che non prevede controlli sulla provenienza e sull’utilizzo dei capitali investiti.
Le regole relative alla finanza, sulla tassazione e sulla prevenzione del rischio di riciclaggio, non puniscono la provenienza illecita del denaro. Non solo non esistono norme nazionali, ma non risultano applicate, in quanto non recepite o riconosciute, neanche quelle internazionali contro il riciclaggio ed il finanziamento del terrorismo.
Nei paradisi normativi investono soggetti che non intendono versare imposte nei loro Paesi; in essi investono anche le organizzazioni criminali o quelle terroristiche che trasferiscono le proprie ricchezze provento di attività illecite.
Chi deposita denaro, per esempio, nelle Isole Cook o a Nauru, entrambe nell’Oceano Pacifico, o, ancora, nelle Isole della Manica, ben sa che non verranno fornite informazioni ai Paesi di origine in caso di indagine.

PARADISI NORMATIVI
Senza evocare carenze di trattati estradizionali o tassi di corruzione per l’elezione del luogo dove andare a trascorrere il proprio periodo di latitanza così come investire i propri capitali, esistono veri e propri paradisi normativi che hanno una portata più ampia di quella tradizionalmente riconosciuta ai ccdd paradisi fiscali o finanziari.
Un caso particolare è rappresentato sicuramente dalla Liberia, che, in ambito navale, fornisce la possibilità di dotarsi di una “bandiera” privilegiata e conta la seconda flotta mercantile al mondo dopo Panama.
La circostanza merita approfondimento.
In effetti, la Liberia, non è uno dei paesi più ricchi, ma possiede la più grande flotta di petroliere del mondo, in quanto non ha ratificato la Convenzione internazionale che obbliga le navi ad avere il doppio scafo, accordo raggiunto dopo una lunga serie di disastri ambientali ( “Convenzione sulla salvaguardia della vita umana in mare (c.d. SOLAS 1974/78 e successive modifiche ed integrazioni) e Convenzione sulla prevenzione dell’inquinamento marino da navi (c.d. MARPOL 1973/78 e successive modifiche ed integrazioni)
I due Accordi sul doppio scafo vanno letti parallelamente incidendo, il primo, sugli aspetti concernenti la costruzione della nave, l’efficienza strutturale e funzionale, la galleggiabilità, le condizioni di stabilità, la resistenza agli incendi e l’idoneità alla navigazione e alla manovra e rilevando, il secondo, per l’introduzione di ulteriori obblighi nella costruzione di alcune categorie di navi e per la tenuta a bordo di specifiche strumentazioni e documenti. Entrambe le Convenzioni, peraltro, prevedono che ogni nave sia dotata di una serie di certificati attestanti il rispetto di tutte le prescrizioni tecniche in esse contenute.
Le grandi compagnie registrano nel paese africano le proprie navi più vecchie che non posseggono il requisito di sicurezza. Il che determina minori costi, e quindi maggiori profitti, per l’industria petrolifera ed enormi rischi per i nostri mari.
A ben vedere, inoltre, la Liberia è annoverabile tra i c.d. Paradisi fiscali e ciò, sia per la bassa imposizione fiscale, sia per l’assenza di norme e di misure restrittive di controllo sul versante delle transazioni finanziarie.
La Liberia non possiede bastimenti né mercantili, ma sotto la sua bandiera naviga una delle più imponenti flotte navali al mondo. Il sistema bancario è al collasso, eppure ogni anno sui suoi conti correnti transitano oltre 15 miliardi di dollari.
La Liberia è una Nazione nella quale è certamente difficile vivere per gli abitanti sopravvissuti a 15 anni di guerra civile, ma è un paradiso fiscale per il business offshore, a partire, di sicuro, dal Registro navale liberiano, nel quale gli armatori di mezzo pianeta immatricolano offshore le proprie navi per sfuggire alle tasse e alle leggi nazionali.
Ancora oggi per registrare un’imbarcazione in Liberia, così come a Panama, che sia un lussuoso yacht o un grande cargo, è sufficiente compilare un modulo online, fare un versamento di un migliaio di dollari – il prezzo varia dal peso – e spedire tutto al mittente. In particolare, il non residente apre un ufficio virtuale a Monrovia, dà vita a una corporation fittizia e può liberamente solcare i mari facendo sventolare la bandiera liberiana. Ovviamente, le leggi e le normative sul lavoro all’interno del natante sono disciplinate da quelle vigenti in Liberia.
Secondo un comitato di esperti della Nazioni Unite, il Registro navale liberiano è la principale fonte di reddito del Paese, un terzo dei guadagni, circa 70 milioni di dollari l’anno.
Nel corso degli anni sia il Fondo Monetario Internazionale, sia il Consiglio di Sicurezza Onu sono intervenuti più volte ammonendo la Liberia dal continuare ad avere comportamenti che sono sconfinati concretamente sia in transazioni con la rete di Al Qaeda per il riciclaggio di denaro sporco, sia in commercio di legname ed altri materiali anche con ulteriori ordinamenti

