La corruzione privata: responsabilità individuali e responsabilità degli enti alla luce della Legge 3/2019 e delle evoluzioni delle teorie aziendalistiche

Di Giovanni Tartaglia Polcini -

La corruzione privata: responsabilità individuali e responsabilità degli enti  alla luce della Legge 3/2019 e delle evoluzioni delle teorie aziendalistiche

 Roma, 16 luglio 2019, ore 14.30 – Sala del Parlamentino del CNEL

 

Relazione

 La corruzione tra privati nelle Convenzioni Internazionali e nell’attività dei Fora multilaterali globali.

ABSTRACT

Tre pilastri di diritto internazionale e sovranazionale hanno orientato il legislatore italiano in occasione delle riforme operate dalla l. 190/2012 prima, dal d.lgs. 38/2017 medio tempore e dalla legge 3/2019, al fine di conformare lo statuto penale della corruzione privata alle necessità degli organi internazionali: la Convenzione sulla corruzione del Consiglio d’Europa, la Decisione Quadro 2003/568/GAI e la Convenzione di Merida. Da ultimo, un certo qual ruolo in subjecta materia può essere riconosciuto anche alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla manipolazione di competizioni sportive, fatta a Magglingen il 18 settembre 2014.

Non tutti i nodi, però sono risolti, come dimostra la questione relativa ai soggetti destinatari dei precetti in generale e con specifico riferimento ad alcune categorie ben definite (operatori non subordinati ai vertici nelle compagini aziendali, arbitri ed avvocati). 

 

 

Premessa di ordine sistematico

L’introduzione del delitto di corruzione tra privati nel nostro ordinamento costituisce il frutto tardivo di un multilateralismo ancora efficiente[1], veicolo di superamento di ormai arcaiche posizioni dogmatiche, nel solco della strada spianata per un diritto penale realmente globalizzato[2].

Purtuttavia, in un bilancio ideale di comparazione tra elementi favorevoli ed elementi negativi, attribuibili sul piano valoriale al predetto istituto giuridico di diritto penale sostanziale, non è agevole pervenire ad una soluzione netta nell’uno come nell’altro senso.

A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, accanto alla “tradizionale” corruzione pubblica ha iniziato difatti ad imporsi all’attenzione delle istituzioni sovranazionali ed internazionali e, di conseguenza, anche del legislatore italiano,  il tema della corruzione tra privati,  i contorni della corruzione nell’attività d’impresa, fenomeno tuttavia già da tempo noto ad altri ordinamenti europei ed ai maggiori studiosi del diritto penale dell’economia, consapevoli dei profili di pericolosità di questa tipologia di accordo illecito tra soggetti privati e della complessità nel delineare, in una prospettiva puramente penalistica.

A differenza della corruzione pubblica, posta a tutela, ancorché non esclusiva, del ben definito interesse al buon andamento dell’apparato amministrativo, la corruzione privata, proprio per il suo manifestarsi all’interno di un humus criminogeno quale quello delle relazioni economiche, presenta infatti una natura più subdola e sfumata, ma non per questo priva di contenuti offensivi verso una vasta gamma di interessi minacciati dal mercimonio della posizione di potere.

Il labile confine tra strategie commerciali scorrette o amorali ma lecite e nei contesti imprenditoriali (si pensi ai patti parasociali, espressamente riconosciuti dall’articolo 2341bis C.c.) e condotte penalmente rilevanti, nonché la tendenza degli enti commerciali a prediligere rimedi “interni” per i casi di corruzione aziendale rendono tuttavia problematica l’emersione di fatti di corruzione privata invero ampiamente diffusi nel mondo degli affari.

Epperò, la fattispecie astratta in esame, cioè quella della figura delittuosa ex art. 2635 del codice civile[3] (e 2635 bis c.c.[4]), prospetta una serie di elementi di specificità che acuiscono i profili già di per sé patologici e ricorrenti afferenti gli effetti cd. verticali della diplomazia giuridica[5] (vedi ad esempio quanto avvenuto per l’affermarsi nella prassi della responsabilità degli Enti derivante da reato ex d. l.vo 231/2001).

