LA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI ROMA NEL PROCESSO “MAFIA CAPITALE”

Di Daniele Labianca -

Il 16 ottobre scorso i giudici della X Sezione penale del Tribunale di Roma hanno depositato la corposa motivazione della sentenza relativa al processo cd. “Mafia Capitale”, conclusosi in primo grado con la lettura del dispositivo all’udienza del 21 luglio 2017.
All’esito del dibattimento di prime cure, i giudici del tribunale capitolino hanno accolto solo parzialmente la ricostruzione, fattuale e giuridica, operata dalla Procura della Repubblica romana, in ordine alle penali responsabilità dei numerosi imputati rinviati a giudizio per plurimi reati, tra cui spiccano quelli di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, riciclaggio, turbativa d’asta, corruzione (propria ed impropria) e trasferimento fraudolento di valori, spesso aggravati dall’aggravante della mafiosità (ritenuta sussistente, nell’ottica della Procura, tanto sotto il profilo di agevolazione quanto sotto quello dell’avvalimento del metodo). L’impostazione accusatoria, in particolare, non ha trovato riscontro nella pronuncia dei giudici di merito in relazione, primariamente, alla sussistenza nel territorio capitolino di un’associazione a delinquere di tipo mafioso; caratteristica – quella della mafiosità del sodalizio – che ha costituito il perno della tesi propinata dalla parte pubblica e non condivisa, come subito si vedrà, dall’organo giudicante.

La quaestio iuris che rileva, nell’analisi delle implicazioni giuridiche sottese alla sentenza de qua, inerisce la possibilità di configurare l’esistenza di un sodalizio mafioso al di fuori dei tradizionali ambiti di manifestazione delle mafie cd. tradizionali. È, in breve, il tema dell’estensibilità dei moduli comportamentali tipicamente riconducibili alle mafie classiche a sodalizi operanti in ambiti geografici differenti, la cui permeabilità al modus operandi delle associazioni criminali tradizionalmente intese costituisce oggetto di disputa. Tralasciando l’ampio dibattito mediatico cui ha dato luogo il processo, favorito da pressanti sollecitazioni di carattere politico-giornalistico che qui non rilevano, è opportuno evidenziare che l’interrogativo giuridico, in ordine all’acquisito carattere della mafiosità del sodalizio, appare maggiormente problematico in considerazione dell’assenza, ad oggi, di declaratorie giudiziali relative all’operatività – sul territorio romano – di associazioni di tipo mafioso. A Roma, secondo i giudici, la mafia non è mai esistita; e, per il momento, continua a non esistere.

Le indagini dei pubblici ministeri romani – avviate nel 2010 – avevano subito una svolta nel 2011 ed erano poi proseguite fino al giugno 2015.
Inizialmente le ipotesi di reato insistevano nell’ambito delle attività politiche relative all’eversione nera; in seguito, veniva formulata un’ipotesi associativa riferita ad attività di riciclaggio ed usura. Infine, aveva preso corpo l’ipotesi di reato ex art. 416 bis c.p., in parallelo a singole imputazioni (per i cd. reati-fine) riguardanti il settore della pubblica amministrazione.
In particolare, non potendo qui ricostruire in toto il complesso svolgimento delle indagini e la notevolissima mole di materiale investigativo posto a base della richiesta di rinvio a giudizio, le figure maggiormente caratterizzanti la vicenda di “Mafia Capitale” vanno individuate in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. Il primo, noto alle cronache storico-politiche a far data dagli anni Settanta quale soggetto pienamente inserito nell’area dell’eversione nera e attivo, altresì, nell’ambito della cd. banda della Magliana, organizzazione criminale (la cui mafiosità è stata definitivamente disconosciuta dalla Corte di cassazione nel 2001) operante a Roma dagli anni Settanta fino ai primi anni Novanta del secolo scorso; il secondo, titolare di una cooperativa, soggetto totalmente inserito all’interno del sistema di aggiudicazione degli appalti pubblici e delle commesse pubbliche nell’ambito della pubblica amministrazione.
