Le manifestazioni della delinquenza giovanile

Di Andrea Baiguera Altieri -
  1. Le devianze femminili.

Secondo Blatier (1999)[1] esiste anche una percentuale non indifferente di delinquenza giovanile femminile, ma “gli atti [delinquenziali] delle ragazze sono senz’altro meno violenti e aggressivi di quelli commessi dai ragazzi”. Assai pertinentemente, Cario (1997)[2] ha specificato che il genere biologico, quello maschile e quello femminile, è associato a “autentiche variabili politiche, sociali e culturali”. Essere maschio o femmina non si limita ad una questione fisica, bensì la mascolinità e la femminilità sono poi veicolate all’interno di ruoli collettivi molto ben pre-determinati. Ciò che conta è capire come e perché, ad un certo momento storico, variano tali ruoli. Del pari, Garrett (1987)[3] specifica che la distinzione tra il maschile ed il femminile è fondamentale, in ambito criminologico, in tanto in quanto “la prospettiva del genere è molto determinante all’interno di svariati ambiti, quali il lavoro, le attività politiche, ma anche la devianza ed il crimine”. Imparare ad essere maschio o femmina è fondamentale ed è alla base dei valori e delle abitudini di ciascuna società, tanto che Born (2005)[4] afferma che “tutta la società, in effetti, ha ruoli sociali ed attitudini differenziate a seconda del binomio maschio/femmina. P.e., è frequentemente ammesso che i ragazzi si valorizzino per la loro forza e la loro virilità, mentre le ragazze sono più educate alla dolcezza ed alla remissività. Certamente, questi dati sociali sono molto influenzati da stereotipi, ma si tratta di valori molto radicati nella nostra società. È sufficiente entrare in un negozio di giocattoli per averne la certezza: bambole, fiocchi rosa e forni a microonde regnano per le bambine, mentre per i maschi, al contrario, ci sono giochi di costruzioni e mostri terrificanti. A tal proposito, Cario (ibidem)[5] parla di “attitudine differenziale”, nel senso che la differenza di genere finisce per influenzare anche la formazione professionale, l’immagine della donna trasmessa dai mass-media e la legislazione, che riserva certi ruoli solamente alla donna. Molti Autori, nella Criminologia francofona elvetica, parlano di “apprendimento differenziato” tra ragazzi e ragazze e ciò influisce pure sul contesto dei comportamenti delinquenziali.

Certamente, la devianza, almeno quella violenta, è un fenomeno più maschile che femminile. In effetti, come notato da Chesney-Lind (1997)[6] mancano statistiche criminologiche appositamente riservate alla delinquenza femminile. Ciononostante, altrettanto giustamente, Garrett (ibidem)[7] rimarca che “è ugualmente importante precisare che in tutti i Paesi in cui sono disponibili censimenti sulla devianza femminile, il risultato è che le donne commettono molti meno atti delinquenziali degli uomini”. A livello globale, le donne costituiscono solamente un quarto dei soggetti sottoposti alla misura dell’arresto. Assai interessante è Chesney-Lind (ibidem)[8], la quale, sotto il profilo statistico, asserisce che “esiste un legame tra i problemi [infantili] delle bambine e la criminalità delle donne. Non si tratta affatto di due entità separate […] Delle ricerche sull’infanzia delle donne criminali hanno rivelato che taluni seri problemi, durante l’adolescenza, possono avere degli effetti determinanti sulle scelte di vita delle ragazze. P.e., negli USA, quasi un terzo delle donne detenute è stato abusato fisicamente o sessualmente prima dei 18 anni d’età e più del 50 % è cresciuto in una famiglia senza la presenza di entrambi i genitori; oppure ancora, più di un terzo dei genitori delle donne attualmente detenute aveva problemi di alcol o stupefacenti. Sempre Cario (ibidem)[9] sottolinea che le donne, in ogni caso, non praticano quasi mai la violenza etero-diretta, mentre è frequente l’atteggiamento borderline dell’auto-lesionismo. Più che altro, i delitti femminili maggiormente diffusi sono l’abbandono di minore, la falsificazione e l’uso illegale di assegni e carte di credito e l’esercizio abusivo della prostituzione. Cario (ibidem)[10], alla luce della non violenza criminologica femminile, giunge ad asserire che la delinquenza delle donne “può essere qualificata di esclusione o di precarietà sociale […] senza una reale gravità per l’integrità materiale degli spazi umani”. Di solito, sotto il profilo statistico, le donne che delinquono sono giovani (due su cinque infra.25enni), straniere, poco scolarizzate e poco formate dal punto di vista professionale. Gavray (2009)[11] ha affermato che le differenze tra devianti uomini e devianti donne non sono solo bio-fisiche, ma anche caratteriali, ovverosia “la delinquenza delle ragazze adolescenti sembra più legata a delle difficoltà connesse al contesto e al vissuto di vittimizzazione psico-sociale, mentre la delinquenza dei ragazzi si rivela più legata all’esigenza di dimostrare la loro mascolinità”.