Se in linea generale, difatti, l’introduzione in sede penale di istituti giuridici di matrice internazionale trova di solito una certa resistenza nella prassi applicativa,

-vuoi per vischiosità culturale,

-vuoi per un non sempre reattivo aggiornamento professionale o

-per la fisiologica necessità di digerire le riforme, che caratterizzano il nostro sistema

nel caso di specie la questione ha prospettato una serie di complessità notevoli che è utile evidenziare:

  1. la collocazione topografica delle fattispecie nel codice civile;
  2. il fatto incontestabile che una figura di corruzione tra privati supera per definizione una categorizzazione inveterata dei delitti in esame come riconducibili esclusivamente ai pubblici ufficiali o agli incaricati di pubblico servizio;
  3. la stratificazione della disciplina, che, nonostante la sua giovane età è già alla sua terza revisione migliorativa;
  4. il rapporto fortemente complicato che sussiste tra il delitto di corruzione tra privati di cui all’art 2635 c.c. e proprio la disciplina della responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001

Davvero interessante in proposito è la definizione dell’evoluzione normativa in esame regalataci da Seminara nel suo scritto Il gioco infinito: la riforma del reato di corruzione tra privati, in Diritto penale e processo, a. XXIII, 6-2017. 720 ss., peraltro calibrata sulla sola seconda macro-puntata dell’evoluzione normativa in subjecta materia.

A me è affidato il compito di inquadrare la fattispecie nell’ambito della diplomazia giuridica e quindi nelle Convenzioni internazionali e nell’attività dei Fora multilaterali.

Ci occuperemo, pertanto, in particolare, delle fattispecie previste ex art 2635 Codice Civile, introdotta dalla legge 190/2012 e successivamente modificata ed integrata e nell’articolo 2635-bis del Codice Civile, introdotta dal Decreto Legislativo n. 38/2017, successivamente modificata ed integrata, con specifico riferimento alle fonti di diritto internazionale ed europeo.

Il primo intervento normativo in materia è, nondimeno, più risalente, afferendo al d.lgs. 61/2002, il quale ha introdotto, all’articolo 2635 C.c., la prima fattispecie di “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, rubrica in seguito mutata in “corruzione tra privati” nel contesto della più ampia riforma della disciplina sulla corruzione introdotta dalla legge 190 del 2012 che aveva anche per prima incluso la corruzione tra privati nel novero dei reati presupposto della responsabilità della società,  colmando una lacuna che, in relazione alla precedente fattispecie aveva rappresentato l’ennesimo inadempimento dell’ordinamento nazionale rispetto ai vincoli sovranazionali.

L’ultimo intervento in materia è invece, come noto, quello di cui alla legge n.3/2019.

La Convenzione penale CoE sulla corruzione.

Adottata il 27 Gennaio del 1999, la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa costituisce il principale strumento di lotta alla corruzione elaborato fino ad oggi all’interno degli uffici di Strasburgo, e secondo alcuni la più decisa e cogente tra le convenzioni sovranazionali in questo settore[6].

L’atto è entrato in vigore dopo la quattordicesima ratifica il 1° luglio del 2002, qualche mese dopo l’introduzione del delitto di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità ad opera del d. lgs. 61/2002, in attuazione delle indicazioni emerse dai lavori della c.d. Commissione Mirone.

La Convenzione è stata ratificata dall’Italia solo nel 2012 con la legge n. 110 del 28 giugno del medesimo anno, cui è seguito il testo del disegno di legge S.2156B28, il cui articolo 20 ha introdotto un’ipotesi di corruzione tra privati mediante la modifica dell’art. 2635 C.c. prevedendo la stessa anche come reato presupposto per la responsabilità degli enti. Il testo del Senato confluì nel successivo disegno di legge C.4434B della Camera dei Deputati, il quale venne infine approvato con la legge 190/2012.

Rispetto alla corruzione privata in senso stretto, gli interessi alla cui tutela mira il documento convenzionale hanno ad oggetto beni giuridici di natura squisitamente economica e, in un certo senso, privatistica; tra di essi vanno individuati in particolare la leale concorrenza (fair competition) e lo sviluppo delle relazioni economiche e sociali (social and economic relations).

L’articolo 7 definisce la corruzione attiva nel settore privato come il fatto, commesso intenzionalmente, “nell’ambito di una società commerciale” di “promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a una qualsiasi persona che dirige un ente privato o che vi lavora, affinché compia o si astenga dal compiere un atto in violazione dei suoi doveri”.