La Procura di Roma riteneva accertata la costituzione di un’unica associazione di tipo mafioso, composta da una ventina di soggetti, tra cui Buzzi e Carminati, che si era avvalsa della forza di intimidazione propria del vincolo associativo e della conseguente condizione di assoggettamento e di omertà al fine di commettere delitti di estorsione, di usura, di riciclaggio, di corruzione di pubblici ufficiali e al fine di acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione e il controllo di attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici.
Nello specifico, sulla base della complessità e dell’articolazione del materiale investigativo acquisito, gli inquirenti enucleavano – all’esito delle indagini – tre distinti settori di operatività della consorteria criminale:
– il primo, riguardante l’attività criminale stricto sensu intesa, relativo agli episodi di estorsione ed usura, sviluppatosi a partire da un distributore di carburante sito in Corso Francia, vera e propria base operativa del gruppo capeggiato da Carminati;
– il secondo, inerente le attività di carattere imprenditoriale, relativo ai rapporti con imprenditori privati la cui attività era indispensabile per eseguire le opere o prestare i servizi derivanti dagli appalti pubblici;
– il terzo, relativo ai rapporti del gruppo criminale con la Pubblica Amministrazione finalizzato ad orientare illecitamente appalti e commesse pubbliche.
Secondo gli inquirenti, su tali settori – pur se distinti ed apparentemente lontani – confluivano gli interessi di tutti gli imputati, i quali agivano d’intesa tra loro, secondo una medesima logica di azione, muovendo da attività criminali di tipo comune (sostanzialmente episodi di usura e connesse estorsioni per il recupero dei crediti), passando attraverso strumentali relazioni economiche con il mondo imprenditoriale e raggiungendo infine – per aggredirlo – il tessuto politico-istituzionale allo scopo d’indirizzare l’attribuzione degli appalti pubblici.
Va rilevato che l’impostazione proposta dalla procura capitolina – e fatta propria dal GIP nell’ordinanza cautelare genetica e dal Tribunale del Riesame – aveva trovato piena adesione da parte della Suprema Corte, pronunciatasi in fase cautelare sul ricorso degli allora indagati avverso i provvedimenti de libertate. In particolare, sotto il profilo strutturale dell’associazione, la pronuncia di legittimità aveva evidenziato il progressivo consolidamento degli elementi strutturali di una complessa organizzazione capeggiata da Carminati, soggetto dal passato criminale rilevante ed assai noto. Questo gruppo operava, in una prima fase della sua formazione, attraverso articolazioni diramate nel settore delle attività criminali di tipo “tradizionale” (dunque, in materia di usura, estorsione, recupero crediti con metodi violenti, ecc.), e in parte in quello tipicamente imprenditoriale. Articolazioni settoriali, quelle ora indicate, che i giudici della cautela avevano ritenuto non rigidamente suddivise, ma connotate da numerose interconnessioni fra le diverse aree di intervento e i vari sodali che ne hanno preso parte, e sostanzialmente unificate dalla preminente figura del Carminati, persona dal rilevante ed assai noto passato criminale in ragione dell’appartenenza ai N.A.R., della contiguità con la cd. “banda della Magliana” e dei numerosi precedenti penali. Carminati, avvalendosi dei suoi più stretti collaboratori, esercitava un controllo totale sulle multiformi attività di tale prima associazione, rapportandosi di volta in volta, quale riconosciuto punto di riferimento degli altri suoi membri, anche con esponenti dell’amministrazione capitolina, con funzionari delle forze dell’Ordine, con i capi di altre organizzazioni criminali insediatesi nella Capitale, oltre che con criminali comuni. Con riferimento al settore della pubblica amministrazione, inoltre, il Gip (prima) e il Tribunale del Riesame (successivamente) avevano sottolineato come l’organizzazione criminale faceva leva, soprattutto al fine di ottenere nomine di pubblici amministratori compiacenti o corruttibili, sul contributo di conoscenze ed entrature politico-istituzionali acquisite in anni di militanza politica da soggetti i quali avevano assunto un “ruolo di cerniera” tra il settore imprenditoriale operante nell’area pubblica e quello politico.
