MIGRANTI- LAMPEDUSA HOTSPOT CLOSURE

Di Rubinia Proli ed Elena Valguarnera -

Il 13 marzo l’hotspot di Lampedusa è stato chiuso dal Ministero dell’Interno al fine di avviare un processo di ristrutturazione dello stesso. I motivi della chiusura devono ricondursi allo stato degradato in cui il centro riversava.

Prima di entrare nel merito della questione si suole comprendere che cosa sia un hotspot e a cosa si deve la sua introduzione nel sistema italiano.

Posto che l’Italia, ed in particolar modo la regione Sicilia, si è trovata a dover rispondere all’imponente sfida logistica di organizzare la prima accoglienza e l’identificazione degli stranieri, l’Europa ha tentato di dare una risposta pratica.

Il rimedio proposto dalle istituzioni europee è il cosiddetto approccio “Hotspot”, definito dalla Commissione Europea come “operational solutions for emergency situations”.

L’hotspot, stando alla definizione della Commissione, è una sezione di frontiera esterna caratterizzata da “pressione migratoria specifica e sproporzionata” causata da flussi migratori misti”. La caratteristica di questi centri è la cooperazione tra i funzionari nazionali e le diverse agenzie europee: l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri UE (Frontex), l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (UESA) e l’Ufficio europeo di polizia (Europol).

I centri sono multifunzionali poiché nell’arco delle 48 ore, arco temporale preferibile della permanenza del migrante, vengono svolte le operazioni di identificazione, registrazione e rilevamento delle impronte digitali.

La multifunzionalità si riflette anche sulla composizione delle squadre che operano all’interno dei centri nell’ottica del principio di solidarietà interstatale dell’art 80 TFUE.

Già prima della crisi migratoria era evidente la necessità di dare attuazione concreta al principio prima citato introdotto dal Trattato di Lisbona. Il Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo riunitosi a Ypres il 26 e 27 Giugno 2014 affermava  negli Orientamenti strategici del quinquennio 2015-2020, che “(…) l’Unione deve dotarsi di una politica efficace e ben gestita in materia di migrazione, asilo e frontiere, guidata dai principi di solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità sanciti dal trattato, in conformità dell’articolo 80 del TFUE e garantendone l’effettiva attuazione” (Linea-guida n. 5); “(…) Ciò dovrebbe tradursi in norme comuni di livello elevato e in una maggiore cooperazione, creando condizioni di parità che assicurino ai richiedenti asilo le stesse garanzie di carattere procedurale e la stessa protezione in tutta l’Unione. Si dovrebbe procedere di pari passo con un rafforzamento del ruolo svolto dall’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO), in particolare promuovendo l’applicazione uniforme dell’acquis. Pratiche convergenti rafforzeranno la fiducia reciproca e consentiranno di procedere verso le prossime fasi” (Linea-guida n. 7).”

Partendo dalla premessa che le azioni proposte presuppongono un’azione coordinata fra Stati e l’equilibrio tra solidarietà e responsabilità, può apparire più chiaro l’operare dell’Unione Europea in tema di immigrazione.

L’Italia ha così posto in essere una tabella di marcia in conformità con l’articolo 8.1 della proposta, la cosiddetta Roadmap  del 28 Settembre 2015  curata dal Ministero dell’interno  ed in seguito   tramite la circolare  prot. 14106 del 6 Ottobre 2015, dello stesso Ministero.

Poiché la Roadmap non è riconducibile ad alcuna fonte normativa interna o di recepimento del diritto europeo è possibile rilevare una lacuna normativa alla base delle politiche di primissima accoglienza. L’unico appiglio normativo risiede nel d.lgs 142/2015 e nel recente decreto Minniti del 17 febbraio 2017.

Partendo dall’analisi del d.lgs 142/2015, attuativo delle direttive europee 2013/33/UE e 2013/32/UE, rispettivamente sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e sulle procedure, è bene rilevare che riguardo alla fase di sbarco il decreto si limita sostanzialmente a richiamare la lacunosa Legge Puglia che istituì i Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA).

Il decreto Minniti dello scorso febbraio è intervenuto con l’obiettivo di recepire la volontà europea e di dare una base normativa più solida agli hotspot. Nei fatti il vulnus non è stato colmato se non introducendo in un testo normativo il termine “punti di crisi”.

Le conseguenze di un vuoto tale si sono riflesse e si riflettono sulla detenzione e trattenimento dei migranti nei “punti caldi” in violazione dell’art. 13 della Costituzione ed inoltre sul trattamento dei migranti e, nondimeno, sulle condizioni dei luoghi.

La chiusura dell’hotspot, principale e storico punto di approdo italiano, ne è l’epilogo.

Pensare che la chiusura sia riconducibile alla mera ristrutturazione ci renderebbe estremamente ingenui. Le denunce circa le pessime condizioni del centro sono state reiterate e numerose negli ultimi anni, la stessa Commissione Diritti Umani già nel 2015 riferiva di condizioni “appena dignitose dal punto di vista igienico e strutturale e con una serie di carenze evidenti”.

Il 24 gennaio il garante nazionale dei diritti dei detenuti, a seguito di una visita nel centro, ha aspramente criticato e denunciato lo stato del luogo.

La domanda che sorge spontanea, allo stato dei fatti, è dove andranno i migranti una volta sbarcati e dove verranno esperite tutte le operazioni obbligatorie. In attesa che le autorità competenti possano offrirci una risposta, quello che ci si augura da adesso in poi sono delle politiche strutturali in tema di migrazione, non solo nazionali, ma soprattutto a livello europeo.

L’approccio emergenziale continua ad affermarsi fallimentare, a scapito del rispetto della dignità umana, nelle sue varie sfaccettature. Più in generale una risposta strutturale europea è ciò che si richiede a gran voce e ci si aspetta visto il ruolo rivendicato dall’Unione Europea quale portatore di diritti umani.

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