L’articolo 8 identifica invece la corruzione passiva nel settore privato in modo pressoché speculare rispetto alla corruzione attiva, contemplando tuttavia, tra le modalità della condotta, anche la sollecitazione (request), confermando quindi come nella mente dei redattori della Convenzione la corruzione privata si configurasse come fattispecie a struttura unilaterale.

Una simile impostazione, come si vedrà infra, è stata poi accolta alla riforma del d.lgs. 38/2017, la quale, introducendo la sollecitazione e l’offerta tra le modalità della condotta tipica, sembra aver dato alla luce due delitti autonomi a configurazione monosoggettiva.

È di immediata comprensione come il nucleo dei soggetti passivi contemplati dalla Convenzione risulti enormemente esteso rispetto alle figure tipiche dell’art. 2635 C.c., il quale, come sarà meglio analizzato infra, dal 2012 contempla, oltre ai soggetti apicali, solo coloro che sono sottoposti alla direzione e vigilanza di questi ultimi.

La richiesta del vincolo di subordinazione sembra escludere quindi i professionisti chiamati di volta in volta a svolgere prestazioni intellettuali per la società, ivi compresi l’avvocato (lawyer), i “consultant” e i “commercial agent” di cui sopra.

Non meno ampia è la nozione di enti privati (entities), nella quale rientrano espressamente tanto le società commerciali a partecipazione privata, totale o maggioritaria, quanto tutte quelle altre entità operanti nel settore privato purché esercenti un’attività economica, con la conseguente estensione della nozione anche alle società semplici, pacificamente escluse dallo spettro applicativo dei reati del diritto penale societario sia dalla riforma del 2002 sia da quella del 2012.

Per quanto concerne la responsabilità delle persone giuridiche, la norma di riferimento della Convenzione è l’articolo 18, che prevede espressamente l’impegno degli Stati membri ad estendere la punibilità anche alle società che abbiano tratto vantaggio dalla condotta illecita di soggetti, sia corrotti che corruttori, titolari della facoltà di assumere decisioni per conto delle stesse e del potere di controllo.

Un parziale progressivo e potremmo dire ormai inesorabile e pressochè (quasi) completo adeguamento della disciplina in tema di responsabilità degli enti ai richiami di Strasburgo va riconosciuto con l’introduzione, ad opera della l. 190/2012, della lettera s-bis all’articolo 25ter del d.lgs. 231/2001, modificata successivamente dal d.lgs. 38/2017 ed ancor più di recente ex l.3/2019; essa tuttavia, come meglio sarà trattato infra, limita la responsabilità al solo ente di appartenenza del corruttore.

I rapporti del GRECO[7]

Il GRECO, acronimo di Groupe d’Etats contre la Corruption, è l’organismo istituito dal 1999 all’interno del Consiglio d’Europa allo scopo di monitorare il livello di conformità delle legislazioni nazionali alle indicazioni convenzionali in tema di anticorruzione.

Il controllo si fonda su una prima fase in cui gli Stati sono sottoposti ad un Ciclo di Valutazione (Evalutation round), che si conclude con la formulazione di un rapporto relativo ai singoli Paesi e con le conseguenti raccomandazioni finalizzate a guidarli; ad esso segue un’ulteriore verifica delle misure adottate dagli Stati in conformità con tali raccomandazioni.

L’Italia ha aderito al GRECO nel 2007, dopo la conclusione del primo e del secondo ciclo di valutazione. Proprio in tale anno prese il via Third Evalution Round, concernente l’attuazione nel nostro ordinamento della Convenzione sulla Corruzione del Consiglio d’Europa.

Lo sguardo critico cui è stata sottoposta all’epoca l’inerzia del legislatore italiano nell’implementare la disciplina dell’articolo 2635 C.c., sulla base degli impegni presi al momento della ratifica della Convenzione da parte del nostro Paese, si è manifestato in diversi rapporti.

La prima di queste relazioni venne approvata a seguito della 54° adunanza plenaria svoltasi tra il 20 e il 23 marzo 2012.

Dal paragrafo 110 del rapporto emergono ben sei censure rivolte all’Italia rispetto al difetto di conformità del delitto di “infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, come rubricato dall’art. 2635 C.c. prima della riforma del 2012, con gli articoli 7 ed 8 della Convenzione Penale sulla Corruzione del Consiglio d’Europa.