In relazione al settore della pubblica amministrazione, nella fase cautelare era stato individuato il verificarsi del cd. “salto di qualità” nelle attività dell’associazione in esame avvenuto, per un verso, grazie ai rapporti di amicizia e comune militanza politica intrattenuti dal Carminati con persone che avevano assunto importanti responsabilità amministrative e di direzione in svariati enti pubblici e società da questi partecipate a seguito del mutamento di vertice nell’amministrazione capitolina, e, per altro verso, grazie all’accordo intervenuto con Salvatore Buzzi e la struttura imprenditoriale da lui organizzata e gestita. Quest’ultimo, infatti, controllava una vasta rete di cooperative dal rilevante peso economico, nate circa ventotto anni prima con lo scopo di far lavorare, anche attraverso la stipula di convenzioni con il Comune di Roma, persone già detenute che non potevano godere di tutti i diritti civili, e successivamente ampliatesi in altre direzioni, come, ad es., le pulizie industriali, la raccolta e smaltimento dei rifiuti, la manutenzione delle aree verdi, l’accoglienza di profughi e immigrati in Italia. In tal modo l’associazione si era progressivamente ampliata, sia con riferimento al numero dei partecipanti che ai campi di intervento, espandendo le sue attività nel versante economico-imprenditoriale (attraverso un’attività di acquisizione e gestione di imprese operanti sul territorio della Capitale, coinvolte grazie all’adesione di imprenditori collusi) ed in quello della pubblica amministrazione, ove erano state direttamente coinvolte ed utilizzate le stesse imprese aventi ad oggetto le attività esercitate dai predetti imprenditori. In tal modo, la consorteria mafiosa così strutturata giungeva ad ottenere un sostanziale controllo sull’intera attività del Comune di Roma e delle sue partecipate nella gestione di quei servizi ove le cooperative stesse esercitavano la loro attività. Quanto poi alla forza intimidatrice del sodalizio criminale, la Cassazione prospettava, in capo al gruppo criminale originario capeggiato dal Carminati, un’eredità criminale complessa e sedimentatasi a strati, lentamente, entro un lungo arco temporale, il cui lascito, sempre vivo ed attuale, si era perpetuato nella nuova realtà associativa scaturita dalla fusione con il gruppo del Buzzi, costituendo l’indispensabile riserva di violenza percepibile all’esterno, e, per certi versi, un valore aggiunto cui ricorrere, se necessario, per perseguire ed attuare gli scopi del sodalizio.
Il “salto di qualità” dell’associazione nel settore economico e della pubblica amministrazione era avvenuto grazie all’accordo tra Buzzi e Carminati ed era stato reso possibile solo in ragione della notorietà criminale di cui godevano il Carminati ed il gruppo da lui comandato. In tal modo, l’associazione aveva potuto ampliare lo spettro delle proprie attività e sfruttare il conferimento della “fama” derivante dall’acquisto della capacità d’intimidazione già sperimentata nei tradizionali settori delle estorsioni e dell’usura: capacità, secondo la Cassazione, progressivamente accumulata nel serbatoio criminale di origine e poi trasfusa, con metodi più raffinati, nei nuovi campi di elezione del cd. “mondo di sopra”, ove si era avvalsa del richiamo alla consolidata “fama criminale” acquisita nel tempo, senza tuttavia abbandonare le possibilità di un concreto ricorso ad atti di violenza e intimidazione, quali forme di manifestazione da utilizzare all’occorrenza.