Nel descrivere la formazione del carattere delle giovani ragazze, Cario (ibidem)[12] ammette che la femminilità è un dato biologico, ma anche una struttura pedagogica, in tanto in quanto “il processo della loro socializzazione [delle bambine] favorisce la strutturazione di una personalità i cui tratti psicologici più notevoli conducono al rispetto dell’altro, all’affettività ed alla dolcezza”. Similmente, Parent (1992)[13] precisa che le sovra-strutture sociali sono fondamentali, nel senso che “è necessario prendere in conto non soltanto le caratteristiche biologiche o psicologiche delle donne, ma, soprattutto, i fattori politici, economici e sociali in cui si colloca la criminalità [femminile] […]. Le condizioni materiali delle donne nelle società patriarcali e capitaliste, unite ad un sentimento di ingiustizia sociale, recano [le donne] ad optare, poco per volta, per l’illegalità. La donna criminale non viene dal nulla, bensì da uno specifico contesto culturale” Cario (ibidem)[14] sottolinea che “le donne, anche quando hanno gli stessi doveri familiari, sociali, economici o culturali degli uomini, evitano, ciononostante, di ricorrere alla violenza per risolvere i conflitti […]. Esistono istinti astenici, come la paura, la sottomissione, la tenerezza ed il rimpianto. Dal lato opposto, esistono istinti stenici, come l’imponenza, l’autorevolezza, la curiosità e la gioia del predominio sessuale. Ora, gli istinti astenici sono tipici della donna, quelli stenici degli uomini”.

Secondo Garrett (ibidem)[15] è diffusa l’opinione secondo cui vi sono delle distinzioni biologiche nettamente marcate tra gli uomini e le donne e sono tali differenziazioni che determinano i rispettivi ruoli sociali. Tra i fattori biologici si pensi alla forma del cervello, agli ormoni, ai cromosomi o alle caratteristiche sessuali secondarie, che sono spesso utilizzate per spiegare le differenze di comportamento in funzione del sesso e, talvolta, per giustificare una non eguaglianza di trattamento tra gli uomini e le donne”. In effetti, molte argomentazioni misogine si basano sulla biologia per spiegare le differenze tra maschio e femmina nel fenomeno della criminalità. Nell’Ottocento, Lombroso e Ferrero affermavano che le donne sono “menzognere per costituzione” e, quindi, riescono a nascondere facilmente gli effetti dei loro reati. Anzi, Lombroso dava un’idea riduttiva della donna, reputata inferiore all’“uomo criminale”. Pure Ferrero asseriva che la donna istiga spesso il maschio a delinquere. Tuttavia, a parere di chi redige, l’osservazione migliore, con afferenza alla minor aggressività della donna, è provenuta da Cusson (1981)[16], a parere del quale “le attività criminali femminili sono meno decisive, soprattutto per i ruoli sociali che esse esercitano. Finalmente, molti Autori sono giunti ad affermare che la donna possiede, in se stessa, un dispositivo predisposto ad avere bambini, quindi ella, per natura, ha uno speciale istinto per occuparsi dei figli, mentre l’uomo è destinato ad essere più aggressivo e dominante, poiché ha un ruolo solo strumentale all’interno della famiglia” Sia Garrett (ibidem)[17] sia Cario (ibidem)[18] affermano che, nella tradizione criminologica occidentale, la donna è stata sempre considerata alla stregua di una “delinquente inferiore”. P.e., la donna non può fisicamente partecipare alla delittuosità che richiede l’impiego della forza fisica. Cario (ibidem)[19] sostiene che “le donne non hanno una natura più morale degli uomini, ma, più semplicemente, esse hanno molte meno opportunità di cedere al crimine, poiché esse non dispongono dei mezzi [sociali] necessari”.

