La responsabilità penale degli organi di controllo. La sentenza Thyssenkrupp e Franzese a confronto

Di Elena Valguarnera -

Il tema controverso della responsabilità penale degli organi di controllo societario ha acquisito negli ultimi anni una sempre maggiore attenzione da parte dei cultori del diritto penale dell’impresa.

In tale sede, con l’obiettivo di analizzare e definire il concetto di responsabilità derivante dalla violazione di posizioni di garanzia, ci soffermeremo anzitutto ad approfondire alcuni istituti del diritto penale parte generale.

Nel dettaglio, nel nostro ordinamento è possibile distinguere diverse categorie delittuose, classificabili in base alle forme tipiche della condotta umana, quali appunto azione ed omissione.

Invero, il diritto penale è caratterizzato oltre che dal principio di legalità, anche dal principio di materialità, offensività e soggettività.

Per il primo, il fatto per essere rilevante ai fini del diritto penale, deve estrinsecarsi in una condotta che sia percepibile e rilevabile sul piano empirico.

Nello specifico, il principio di materialità viene in rilievo attraverso un’attenta analisi della Costituzione, che all’art .25 comma 2 sancisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che non sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Orbene, dalla locuzione “fatto commesso” emerge chiara l’intenzione del legislatore di dare rilievo penale esclusivamente a quei fatti che possano essere identificati sul piano naturalistico, escludendo, implicitamente, tutto ciò che attiene alla mera cogitatio[1].

Fatta tale breve introduzione sul principio di materialità, a questo punto è necessario soffermarsi sulle modalità attraverso cui la condotta viene posta in essere e si perviene alla lesione, o messa in pericolo, del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.

Nel dettaglio le due condotte attraverso le quali è possibile pervenire alla realizzazione del reato sono la condotta attiva e la condotta omissiva.

Per quanto concerne la prima, la dottrina non si è mai posta particolari problemi relativi all’individuazione di essa dal punto di vista empirico, in quanto comunque corrisponde ad un’azione, ad un movimento corporeo percepibile dai sensi e volto all’offesa dell’interesse protetto dalla norma[2].

Al contrario, diversi problemi sono sorti in relazione ad una precisa qualificazione
del reato omissivo, consistente nel mancato attivarsi in una situazione che, appunto, richiedeva un intervento[3].

In queste ipotesi, è chiaro che risulta più difficile pervenire ad un’effettiva individuazione della condotta, in quanto quest’ultima corrisponde ad un mancato intervento e pertanto risulta difficilmente individuabile dal punto di vista naturalistico, ponendo non pochi problemi anche con riguardo all’accertamento del nesso di causalità[4].

Mentre la dottrina più tradizionalista ha sempre messo in dubbio l’ammissibilità dei reati omissivi, la dottrina più moderna ha accolto positivamente la loro struttura ed anzi ha posto in essere una progressiva espansione di tali reati, soprattutto alla luce di un’esigenza di rafforzamento di determinati beni giuridici, che possono essere lesi sia da una condotta attiva, sia attraverso il mancato compimento dell’azione che il soggetto ha il dovere giuridico di compiere.

Il concetto di omissione, quindi, a cui oggi si aderisce è di un’omissione normativa, ma va detto che altri autori hanno sviluppato tesi differenti in tal senso.

In particolare, nonostante si riconosca che essa corrisponda ad un “nulla” dal punto di vista materiale, è comunque dotata di una sua realtà quanto meno sociale. Infatti, dal punto di vista sociale, l’omissione può essere considerata come un fenomeno concreto, qualificata come fatto attribuibile ad un certo individuo[5].

Ad ogni modo, la problematica dell’omissione è da riscontrare nella sua misura ontologia, in quanto la sua evanescenza ed impalpabilità implica una sua inesistenza dal punto di vista naturalistico. Ecco perché solo attraverso l’ausilio di una norma è possibile colorare e dare significato ad un qualcosa che non c’è e a cui si dà rilevanza in quanto “ci doveva essere”.

L’omissione viene, pertanto, considerata come un comportamento contrastante nel mancato compimento di un’azione oppure mancato conseguimento di un risultato che invece doveva essere compiuto in quanto sussisteva una norma che imponeva quel comportamento[6].

L’analisi della teoria normativa dell’omissione potrebbe portare a confondere tra la condotta omissiva e l’antigiuridicità della stessa. Questa confusione è solo apparente, in quanto l’omissione si riferisce all’elemento oggettivo della condotta, mentre secondo i sostenitori della teoria tripartita del reato, l’antigiuridicità è una categoria a sé stante e si riferisce alla contrarietà di quella condotta con l’intero ordinamento giuridico.