Secondo i giudici del Tribunale di Roma, viceversa, non è ravvisabile il carattere della mafiosità nel gruppo criminale costituito e meticolosamente scandagliato nel corso dell’istruttoria dibattimentale. Anzi, sarebbe più corretto parlare di “gruppi criminali”: i giudici di prime cure ritengono, infatti, accertata l’esistenza non di un unicum criminale (così come proposto nella lettura accusatoria), bensì di due distinte associazioni a delinquere semplici, l’una facente capo a Carminati, l’altra riferibile al Buzzi.
In primo luogo, a livello dogmatico, viene precisato che l’associazione di tipo mafioso (sia quella riconducibile alle mafie tradizionali, sia quella con caratteri di autonomia rispetto alle stesse) postula, al pari dell’associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p., l’esistenza di una pluralità di soggetti attivi (trattandosi di fattispecie a plurisoggettività necessaria), consapevoli di prestare un contributo utile alla vita del sodalizio ed alla realizzazione dei suoi scopi (dolo specifico) ed una organizzazione più o meno articolata. L’elemento differenziale dalla comune associazione per delinquere si coglie, tuttavia, nell’essere il programma criminale volto alla realizzazione, con metodo mafioso, di uno o più dei seguenti obiettivi: commissione di delitti; acquisizione in modo diretto o indiretto della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici; realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri; impedimento od ostacolo del libero esercizio del voto o procacciamento di voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
Dunque, l’associazione di tipo mafioso si distingue dalla comune associazione per delinquere anche per il fatto che essa non è necessariamente diretta alla commissione di delitti – pur potendo questi, ovviamente, rappresentare lo strumento mediante il quale gli associati puntano a conseguire i loro scopi – ma può essere finalizzata a realizzare taluno degli altri obiettivi indicati dall’art. 416-bis c.p., fra i quali anche quello, assai generico, costituito dalla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
Il Tribunale, a questo punto, opera una distinzione tra le mafie storiche e le mafie a queste non riconducibili (cd. nuove mafie): nelle prime, la carica intimidatoria autonoma costituisce elemento formatosi in conseguenza della pregressa pratica criminale già attuata in un determinato ambito territoriale, nel quale è stato esteriorizzato il metodo mafioso attraverso forme di condotta positive. Nelle seconde, viceversa, occorre accertare se si siano verificati atti di violenza e/o di minaccia e se tali atti – aldilà della finalizzazione alla commissione di specifici reati, realizzati in forma associata da una comune associazione per delinquere – abbiano sviluppato intorno al gruppo un alone permanente di diffuso timore, tale da determinare assoggettamento ed omertà e tale da consentire alla associazione di raggiungere i suoi obiettivi proprio in conseguenza della “fama di violenza” ormai raggiunta.
È questo il punto focale dell’intero ragionamento del Tribunale romano: la riserva di violenza consiste, infatti, nella possibilità che l’associazione – forte dei metodi violenti già praticati – sfrutti la fama criminale già conseguita senza compiere ulteriori fatti criminosi e riservandone l’uso ai casi in cui ciò si riveli indispensabile. Tuttavia, tale situazione può realizzarsi solo in quelle associazioni criminali che siano derivate da altre associazioni, già individuabili come mafiose per il metodo praticato, e non può invece configurarsi nei casi delle mafie di nuova formazione, attesa la formulazione concreta dell’art. 416-bis c.p., norma di riferimento per la valutazione della sussistenza di un sodalizio mafioso. La fattispecie de qua richiede, infatti, l’attualità e la concreta operatività del metodo mafioso. Il Tribunale ritiene dirimente in tal senso l’uso, nella formulazione normativa, dell’indicativo presente “coloro che ne fanno parte…si avvalgono (e non: possono avvalersi o si avvarranno) della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva”.
Dare spazio, nell’interpretazione della norma – nel caso delle mafie non derivate – al tema della riserva di violenza, intesa come violenza solo potenziale, consapevolmente prefigurata dagli associati, ma rivolta al futuro, condurrebbe – nel ragionamento dei giudici – ad un’interpretazione estensiva non ammissibile oltre i limiti già ampi indicati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alle sole mafie derivate, pena la violazione della legalità formale in materia penale.
