LA SENTENZA CONTRADA TER E GLI EQUIVOCI NEL DIALOGO TRA LE CORTI
Cedu – Sezione IV – Sentenza 14 aprile 2015 – Ricorso n. 66655/13.
La decisione della Cedu (Sentenza 14 aprile 2015) sul caso Contrada è destinata certamente ad immettersi nell’alveo delle principali questioni speculative future in materia di diritto penale, scardinando alcune certezze in tema di principio di legalità e di distinzione tra famiglie di ordinamenti giuridici. L’articolo 7 della Convenzione recita: “1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al tempo in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”.
Violazione del principio di irretroattività – La Corte, dunque, limitandosi a valutare la sussistenza della violazione dei principi enucleati nell’articolo 7 della Convenzione EDU, ha statuito che – nel caso di cui trattasi – la fattispecie incriminatrice applicata non era, al momento della commissione dei fatti-reato da parte del Contrada, sufficientemente chiara e conoscibile e prevedibile dallo stesso per poterne rispondere penalmente in base al Principio di legalità. Conseguentemente, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto essersi verificata una violazione del principio di irretroattività della norma penale quale corollario del principio nulla poena sine lege. La Corte, infine, ha evidenziato che la questione della conoscibilità e prevedibilità (al momento della commissione di fatti) della fattispecie incriminatrice contestata al Contrada non è stata affrontata e valutata dalle Autorità Giudiziarie italiane nel corso del processo nazionale, benché il ricorrente Contrada ne avesse fatto specifico motivo di doglianza nelle diverse fasi di impugnazione.
Dove si ferma la sentenza – Occorre sottolineare che la Corte Edu non si è pronunciata sulla fondatezza o meno della configurabilità del reato di concorso esterno nel reato associativo mafioso quale fattispecie incriminatrice generale. La Corte ha unicamente stabilito – relativamente a questo caso specifico – che, all’epoca della commissione dei reati per cui il Contrada è stato condannato, l’elaborazione giurisprudenziale di tale figura criminosa non era sufficientemente consolidata e, quindi, dotata dei requisiti di “chiarezza e certezza” necessari al fine di consentirne la sufficiente “conoscibilità e prevedibilità” da parte dell’autore del reato.
La sentenza Cedu, pertanto, non entra affatto nel merito della questione giuridica della configurabilità o non del reato di concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, così come risolto nella giurisprudenza delle SS. UU della Corte di Cassazione sopramenzionata.
Applicazione dei principi suddetti al caso di specie
Il punto nodale – La questione che si poneva era quella di stabilire se, all’epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry.
Perciò, all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (Del Rio Prada [GC], sopra citata, §§ 79 e 111-118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, sopra citata e, mutatis mutandis, Alimuçaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154-162, 7 febbraio 2012).
La Corte ha ritenuto che questi elementi fossero sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione con conseguente obbligo dello Stato italiano a risarcire il danno.