  1. Il ruolo sociale “si impara”

Verso la fine dell’Ottocento, Durkheim, che certamente non può essere accusato di femminismo o di progressismo, sosteneva che la “sotto-rappresentazione” delle donne, negli ambiti criminali e pure nell’ambito sociale, è l’effetto di quelle che egli denomina “cause sociali”, in contrapposizione alle “cause organiche”, le quali sono molto meno importanti delle “strutture sociologiche”. Altrettanto importante è l’asserto che traspira da tutte le Opere di Sutherland e di Cressey, a parere dei quali i comportamenti anti-sociali ed anti-normativi “si imparano”. Dalla fine dell’Ottocento, la Criminologia anti-lombrosiana ha recato il coraggio di affermare che la delinquenza non è una questione biologica, né, tantomeno, innata o ereditaria. Altrettanto giustamente, anche Cario (ibidem)[20] ha rimarcato che la criminalità è un fatto sociale, poiché “sono soltanto le occasioni che mancano alla donna perché ella sia meno facilmente coinvolta nella devianza […]. Una tale resistenza al crimine da parte delle donne è culturale e fa sì che esse si fermino volontariamente lungo il cammino della criminalità […] Questa resistenza ha un legame con le caratteristiche di socializzazione dovute al loro genere, che tende a favorire tratti fisiologici quali l’affettività, l’etero-centrismo, la tolleranza o, ancora, la solidarietà. Anzi, secondo Cario (ibidem)[21], anche la Magistratura, unitamente alla PG, manifesta una certa riverenza verso il carattere sociale matriarcale, in tanto in quanto “il posto della donna è il focolare, quindi è meglio ricondurla lì ogniqualvolta ella se ne allontana per avvicinarsi al mondo della delinquenza”. Assai interessante è pure lo Studio di Blatier & Robin (2000)[22], i quali hanno elaborato varie statistiche sulle ragazze europee condannate dall’AG. A parere di tali Autori, le politiche educative dei vari Stati europei sono fondamentali per far diminuire o, viceversa, far crescere la percentuale di adolescenti femmine condannate. Blatier & Robin (ibidem)[23], analizzando l’applicazione dell’istituto della messa alla prova per le ragazze, evidenziano che esso è maggiormente applicato ai ragazzi maschi, “poiché una certa clemenza, per lungo tempo, è persistita, presso i Magistrati, nei confronti delle ragazze”. Ecco che torna predominante la visione della donna infrattrice “da ricondurre al focolare”. Tale indulgenza giudiziaria nei confronti delle ragazze è segnalata anche da Gimenez & Blatier & Paulicand & Pez (2005)[24], a parere dei quali “in effetti, le ragazze sono meno denunciate dalla popolazione e anche dalla PG e dall’AG e sono oggetto di un numero inferiore di deposito di querele, forse a causa degli stereotipi sociali, i quali mettono sempre in vista più i comportamenti dei ragazzi che non quelli delle ragazze. Gli Autori femministi hanno dei dubbi su questo fattore, definito cavalleresco, secondo cui le ragazze andrebbero trattate meno severamente. Si tratta, in definitiva, di un vecchio mito paternalista. Ci sono certi Autori secondo cui le donne non sarebbero capaci di prendere le loro decisioni. Le donne non sarebbero mai delle vere criminali a motivo della loro natura dolce e passiva”. Finalmente, tuttavia, negli Anni Sessanta del Novecento, nacque una c.d. Criminologia femminista “che analizzò, in senso auto-referenziale, la spinosa tematica dello “statuto sociale” della donna, quale fattore della scarsa partecipazione femminile al crimine”. Era giunto il termine dell’immagine stereotipata del c.d. “sesso debole”, anche nel contesto della criminogenesi. Sicuramente, ipertrofica e fortemente politicizzata è stata Garrett (ibidem)[25], a parere della quale “il lemma femminista indica qualcuno che rifiuta di prendere per oro colato che le differenze tra l’uomo e la donna siano [solo, ndr] biologiche. Le femministe sono consapevoli che le scienze sono dominate dagli uomini e che esse sono state utilizzate per legittimare le divisioni provocate nella società”. Più moderato è Perretti-Watel (2001)[26], secondo cui “ci sono delle regole in ogni società afferenti alle attività più idonee per gli uomini ed a quelle più idonee per le donne […]. [Tali regole] variano considerevolmente in funzione della cultura dominante. Per ciò che attiene alla criminalità, il femminismo reputa che una spiegazione può essere trovata nella socializzazione in funzione del genere e nelle forme di dominio dei maschi nella società”. Molto pertinente ed equilibrata si dimostra Rubi (2003)[27], ovverosia “non esiste una teoria esatta a proposito della delinquenza femminile, poiché tutte le teorie sono costruite a partire da modelli che esistono già e che sono stati elaborati a partire delle esperienze mascoline. Donde, la necessità di basarsi [unicamente] sul punto di vista delle ragazze […]. Il femminismo non è per nulla responsabile dell’aumento della criminalità femminile registratosi successivamente ai movimenti di emancipazione del decennio 1960-1970 “Del pari, pure Chesney-Lind (ibidem)[28] ha segnalato che, sotto il profilo algebrico-statistico, il femminismo degli Anni Sessanta e Settanta del Novecento non ha recato ad un aumento della devianza criminale delle donne, la cui crescita, semmai, s’ha da imputare ad altre cause. Gavray (ibidem)[29], a parere di chi redige con troppa esagerazione, nega addirittura il binomio biologico maschio-femmina e sostiene che “le differenze sessuate nei valori, nelle opinioni, nelle attitudini e nei comportamenti non vanno considerate come dati biologici, bensì sono largamente condizionate dalla socializzazione e dalla interiorizzazione, spesso inconsapevole, di norme contraddittorie, che taluni Autori proseguono significativamente a valorizzare, creando differenze e separazioni di ruoli tra i sessi”. Chi scrive gradirebbe proporre a Gravay la insopprimibile differenza tra una bambina impegnata a giocare con una bambola ed un bambino che tiene in mano un giocattolo a forma di fucile. Un conto è predicare la pari dignità di genere. Un altro conto è estremizzare il femminismo sino a pretendere di annichilire la insopprimibile diversità bio-psichica tra uomo e donna. L’aggressività maschile, entro i limiti del lecito, costituisce un carattere sessuato inamovibile. Altrettanto dicasi per la maternità e l’accoglienza femminile.