Se, da un lato, l’istruttoria dibattimentale ha ampiamente confermato la prospettazione accusatoria circa l’aggregazione criminale di più soggetti per la commissione di un numero indeterminato di reati in due distinti settori (quello dell’usura e del recupero crediti mediante attività estorsive e quello relativo al conseguimento di appalti pubblici mediante corruzioni e turbative d’asta), le organizzate attività di usura ed estorsione, aventi come base operativa il distributore di benzina di Corso Francia, sono e rimangono vicenda separata dalle attività criminali interessanti il settore della pubblica amministrazione.
In primo luogo, non sussistono collegamenti di alcun genere tra i soggetti appartenenti ai due diversi sodalizi criminali. Se si eccettuano le figure di Carminati e del suo sodale Brugia, le due associazioni non possiedono “punti di contatto”, nel senso che i soggetti partecipanti sono e rimangono, per tutta la durata della manifestazione del sodalizio, diversi fra di loro.
Il Tribunale ha, dunque, ritenuto che i due mondi – quello del recupero crediti e quello degli appalti pubblici – siano nati separatamente e separati siano rimasti, quanto a condotte poste in essere e consapevolezza soggettiva dell’agire comune. La stessa diversità delle cautele adottate dagli imputati (a basso livello, attraverso le utenze di normale utilizzo, per i fatti di criminalità comune; a livello intermedio per i collegamenti con il mondo imprenditoriale; a livello di massima cautela, attraverso l’utilizzo di utenze dedicate, per i rapporti politico-istituzionali) conferma la separazione e la diversità strutturale ed organizzativa tra i due gruppi. Le figure di Carminati e di Brugia hanno sì costituito l’elemento di contatto tra le due realtà senza, tuttavia, che la loro presenza sia stata sufficiente a determinarne la fusione ed a generare un unicum operativo nel quale ciascuno fosse consapevole e partecipe del complesso delle attività compiute e programmate dagli altri. Ciò rileva sia in relazione all’elemento oggettivo del reato associativo (la costituzione di un gruppo destinato alla commissione di un numero indeterminato di un certo tipo di delitti) sia, soprattutto, con riferimento al profilo soggettivo, che è integrato dal dolo specifico quale volontà di associarsi con lo scopo di contribuire alla realizzazione del programma della associazione; programma che deve, evidentemente, essere conosciuto almeno nelle sue linee generali e di cui l’associato deve accettare il rischio. Elementi, questi ultimi, che difettano nella complessiva lettura offerta dal Tribunale di Roma.
La seconda questione cui era necessario fornire risposta consisteva nel carattere mafioso (di una o) di entrambe le associazioni per delinquere. Preliminarmente, i giudici evidenziano la non derivazione dei sodalizi criminali da altre realtà mafiose, tradizionalmente intese.
Non è infatti possibile stabilire una derivazione tra il gruppo operante presso il distributore di benzina, l’associazione operante nel settore degli appalti pubblici e la banda della Magliana, gruppo criminale ramificatosi fortemente nel tessuto urbanistico capitolino, i cui ultimi e concreti segnali di vita risalgono all’inizio degli anni Novanta. Non può affermarsi che Carminati ed il gruppo da lui comandato (inteso, secondo l’accusa, come associazione unica) affondino le loro radici nel sostrato criminale romano degli anni Ottanta, per avere mutuato dalla banda della Magliana alcune delle sue principali caratteristiche organizzative: sembra evidente la profonda diversità tra gli affari criminali dell’epoca e quelli accertati nel corso del processo, i quali attengono – in particolare quelli relativi agli appalti pubblici – ad una peculiare forma di rapporti tra mondo politico ed imprenditoria finalizzati, specialmente, ad assicurare ai partiti politici il finanziamento necessario alla loro sopravvivenza e a spartire tra le varie componenti politiche (e tra gli imprenditori a ciascuna riferibili) il provento dei lucrosi affari connessi alla gestione della cosa pubblica.