Ben diversa è l’espressione «paradiso fiscale», invece, che trae origine dal termine inglese tax heaven che identifica quegli Stati o territori che non prevedono l’imposizione fiscale sui redditi o la prevedono a livelli estremamente contenuti.
Oltre ai paradisi fiscali vi sono anche i cd. «paradisi societari», luoghi in cui le società costituite possono godere di determinati vantaggi, i «paradisi finanziari», in cui è possibile trasferire e custodire denaro senza tanti problemi, quelli «bancari» e altri ancora (si pensi ai luoghi in cui è possibile trascorrere con minori restrizioni la latitanza personale di ricercati).
Si preferisce utilizzare il termine generale di «paradiso fiscale» per rappresentare la realtà in cui si rende estremamente vantaggiosa l’attività di riciclaggio.
Un Paese, dunque, può essere considerato «paradiso fiscale» allorquando presenta un sistema impositivo estremamente favorevole per i non residenti; un non rigoroso segreto bancario; un settore finanziario particolarmente sviluppato e spesso ampiamente sovradimensionato rispetto alle reali esigenze del paese; l’assenza di controlli valutari e bancari per i non residenti; l’assoluto anonimato; l’impossibilità per le competenti autorità estere di avvalersi dell’assistenza giudiziaria tramite commissioni rogatorie internazionali, anche in presenza di convenzioni contro le doppie imposizioni.

L’anonimato costituisce l’elemento che caratterizza maggiormente i «paradisi fiscali». Si può anzi ritenere che esso costituisca una sorta di prerequisito, nonché la calamita per attirare i capitali, anche di natura illecita. Questo aspetto preoccupa maggiormente la comunità internazionale, in quanto i servizi finanziari offerti dai suddetti paesi possano essere sfruttati dalla criminalità organizzata.
Preoccupazione che coinvolge anche le Nazioni Unite che definiscono, in un rapporto, i «paradisi fiscali» come an enormous hole in the international legal and fiscal system.
La definizione di off-shore nasce negli Stati Uniti, durante il periodo del proibizionismo, per identificare le navi ancorate al di fuori delle acque territoriali americane sulle quali si poteva bere alcolici e giocare d’azzardo.
Altri fattori che favoriscono un dislocamento dei capitali verso una determinata localizzazione, non necessariamente sono di origine fiscale o finanziaria, come quelli di natura geo-economica e geo-politica.
Con riferimento alle prime, è da rimarcare che i paesi, sede di «paradisi fiscali», sono per lo più territori non particolarmente floridi, con una forte dipendenza estera, con scarso potenziale economico, che per far fronte alla loro condizione si specializzano nell’ospitalità ai capitali stranieri e per questo si attrezzano per garantire al meglio l’impiego o la giacenza.
Sul piano geo-politico, invece, la stabilità, la continuità della linea politica, rappresentano un aspetto irrinunciabile in quanto garanzia della durevolezza dei rapporti valutari ed economici, nonché degli investimenti stessi.
Diversi e molteplici sono i motivi che spingono a rivolgersi ai «paradisi fiscali» e quello della ricerca dei benefici fiscali è il più diffuso, ma la facilità con cui è possibile «ripulire» il denaro frutto di attività illecite gioca un ruolo sicuramente preponderante. Anonimato, segretezza, confidenzialità ed un’efficiente rete di collegamento, sia fisica che virtuale, sono tutti elementi che non possono non essere apprezzati dalle organizzazioni criminali, sempre bisognose di occultare, trasformare e investire gli ingenti proventi delle loro attività criminose.