Anche per l’epoca attuale, dunque a livello meta-geografico e meta-temporale, è e rimane vero quanto asserito da Collette-Carrière & Langelier-Biron (1983)[30]: “è un dato che persiste con forza e costanza. Le ragazze commettono meno atti delinquenziali dei ragazzi. Tale differenza sussiste qualunque sia il Paese, il metodo di raccolta dei dati, l’età, il periodo ed il contesto socio-economico. Nonostante l’asserto di Collette-Carrière & Langelier-Biron risalga al 1983, la delinquenza delle ragazze non ha mai raggiunto quella dei ragazzi, né sotto il profilo quantitativo, né sotto il riguardo qualitativo. Tuttavia, negli Anni Duemila, un lieve incremento si è registrato. Secondo Gimenez & Blatier & Paulicand & Pez (ibidem)[31], nel contesto francese, la criminalità adolescenziale femminile ha fatto registrare, nell’anno 2000, un + 5,45 % e quella maschile un + 2,51 %. A parere del summenzionato Studio statistico del 2005, forse “si è avuto un aumento reale dei delitti femminili, si sono modificati i ruoli sociali delle donne e degli uomini e sono cambiate le Prassi della PG e dell’AG, che riconoscono più facilmente e più apertamente di una volta i delitti delle ragazze”. Secondo Mucchielli (2007)[32], “l’aumento del contributo delle ragazze nella delinquenza è, tutto sommato, simile a quello dei ragazzi, per tutti i reati commessi, eccezion fatta per quelli basati sulla violenza fisica […]. Sono sempre gli stessi processi [sociali] che contribuiscono a questo aumento presso tutti e due i sessi, ma non v’è alcuna urgenza di cercare fattori particolari che dovrebbero spiegare una presunta evoluzione del comportamento delle ragazze. Ad ogni modo, anche se le ragazze sembrano essere sempre più presenti all’interno del fenomeno della delinquenza, comunque esse restano ancora indietro rispetto ai ragazzi, perché tale disparità dipende, tutt’oggi, dalla perenne differenziazione dei ruoli sociali attribuiti agli uomini e alle donne”.