La mafiosità dell’associazione dedita al recupero crediti viene esclusa in ragione del fatto che gli atti d’intimidazione che integrarono la coazione della altrui volontà, determinando i singoli debitori a pagare o ad accettare rinegoziazioni dei debiti ancora più svantaggiose rispetto al prestito iniziale, provocarono certamente nelle vittime uno stato di grave preoccupazione e timore. Essi però, direttamente finalizzati a raggiungere il risultato per il quale erano impiegati, non furono tali da determinare, nella collettività, un perdurante stato di grave timore, così noto e diffuso da produrre, con l’esplicarsi della forza intimidatrice dell’associazione ed a prescindere dalle singole vicende, una generalizzata situazione di assoggettamento ed omertà nel contesto territoriale, né sull’intero territorio urbano né nel quartiere ove il gruppo operava. Nella fisonomia dell’associazione capeggiata da Carminati risulta assente, in buona sostanza, il requisito della forza d’intimidazione da cui deriverebbe la condizione di assoggettamento e di omertà.
In definitiva, i gruppi criminali – così come individuati – appaiono distinti per la diversità dei soggetti coinvolti nelle due categorie di azioni criminose, per la diversità stessa delle azioni criminose e per la eterogeneità delle condotte organizzative ed operative; sicché il Tribunale non condivide la lettura unitaria proposta dall’accusa circa l’esistenza di un unicum criminale che, cementando le sue diverse componenti (criminali di strada, imprenditori e soggetti esterni alla amministrazione, pubblici funzionari corrotti) giunge ad avvalersi di una carica intimidatoria condizionante, da un lato, la legalità dell’agire amministrativo e, dall’altro, la libertà di iniziativa dei soggetti imprenditoriali concorrenti nelle pubbliche gare al fine di controllare ed orientare in proprio esclusivo favore gli esiti delle relative procedure.
Le conclusioni cui giunge il Tribunale capitolino, particolarmente pregnanti, sono le seguenti:
– sono esistite due associazioni criminali, ciascuna priva di caratteri di mafiosità, autonoma o derivata;
– non è possibile tenere conto – ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 416-bis c.p. – di eventuali condotte qualificabili come “riserva di violenza”, condotte che possono riguardare soltanto le mafie “derivate”, le uniche in grado di beneficiare dell’intimidazione già praticata dalla struttura di derivazione;
– non è consentito attribuire mafiosità all’associazione volta al conseguimento illecito di appalti pubblici mediante intese corruttive (si fa riferimento all’associazione capeggiata dal Buzzi): ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 416-bis c.p. è infatti necessario l’impiego del metodo mafioso e, dunque, il reato non si configura quando il risultato illecito sia conseguito con il ricorso sistematico alla corruzione, anche se inserita nel contesto di cordate politico-affaristiche ed anche ove queste si rivelino particolarmente pericolose perché capaci di infiltrazioni stabili nella sfera politico-economica.
In definitiva, deve in ogni caso constatarsi un sostanziale e gravissimo inquinamento dei rapporti tra politica ed imprenditoria. Ciò giustifica, ad avviso del Tribunale, il sentire comune, che attribuisce a tale sistema di potere una complessiva “mafiosità”, alla quale dovrebbero essere ricondotti i fatti oggetto del processo. Tuttavia, tale valutazione attiene ad un concetto di “mafiosità” che non è quello recepito dal legislatore nell’attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. per la quale non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria ed imprescindibile l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione. Giungere a conclusioni diverse, militanti nel senso del riconoscimento di un’associazione di tipo mafioso, significherebbe fornire un’interpretazione talmente estensiva della norma tale da determinare, in violazione del principio di legalità, una vera e propria innovazione legislativa, che rimane riservata alla scelta discrezionale del legislatore.

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