Dopo lo scandalo dei Panama Papers 300 economisti di 30 Paesi hanno sottoscritto un appello per chiedere, insieme a Oxfam, una maggiore trasparenza sulle operazioni finanziarie offshore. Tra i promotori vi sono nomi di fama mondiale come Thomas Piketty, autore del best-seller internazionale “Il Capitale nel XXI secolo”, Jeffrey Sachsdirettore dell’Earth Institute presso la Columbia University e Consigliere del Segretario Generale delle Nazioni Unite BanKi-Moon e Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia nel 2015.
Il messaggio, è stato “inoltrato” sotto forma di lettera, in vista del Summit Anticorruzione del 12 maggio 2016 di Londra, ai leader mondiali, ai rappresentanti di 40 Paesi, ai rappresentanti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario.
L’appello-lettera dei 300 economisti di 30 Paesi ai leader mondiali, essenzialmente diretto a chiedere di mettere fine alla segretezza delle operazioni finanziarie realizzate offshore, trova origine in un dato sostanziale: ad oggi non esiste alcuna reale ragione economica che possa ancora giustificare l’esistenza dei paradisi fiscali. Un appello sposato anche dall’ambiente accademico italiano.
Assieme ai docenti delle più prestigiose università del mondo come Harvard, Oxford e Sorbona, infatti tra i firmatari oltre 100 economisti dei più importanti atenei italiani: da La Sapienza alla Bocconi, da Tor Vergata all’Università di Bologna e molte altre ancora. Tutti concordi sul punto secondo il quale i paradisi fiscali compromettono le capacità degli Stati di raccogliere gettito fiscale a danno dei Paesi poveri.
“In un’economia globale sostenibile la gigantesca elusione fiscale dei nostri giorni deve diventare un ricordo del passato” – dichiara Leonardo Becchetti, Professore Ordinario di Economia Politica all’Università Tor Vergata di Roma, tra i firmatari della lettera.
L’appello diffuso dai 300 economisti è stato coordinato da Oxfam che con la petizione “Basta con i paradisi fiscali” ha raccolto in pochi mesi l’adesione di quasi 280 mila cittadini da tutto il mondo. “L’autorevolezza di questo appello rafforza l’operato di Oxfam, che ne ha coordinato l’azione, nell’ambito della campagna Sfida l’Ingiustizia in cui si chiede ai leader mondiali di porre fine all’era dei paradisi fiscali a livello globale” – aggiunge Roberto Barbieri, Direttore Generale di Oxfam Italia.
L’attuale sistema fiscale permette ai più ricchi e potenti di nascondere tesori offshore, privando i Paesi di risorse essenziali per servizi pubblici di base, come sanità e istruzione. Oxfam, da sempre impegnata con le comunità più vulnerabili in oltre 90 paesi affinché sia data a tutti la possibilità di uscire dalla povertà, avverte che “finché i paradisi fiscali continueranno ad esistere, milioni di persone sono destinate a restare povere”.
I firmatari dell’appello hanno chiesto quindi ai Governi di definire nuove regole globali al fine di obbligare le grandi corporation a rendicontare pubblicamente le loro attività in ciascun Paese in cui operano e ad assicurare la creazione di registri pubblici dei beneficiari effettivi di beni e di società.
L’appello degli economisti ha evidenziato, inoltre, come la Gran Bretagna sia in una posizione di primo piano per porre fine all’era della segretezza offshore: attraverso i Territori Britannici d’Oltremare, la Gran Bretagna ha infatti sovranità su oltre un terzo dei paradisi fiscali di tutto il mondo. Più della metà delle società create da Mossack Fonseca, lo studio legale al centro del recente scandalo Panama Papers, sono state costituite infatti nei Territori Britannici d’Oltremare, come le Isole Vergini.

CONVENZIONI LIBERIA: http://www.giureta.unipa.it/2_PUBL_07_03_2006.htm

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