  1. Cos’è la delinquenza?

Blatier (ibidem)[33] distingue tra anti-socialità ed anti-giuridicità, in tanto in quanto “il delitto [anti-giuridico] è caratterizzato dalla proibizione codificata nella legge; le devianze [anti-conformistiche ma non etero-lesive] sono condotte borderline e non sono reati. La delinquenza è troppo spesso confusa con questi comportamenti devianti, ma non illegali Ciò contribuisce all’aumento di una grande incomprensione da parte dell’opinione pubblica, sottomessa totalmente ai fraintendimenti dei mass-media”. Blatier (ibidem)[34] ha avuto il notevole merito di distinguere tra l’eterolesività anti-giuridica e, dall’altro lato, le condotte borderline non etero-lesive. Tutti i reati sono devianze, ma non tutte le devianze sono reati. Esistono condotte eccentriche, giovanili e non, che non recano alcuna lesione all’Ordinamento giuridico. Sempre Blatier (ibidem)[35] osserva, giustamente, che “delinquente, rapinatore, bandito. Gli aggettivi non mancano per definire i giovani che commettono atti che gli adulti e la società, in generale, non accettano. Sembra evidente che, ai nostri giorni, il lemma delinquente è diventato una moneta diffusa ed è utilizzato in tutte le salse, il che comporta che il suo significato originale è stato stravolto”. A parere di Aebi (2008)[36] “le nozioni di delinquenza e di comportamenti devianti sono una costruzione sociale […]. Essi sono, per conseguenza, il risultato di interpretazioni realizzate in funzione del tempo e dello spazio e, quindi, non sono fisse, perché esse si evolvono nel corso del tempo”. L’asserto di Aebi (ibidem)[37], a parere di chi commenta, è condivisibile solo se si ammette l’esistenza di uno “zoccolo duro” meta-temporale e meta-geografico di delitti “perenni”, universalmente condivisi. P.e., si pensi alla rapina, alla tortura, alla pedofilia, all’incesto o all’omicidio senza cause scriminanti. Analogamente, Cusson (ibidem)[38] sostiene che “l’oggetto di studio costituito dalla delinquenza è sottoposto alle variazioni della vita politica e morale”. Di nuovo, chi redige ribadisce, pur sempre, l’esigenza di taluni valori morali immutabili sotto il riguardo spazio-temporale.

Molto importante è pure quanto sostenuto da Simonin & Killias & Villettaz (2004)[39], poiché la “democratizzazione attuale dei mass-media e la maggiore visibilità dei diversi fatti e dei comportamenti danno l’impressione che la delinquenza e l’insicurezza siano più importanti oggi che addietro. Sempre di più, compaiono discorsi allarmisti, soprattutto nella propaganda politica, ma si tratta di pregiudizi. Chi si oppone a tale prospettiva evoca non un aumento dei delitti commessi dai giovani, bensì una migliore riportabilità statistica dei dati ed una minore indulgenza della PG nei confronti degli infra-18.enni”. Altrettanto equilibrati ed anti-populisti sono pure Harrati & Vavassori & Villerbu (2006)[40], giacché “i reati sono sempre esistiti e non sussiste un grande aumento dei casi; donde la necessità di smontare certe idee che circolano oggi. Chi ruba un uovo non guadagnerà milioni, né sarà sempre un recidivo, né subirà un altro processo per un delitto del medesimo tenore, né farà una carriera criminale iscritta nel proprio Casellario. Un delitto minore, dunque, non fa di chi l’ha commesso un pericoloso delinquente”. La Criminologia francofona svizzera ha rimarcato che numerosi pregiudizi e valutazioni si basano unicamente sull’apparenza. Anche il termine “delinquente” non sfugge a questi pregiudizi ed oggi è utilizzato in maniera strumentalizzata. In Svizzera ed in tutta Europa, la delinquenza giovanile resta un fenomeno relativamente ordinario. Giustamente, Cusson (ibidem)[41] ha sottolineato che “bisogna sdrammatizzare. In effetti, praticamente tutti gli adolescenti commettono dei reati, e non soltanto i cc.dd. ragazzi di cattiva famiglia”. “La trasgressione e lo scontro con la Legge diviene necessario ad una certa età, soprattutto durante il delicato passaggio dall’infanzia all’età adulta, ove la delinquenza assume un “valore iniziatico”. Dopodiché, senz’altro, può manifestarsi una “delinquenza da esclusione”, che discende da condizioni di vita difficili, magari estremizzate dalla mancanza di un lavoro. In tal caso, si può parlare di “delinquenza patologica”. Naturalmente, esistono delle ragioni per spiegare questi comportamenti delinquenziali, ma non si può prendere in considerazione un solo parametro, in tanto in quanto si tratta di un processo molto complesso, non riconducibile allo stereotipo della solita “infanzia infelicemente vissuta”. P.e., nel giovane recano molta importanza le reazioni di sopravvivenza verso un presunto pericolo auto-percepito, oppure ancora conta l’affermazione di sé, la ricerca traumato-filiaca del piacere o un delirio di dominio o di gloria. Tutto ciò premesso, tuttavia, Cusson (ibidem)[42] ribadisce più e più volte che “non necessariamente i ragazzi devianti si radicheranno nel crimine”. Nella maggior parte dei casi, l’adolescente pratica la via del reato per uscire dall’infanzia e sentirsi adulto. La criminalità degli adolescenti è, sotto il profilo psicologico, una rivolta, un tentativo di sopravvivere, una ricerca di alternative.