Infatti, la norma che dà vita alla condotta imposta non deve essere necessariamente giuridica, ma basta che si configuri una qualsiasi regola secondo la quale un certo mutamento della realtà deve essere prodotto da taluno, qualsiasi sia la natura della regola che viene in rilievo. Pertanto, si distingue tra regole sociali o individuali, consuetudini, routine.

Il reato omissivo può essere, in buona sostanza realizzato – a seconda della scelta legislativa – sia dal quisque de populo sia da un soggetto caratterizzato da una certa qualifica.

Sebbene si ritenga che il legislatore non sia stato in grado di tipizzare tutti i possibili casi in cui si abbia una equivalenza tra il causare un evento e il non impedirlo, egli ha tuttavia previsto nel codice penale la cosiddetta “clausola di equivalenza” di cui all’art. 40, c.p. che, attraverso la combinazione della disposizione di parte generale con le norme di parte speciale inerenti ad un reato di azione, determina la disciplina del reato omissivo improprio.

Nell’analisi degli elementi della fattispecie omissiva impropria, da tenere in considerazione sono, da un lato, l’evento non impedito e, dall’altro, la condotta omissiva, che ex sé si sostanzia sia nel mancato compimento di un’azione volta all’impedimento di tale evento sia nella situazione di obbligo che impone il compimento di quella determinata azione (posizione di garanzia) e il nesso causale tra condotta ed evento.

Orbene, dal momento che l’art. 40 c.p. non descrive il comportamento che è stato omesso in violazione della legge, l’individuazione dell’azione omissiva da non è facile.

Dopo aver tracciato in linee generali la responsabilità omissiva, possiamo concentrarci sul fulcro dell’imputazione del reato omissivo improprio che, come anticipato pocanzi, ruota attorno all’art. 40 comma 2 c.p. il quale sancisce il cosiddetto principio di “equivalenza causale”, per cui il non impedire un fatto per combinato disposto di cui all’art. 40 e 110 c.p. il quale si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
Ne consegue quindi che ha rilevanza penale la condotta posta in essere dal soggetto agente che viola un comando o un divieto imposto dalla legge, sostanziandosi in un’azione od omissione.
Orbene, mentre l’azione si configura in ogni comportamento attivo ed operoso che si evidenzia in un movimento fisico, anche limitato ad una sola mossa, parola,
gesto o cenno (reato commissivo) , l’omissione è un comportamento passivo, inattivo che si sostanzia nella mancanza di azione o reazione (reato omissivo). Nel definire il principio di “equivalenza causale” diverse teorie sono state avanzate dalla dottrina. La più nota è la cosiddetta teoria della “conditio sine qua non” (o della equivalenza delle cause), secondo cui è causa dell’evento ogni singola condizione senza il quale l’evento non si sarebbe verificato.

Per la sussistenza del rapporto di causalità, così descritto, è (secondo la teoria adesso enunciata) sufficiente che l’agente abbia realizzato una condizione qualsiasi dell’evento.

Il principio di equivalenza causale attiene, quindi, chiaramente, al principio di causalità del reato. Con la conseguenza che per aversi reato omissivo improprio derivando dal combinato disposto tra la norma di parte speciale (con condotta commissiva) e l’art. 40 comma 2, è necessario che si tratti di reati causalmente orientati (per lo più reati a forma libera), in quanto non è richiesta una precisa e determinata condotta da parte del legislatore.

Al fine di pervenire all’applicazione della regola dell’equivalenza causale, occorre che secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico l’evento sia conseguenza certa o altamente probabile del mancato impedimento, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato con certezza (o quanto meno con elevata probabilità) se il soggetto avesse posto in essere la condotta impeditiva richiesta. D’altra parte, è chiaramente necessario che sussista un obbligo giuridico di impedire l’evento e quindi un obbligo di garanzia, ecco perché si tratta sempre di reati propri e mai di reati comuni.

La causalità omissiva appartiene alla scienza causale, per cui si può parlare di evento causalmente orientato nel momento in cui la scienza e l’esperienza umana hanno stabilito che da certe condotte conseguono determinati effetti.

È chiaro come, analizzata in tal senso, la causalità deve essere intesa come una categoria flessibile, in continuo divenire.

