I migranti devono conformarsi ai nostri valori

Di Marta Patacchiola -

Cassazione penale, sezione I, 15 maggio 2017 (Ud. 17 maggio 2017), n.24084
Presidente Mazzei, Relatore Novik

La Corte di Cassazione, Sezione I penale, con la sentenza n.24084, depositata il 15 maggio 2017, è tornata ad occuparsi della rilevanza delle c.d. scriminanti culturali nel nostro ordinamento.
La pronuncia ha origine dal ricorso proposto da un imputato indiano avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Mantova il 5 febbraio 2015 che lo aveva condannato ad una pena di € 2.000 di ammenda per il reato previsto dall’art.4 L.110/1975 (porto di armi od oggetti atti ad offendere) perché “portava fuori dalla propria abitazione, senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di cm 18,5 idoneo all’offesa per le sue caratteristiche”. L’imputato era stato trovato dalla polizia locale in possesso di un coltello (kirpan), portato alla cintura e, richiesto di consegnarlo, si era opposto adducendo che il comportamento si conformava ai precetti della propria religione.
Bisogna precisare che il reato contestato ha natura contravvenzionale, è punito, anche a titolo di colpa, ed è escluso se ricorre un “giustificato motivo” (art.4, 2° comma L.110/1975). Nel caso di specie, secondo il giudice di merito “le usanze religiose integravano mera consuetudine della cultura di appartenenza e non potevano avere l’effetto abrogativo di norma penale dettata a fini di sicurezza pubblica”.
L’imputato ha impugnato la sentenza emessa sostenendo che il porto del coltello era giustificato dal suo credo religioso per essere il kirpan “uno dei simboli della religione monoteista sikh” e invocando la garanzia posta dall’articolo 19 della Costituzione.
La Corte di Cassazione, pur a fronte dell’assertività dell’assunto dell’imputato, ha rigettato il ricorso ritenendo che il simbolismo legato al porto del coltello non possa comunque costituire la scriminante posta dalla legge (par. 2.2.). “In una società multietnica – si legge nella motivazione- la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art.2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”.
Proseguono poi i giudici sostenendo che è essenziale “l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina” (par. 2.3).
A parere degli ermellini, nessun ostacolo viene in tal modo posto alla libertà di religione, al libero esercizio del culto e all’osservanza dei riti che non si rivelino contrari al buon costume. E richiamando la sentenza 63/2016 della Corte Costituzionale, sottolineano che “tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto […] sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza”. Nello stesso senso si muoverebbe anche l’articolo 9 della CEDU, come applicato nella costante giurisprudenza europea, che riconosce allo Stato la possibilità di “limitare la libertà di manifestare una religione se l’uso di quella libertà ostacola l’obiettivo perseguito di tutela dei diritti e delle libertà altrui, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica”. (par.2.6).
In conclusione, “tenuto conto che l’articolo 4 della legge n. 110 del 1975 ha base nel diritto nazionale, è accessibile alle persone interessate e presenta una formulazione abbastanza precisa per permettere loro – circondandosi, all’occorrenza, di consulenti illuminati – di prevedere, con un grado ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un atto determinato e di regolare la loro condotta (Go. ed altri c. Polonia (Grande Camera), n 44158/98, § 64, CEDU 2004), va affermato il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere” (par. 3).

Sul tema dei simboli religiosi, si vuole segnalare il caso Multani c. Commission scolaire Marguerite-Bourgeoys, 2006 SCC 6, in cui la Corte Suprema del Canada dovendosi pronunciare sul divieto dell’uso del coltello sikh nelle scuole ha, invece, concesso al ricorrente di poter continuare ad indossare il kirpan nell’ambiente scolastico. La decisione della Corte canadese, con esiti diametralmente opposti a quella in esame, pone l’accento sulla centralità dell’elemento soggettivo della questione, ossia sulla percezione che il fedele ha del proprio simbolo religioso. A parere dei giudici, “non c’è dubbio che questo oggetto possa essere usato in modo sbagliato per ferire o addirittura uccidere, ma la questione non può essere risolta considerando le caratteristiche fisiche del kirpan. Quindi, per definire la natura del simbolo, Gurbaj Singh Multani non deve dimostrare che il kirpan non è un’arma, ma solo che la sua personale e soggettiva credenza nel significato religioso del kirpan è sincera” (par.36).
La sentenza della Corte Suprema offre lo spunto per considerare come di fronte ad una fattispecie simile ponendo l’accento su diverse prospettive – l’ordine pubblico nel caso interno e la percezione del fedele nella decisione canadese- si possa giungere ad esiti diversi, se non opposti.

Patacchiola Commento sentenza 24084-2017

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