  1. La devianza non è sempre delinquenza.

Sia sotto il profilo sociologico, sia sotto il riguardo giuridico, esistono comportamenti devianti ed anti-sociali ancorché non delinquenziali ed anti-giuridici. Inoltre, pure la ratio dell’anti-socialità costituisce una variabile assai incerta, alla luce del complesso fenomeno delle cc.dd. “minoranze attive”. Secondo Cusson (ibidem)[43], “l’unica causa effettiva di un crimine non è altro che colui che lo commette, il criminale, vale a dire un uomo libero e responsabile dei propri atti, sottomesso, come chiunque di noi, nel corso della sua esistenza, a degli avvenimenti non prevedibili e suscettibili di diminuire la sua lucidità ed il suo auto-controllo”. Sotto il profilo etimologico, Harrati & Vavassori & Villettaz (ibidem)[44] precisano che “etimologicamente, il lemma delinquente deriva dal latino relinquere, che vuol dire lasciare, abbandonare, rompere un legame, separarsi “Attualmente, il “delinquente” è quell’individuo che va contro le leggi, le norme e l’ordine sociale. Nel Settecento, il lemma “delinquente” è entrato a far parte del linguaggio giuridico. Con una sintesi formidabile, Queloz (2007)[45] asserisce che il lemma “delinquente” reca una semantica prettamente giuridica, ovverosia “la delinquenza non è uno stato o una natura particolare, da cui l’importanza di evitare ogni giudizio di valore a tal proposito. Dal punto di vista del Codice Penale [svizzero], esistono differenti tipi di infrazione: le contravvenzioni, per esempio, relative al codice della strada; i delitti, come il furto, la truffa, nonché lo spaccio di stupefacenti; e, infine, ci sono i crimini, come le aggressioni sessuali, gli omicidi, le torture ed il narcotraffico. Dal punto di vista criminologico, Born (ibidem)[46] sottolinea che “la delinquenza giovanile è l’insieme delle infrazioni (crimini e delitti) definiti tali dalla legge e commessi da persone infra-18enni, purché [dicesi: purché, ndr] tale insieme di infrazioni sia conosciuto dalla PG e dall’ AG, al fine di essere sanzionato con una misura”.

Da circa duecento anni, nella Criminologia occidentale dominano, più o meno, tre Teorie sul tema della criminogenesi: la Teoria della tensione, la Teoria del controllo sociale e la Teoria delle sotto-culture devianti.

La Teoria della tensione, fondata dallo statunitense Merton, postula che ogni società è definibile secondo le finalità culturali che le sono specifiche (la c.d. “riuscita sociale”) e ogni consorzio umano ha dei mezzi istituzionali che permettono di pervenire a tali finalità. Tuttavia, il soggetto che non raggiunge questo fine e che non beneficia di questi messi, tenterà di conseguirli con altri metodi non legali. La Teoria della tensione, dunque, sottolinea le ineguaglianze sociali e la difficoltà degli individui di essere accettati dal sistema di cui essi dovrebbero far parte.

La Teoria del controllo sociale sostiene che i comportamenti delinquenziali sono il risultato di una socializzazione sbagliata o carente. Tale Teoria del “social control” mette in evidenza un indebolimento del ruolo sociale dei giovani, che si pongono in contrasto con la famiglia e la scuola, sostituendo le agenzie di controllo tradizionali con il gruppo dei coetanei, dei “pari”, che orienteranno sovente l’individuo verso delle pratiche delinquenziali. La Teoria del controllo sociale è connessa a quella delle “opportunità”, secondo cui certe attività, come le uscite notturne del/della ragazzo/a favoriscono atti infrattivi da parte degli adolescenti, che non sono più sottomessi ad una figura rappresentante la “Autorità”.