I problemi che principalmente hanno riguardato i rapporti tra omissione impropria e rapporto di causalità hanno avuto ad oggetto la portata esclusivamente normativa della causalità omissiva. Infatti, essa è priva di alcuna efficacia causale, poiché, è la legge che interviene ad equiparare il non impedire al cagionare, per cui al soggetto agente si imputa non il fatto di aver causato, bensì di non aver impedito l’evento.
Da questa ricostruzione, emerge chiaramente come la causalità omissiva sia una causalità doppiamente ipotetica, in quanto essa si fonda esclusivamente su due dati reali, il processo causale in atto e l’evento, mentre i due dati ipotetici sono da identificare nel venire meno dell’evento ipotizzando l’eliminazione della causa naturale e dell’azione impeditiva.
In particolare, la sentenza Thyssenkrupp si sofferma molto sull’analisi del rapporto tra il nesso di causalità ed il reato omissivo. Come è noto, il nostro ordinamento giuridico accoglie una concezione condizionalistica della causalità che si basa su un giudizio logico controfattuale, necessario per riscontrare l’effettivo rilievo condizionante del fattore considerato. Se dalla somma degli antecedenti si elimina con il pensiero la condotta umana ed emerge che l’evento si sarebbe verificato comunque, allora essa non è condizione necessaria; se invece, eliminata mentalmente l’azione, emerge che l’evento non si sarebbe verificato, allora occorre ritenere che fra l’azione e l’evento esiste nesso di condizionamento.
Nei reati omissivi impropri, rispetto ai quali ruota l’intera vicenda, il meccanismo controfattuale viene posto in opera immaginando la condotta mancata e verificando se la sua adozione avrebbe impedito la produzione dell’evento naturalistico.
Naturalmente, il procedimento di eliminazione mentale, per poter funzionare, presuppone che siano già note le regolarità scientifiche od esperienziali che governano gli accadimenti oggetto d’interesse. Nell’ambito dei reati commissivi mediante omissione tale indagine si rivela spesso particolarmente problematica, in quanto l’azione umana è una parte naturalisticamente reale, certa, della spiegazione dell’evento; è quindi chiaro quale parte degli accadimenti occorre sottrarre per porre in opera il giudizio controfattuale e la relativa operazione logica è solitamente priva di aspetti problematici.

Al contrario nei reati omissivi, dal punto di vista naturalistico, si è in presenza di un nulla, di un non facere; la condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l’evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo, ipotetico, fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto; pertanto, alla stregua di tale base ricostruttiva occorre determinare se l’azione doverosa avrebbe avuto concrete chances di salvare il bene protetto o di annullare il rischio.

Su queste basi, inizialmente parte della dottrina e della giurisprudenza ritenevano che per l’individuazione della causalità omissiva, non fosse possibile utilizzare lo stesso metodo probatorio utilizzato per quella attiva.

Questo perché, mentre nella causalità attiva si può applicare l’operazione di sottrazione mentale secondo la quale “se il soggetto non avesse posto in essere l’azione l’evento non si sarebbe verificato”, stessa cosa non sarebbe stata possibile rispetto alla causalità omissiva, in quanto ciò che si deve verificare è: se in presenza della condotta prevista dal legislatore l’evento non si sarebbe verificato.

I problemi sono stati superati grazie alla giurisprudenza a Sezioni Unite Franzese del 2002, con la quale è stato definitivamente superato il doppio binario di accertamento della causalità attiva e omissiva, propendendo per un unico schema di riferimento.

Infatti, se è pur vero che l’operazione da effettuare, nel caso di condotta commissiva, è una sottrazione mentale volta a verificare se l’evento si sarebbe o meno verificato secondo un alto grado di probabilità logica e razionale, allo stesso modo, per i reati omissivi, l’operazione da effettuarsi è di addizione mentale, e quindi verificare se in presenza della condotta prescritta dal legislatore l’evento si sarebbe o meno verificato.

Così descritto, nell’imputazione della responsabilità in parola è presente un preciso schema giuridico da seguire: in primo luogo la sussunzione del caso sotto leggi scientifiche e successivamente l’addizione o sottrazione mentale, a seconda che si tratti di reato omissivo o commissivo; infine occorre verificare se l’evento non si sarebbe verificato con certezza o con elevata probabilità.

La sentenza Franzese è stata pioniera di principi fondamentali nel sistema penale, pertanto essa necessita di essere analizzata nello specifico.

La pronuncia è da anni considerata come pietra miliare in tema di responsabilità professionale medica e soprattutto in generale della causalità omissiva.

Nonostante questo, non sono mancate le critiche ad alcuni dei principi sanciti nella sentenza.

La pronuncia è stata fondamentale in quanto ha finalmente chiarito alcuni equivoci che si celavano in varie sentenze aventi ad oggetto il rapporto di causalità tra condotta ed evento, contribuendo in modo decisivo anche all’attuazione dei principi costituzionali posti a tutela dell’individuo e soprattutto dell’imputato.

Il problema del rapporto di causalità ha sempre ruotato intorno al fatto che in realtà non esiste una finzione unitaria di causalità, ed il codice non contribuisce affatto alla risoluzione di tale quesito, ecco perché la giurisprudenza si è battuta per anni nel cercare l’individuazione di un unico approdo comune.

A differenza di quanto sostenuto prima della pronuncia Franzese, si arriva alla conclusione secondo cui non esiste un doppio statuto della causalità, in quanto questa è unitaria e necessita dello stesso percorso ontologico per la sua individuazione, ossia l’applicazione del giudizio controfattuale.

Il nesso eziologico potrà ritenersi sussistente solo laddove la condotta omissiva sia

stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale.

Oggetto di smentita è anche l’applicazione del criterio statistico, nel senso che per essere efficace e questo deve essere immerso nel caso concreto, per cui è necessario che il giudice valuti, sulla base del caso concreto e delle risultanze istruttorie, che effettivamente quella regola statistica trovi riscontro e possa essere applicata al caso di specie.

Questo passaggio della sentenza è fondamentale, in quanto si giunge alla conclusione secondo cui il rispetto dei principi costituzionali fondanti il sistema penale è garantito solo attraverso il salto dalla causalità generale a quella concreta. Senza dilungarsi sull’oggetto del caso giudiziario, è possibile ricostruire l’oggetto del ricorso partendo dal momento in cui la IV Sezione della Corte di Cassazione, investita del ricorso, rimette la questione alle Sezioni Unite in modo che esse possano risolvere il contrasto interpretativo in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico, e considerata la persistente rilevanza di tale questione nel caso concreto, in relazione agli effetti civili che la sentenza di condanna è in grado di produrre.

In particolare, i giudici delle Sezioni Unite, tratteggiate le linee generali della questione da risolvere, si soffermano anzitutto sul concetto di causalità, ed in particolare si interrogano su cosa abbia voluto intendere il legislatore riferendosi al concetto di omissione che deriva dall’art. 40 c.p.

Un esempio particolarmente significativo è la sentenza n. 25233 della Cassazione Penale, sezione IV, 25 maggio 2005; la Corte esclude la responsabilità del primario del reparto di ematologia dell’ospedale di San Salvatore di Pesaro, poiché ritiene che non sussiste un nesso causale tra la condotta del medico e l’evento verificatosi; infatti, afferma che: “ (…) nella ricostruzione del nesso eziologico, non può assolutamente prescindersi dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento: solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, è poi possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato “al di la di ogni ragionevole dubbio”.

Secondo una prima impostazione, la ricostruzione del nesso di causalità deve avvenire attraverso l’individuazione di serie ed apprezzabili probabilità di successo, mentre la tesi più recente individua la nozione di causalità attraverso la prova che il comportamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità “prossimo alla certezza”, e cioè in una percentuale di casi “quasi prossima a cento”.

In realtà, le Sezioni Unite seguono una strada totalmente differente, distaccandosi da quanto sancito dalla giurisprudenza precedente e procedendo per una via totalmente innovativa.
In particolare, le Sezioni Unite si rendono conto del fatto che non appare coerente ragionare in termini di “certezza assoluta”, ma parimenti non è possibile procedere sulla base di giudizi meramente probabilistici.

È coerente da un lato parlare di certezza, ma essa non può corrispondere ad una posizione eccessivamente rigida, in quanto tale interpretazione potrebbe creare degli inammissibili vuoti di tutela, avendo come risultato quello di rendere vana la funzione preventivo/repressiva della legge penale.

Dall’altra parte, le Sezioni Unite ritengono di non poter condividere nemmeno l’orientamento basato sul criterio dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio.

[1] MANTOVANI, Diritto penale, Milano, 2017

[2] ANTOLISEI, L’azione e l’evento nel diritto penale, Milano, 1928.

[3] FIANDACA, MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019.

[4] MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale, parte generale, Torino, 2015.

[5] MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003. Tra i sostenitori della teoria dell’aliud agere, si veda, tra gli altri, MASSARI, Il momento esecutivo del reato: contributo alla teoria dell’atto punibile, Pisa, 1923, e GRISPIGNI, Diritto penale italiano, Vol. II, Padova, 1945.

[6] GALIANI, Il problema della condotta nei reati omissivi, Napoli, 1980.

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