Esiste pure la Teoria delle sotto-culture devianti, a norma della quale le regole di condotta non sono mai uniformi. In effetti, certi “gruppi” favoriscono delle norme contrarie a quelle della società. Entro siffatta prospettiva, il fenomeno delle “bande”, che non è certo nuovo, crea la delinquenza giovanile.

A prescindere dalle singole Teorie sulla delinquenza adolescenziale, rimane, comunque, fondamentale rimarcare che gli infra-18enni che hanno commesso un atto delittuoso non inizieranno tutti una “carriera criminale”. Blatier (ibidem)[47] insiste molto sul fatto che quella giovanile è una “criminalità estemporanea” o “criminalità transitoria”, che non procede quasi mai nel lungo periodo. Tutti gli Autori francofoni svizzeri negano la normalità o, peggio, la inevitabilità di una “delinquenza persistente”. Molto lucidamente e contro qualsivoglia populismo, Born (ibidem)[48] afferma che “il delinquente occasionale commette, generalmente, degli atti di lieve entità e ciò con una frequenza inferiore rispetto ai suoi coetanei che entrano in una carriera delinquenziale, caratterizzata da un più grande numero di atti commessi e da una gravità tale da rendere necessaria la reclusione. Per chi è all’interno di una carriera criminale, l’attività delinquenziale si procrastina ben al di là dell’adolescenza. Sbaglia quella parte della nostra società che crede che le condotte devianti giovanili si riflettano [deterministicamente] sulla criminalità dell’età adulta”. Encomiabilmente, Kaluszynski (1996)[49] ha notato che “Drillon scriveva, già nel 1905, che il piccolo malfattore diverrà, fatalmente, un grande criminale […] il che mette evidentemente in pericolo l’avvenire del nostro Paese. No, la delinquenza dei minorenni non è lo specchio della futura criminalità degli adulti”. Tuttavia, come osserva Perretti-Watel (ibidem)[50], “più l’ingresso nel mondo della delinquenza è precoce, più il rischio di una recidiva è consistente”. Similmente, molti Autori della Teoria delle “sotto-culture devianti” hanno distinto tra “delinquenza giovanile iniziatica” e “delinquenza giovanile trasgressiva”. Quella “trasgressiva” è una rottura passeggera con l’inquadramento sociale ed il focolare domestico. Invece, la “delinquenza giovanile iniziatica”, molto diffusa nelle periferie degradate, è una trasgressione sociale che permette al giovane di integrarsi in una “sotto-cultura deviante” e di cominciare una vera e propria “carriera delinquenziale”. Ciononostante, nemmeno la “delinquenza giovanile iniziatica” è irreversibile, in tanto in quanto essa dipende da una miriade di fattori non pre-determinabili, quali l’età dell’individuo, la durata, la ripetizione dell’atto, l’alternanza delle manifestazioni infrattive, i sintomi caratteriali, la qualità dell’atto, l’intensità della violenza e del dolo, le rappresentazioni psicologiche del/della ragazzo/a, gli ambiti dell’infrazione, il livello di cultura del giovane, la sua psiche, le eventuali perturbazioni organiche, l’eventuale intervento della scuola e la posizione della famiglia, se presente. Anche Queloz (2004)[51] invita la Criminologia svizzera a creare una “griglia di lettura per gli atti delittuosi che possono commettere gli adolescenti: ci sono atti di incoscienza, atti di disturbo, atti derogatori, atti di pura trasgressione e, infine, atti attentatori”. Secondo Born (2002)[52], “l’età dei vent’anni è come una cerniera, ove i giovani debbono prendere delle decisioni importanti […]. Il loro modo di vita si preciserà parallelamente alla loro auto-coscienza di responsabilità, soprattutto in ambito penale. Sicché questi diversi elementi condurranno ad un abbandono della delinquenza per la maggior parte dei giovani, ma alcuni giovani potrebbero rinforzare la loro devianza, poiché essi sono da lungo tempo marchiati dalla vulnerabilità sociale.

[1]Blatier, La délinquance des mineurs. L’enfant, le psychologue, le droit, Presses Universitaires, Grenoble,   1999.

[2]Cario, Les femmes résistent au crime, L’ Harmattan, Paris, 1997.

[3]Garrett, Gender, Tavistock Publications, London, 1987.

[4]Born, Psychologie de la délinquance, De Boeck, Bruxelles, 2005.

[5]Cario, op. cit.

[6]Chesney-Lind, The female offender: Girls, Women and Crime, Sage Publications, London, 1997.

[7]Garrett, op. cit.

[8]Chesney-Lind, op. cit.

[9] Cario, op. cit.

[10]Cario, op. cit.

[11]Gavray, Délinquance juvénile et enjeux de genre. Interrogations ? Revue pluridisciplinaire en sciences de l’homme et de la societé, 8, 2009.

[12]Cario, op. cit.

[13]   Parent, La contribution féministe à l’étude de la déviance en criminologie, Criminologie, 25 (2), 1992.

[14]Cario, op. cit.

[15]Garrett, op. cit.

[16]Cusson, Délinquants pourquoi ? Armand Colin, Paris, 1981.

[17]Garrett, op. cit.

[18]Cario, op. cit.

[19]Cario, op. cit.

[20]Cario, op. cit.

[21]Cario, op. cit.

[22]   Blatier & Robin, La délinquance des mineurs en Europe, Presses Universitaires, Grenoble, 2000.

[23]Blatier & Robin, op. cit.

[24]Gimenez & Blatier & Paulicand & Pex, Délinquance des filles, l’ esprit du temps, Adolescence, Tome 54, 2005.

[25]Garrett, op. cit.

[26]   Perretti-Watel, Théories de la déviance et délinquance auto-reportée en milieu scolaire. Déviance et société, 25, 2001.

[27]   Rubi, Il ruolo della famiglia nello sviluppo dell’identità deviante, 2003.

[28]Chesney-Lind, op. cit.

[29]Gavray, op. cit.

[30]Collette-Carrière & Langelier-Biron, Du coté des filles et des femmes, leur délinquance, leur criminalité, Criminologie, 16 (2), 1983.

[31]Gimenez & Blatier & Paulicand & Pex, op. cit.

[32] Mucchielli, L’évolution de la délinquance juvénile en France. Texte Communiqué à partir de la rencontre-débat du15 Avril 2007. Bandes de jeunes et violences des mineurs au quotidien: analyse et prévention organisée par le Centre de Ressources Politiques de la Ville en Essonne, 2007.

[33]Blatier, op. cit.

[34]Blatier, op. cit.

[35]Blatier, op. cit.

[36]Aebi, Apercu de la situation des enquetes de la délinquance auto-reportée en Europe, CrimPrev, Assessing  Deviance, Crime and Prevention in Europe, 9, 2008.

[37]Aebi, op. cit.

[38]Cusson, op. cit.

[39]Simonin & Killias & Villettaz, La délinquance juvénile: Augmentation depuis 50 ans. Crimiscope (23), www.unil.ch  2004.

[40]Harrati & Vavassori & Villerbu, Délinquance et violence, Armand Colin, Paris, 2006.

[41]Cusson, op. cit.

[42]Cusson, op. cit.

[43]Cusson, op. cit.

[44]Harrati & Vavassori & Villerbu, op. cit.

[45]Queloz, Le nouveau droit pénal suisse permet-il de faire face à l’évolution de la délinquance des jeunes? Festschrift für Franz Riklin, 2007.

[46]Born, op. cit.

[47]Blatier, op. cit.

[48]Born, op. cit.

[49]Kaluszynski, Enfance coupable et criminologie: historie d’une construction réciproque, 1880-1914. In Chauvrière & Lenoel & Pierre, Protéger l’enfant: raison juridique et pratiques socio-judiciaires XIXe-XXe siècle, Presses Universitaires, Rennes, 1996.

[50]Perretti-Watel, op. cit.

[51]   Queloz, Jeunes et délinquance. In Jeunesse aujourd’hui: Analyse sociologique de la jeunesse et des jeunes dans une société en mutation rapide. Actes de la rencontre autour de Michel Vuille, sociologue au Service de la recherche en éducation, à l’occasion de son départ à la retraite, 18 mai 2004, Forum Meyrin Genève, Service de la recherche en éducation, Genève, 2004.

[52]Born, Continuité de la délinquance entre l’adolescence et l’age adulte. Criminologie, 35 (1), 2002.

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