Le lacune individuate dal GRECO avevano ad oggetto

-l’insufficiente estensione dei soggetti attivi

-l’omessa previsione che il beneficiario della tangente potesse essere un terzo

-la mancata punibilità delle condotte di offerta e sollecitazione

-il fatto che il reato non fosse realizzabile per mezzo di intermediari

-il requisito del nocumento alla società e la procedibilità a querela della persona offesa.

Fu anche sulla scorta di tali censure che il legislatore, circa sei mesi dopo il primo rapporto, procedette alla riscrittura dell’art. 2635 C.c. con la legge 190/2012, la quale non a caso avrebbe dovuto conformare lo statuto della corruzione privata alla Convenzione del 1999.

Furono, tuttavia sufficienti meno di due anni perché il GRECO, con un secondo rapporto, presentasse le sue perplessità sulla riforma, ritenendo che questa avesse recepito solo parzialmente le raccomandazioni della precedente relazione.

Il rapporto del 2014, pur riconoscendo difatti i passi avanti in merito all’intervento sanzionatorio ed ai soggetti punibili, tra i quali vennero fatti rientrare dal secondo comma dell’art. 2635 C.c. post riforma anche i soggetti sottoposti alla direzione e alla vigilanza delle figure apicali, rinnovava le critiche all’assenza dell’offerta e della sollecitazione tra le modalità della condotta criminosa e alla necessità del nocumento alla società, il cui persistere violava lo spirito della Convenzione stessa, la cui finalità, rispetto alla corruzione privata, è quella di tutelare la libera concorrenza tra imprese e non interessi meramente patrimoniali.

Finalità che al legislatore italiano ha continuato ad apparire secondaria, testimoniato anche dal mantenimento della querela della persona offesa quale condizione di procedibilità.

Il Ciclo di valutazione in merito al recepimento nell’ordinamento italiano degli articoli 7 e 8 della Convenzione ha visto un ulteriore rapporto pubblicato il 2 dicembre 2016.

Al paragrafo 24 di tale relazione veniva salutata con favore la delega al Governo, operata dalla legge di delegazione europea n. 170 del 12 agosto 2016, per il recepimento della Decisione Quadro 2003/568/GAI e per la modifica del delitto di corruzione tra privati.

Il GRECO accoglieva in modo particolarmente positivo l’introduzione della sollecitazione e dell’offerta tra le modalità della condotta tipica, la mutazione della fattispecie da reato ad evento a reato di mera condotta e l’eliminazione della condizione di procedibilità a querela.

Proprio quest’ultima è tuttavia stata inizialmente mantenuta nella previsione del d.lgs. 38/2017, fino alla legge n.3/2019.

Lo scorso 18 giugno 2018 il GRECO (‘Group of States against Corruption’) – organismo istituito dal Consiglio d’Europa nel 1999 – ha approvato, nella sua ottantesima assemblea plenaria, l’‘Addenda al Second Compliance Report’ sull’Italia.

Ne parlerò più avanti in uno dei due quadri di approfondimento.

La Convenzione ONU del 2003.

Nell’ambito delle Nazioni Unite, il processo di contrasto alla corruzione trova il suo punto d’arrivo nella Convenzione contro la Corruzione di Merida del dicembre 2003, ratificata nel nostro Paese con la l. 116/2009, la quale tuttavia non contiene alcun accenno alla corruzione tra privati. Il documento presenta un modello di tutela sostanzialmente analogo a quello contemplato dalla Convenzione del Consiglio d’Europa.

Gli articoli rilevanti in subjecta materia sono il 12 e il 21, contenuti rispettivamente nei Titoli II e III.

L’articolo 12 prevede l’impegno degli Stati contraenti ad adottare misure penali amministrative e civili volte a migliorare gli standard di prevenzione della corruzione nel settore privato; tra di esse i commi 2 e 3 includono quelle volte ad incentivare pratiche virtuose all’interno degli enti privati mediante

– l’adozione di codici etici (codes of conduct) per un corretto e trasparente esercizio dell’attività commerciale,

-la previsione di sanzioni interdittive nei confronti di soggetti che in precedenza hanno rivestito la qualifica di pubblici ufficiali ed infine

-un maggior controllo sulla tenuta dei libri contabili e sulla trasparenza delle iniziative finanziarie delle società.

Merita di essere accennato anche l’ultimo comma dell’articolo in esame, che sollecita gli Stati contraenti ad escludere, a fini fiscali, la deducibilità dal reddito dei costi sostenuti per commettere il delitto.

L’articolo 21 contiene invece la fattispecie incriminatrice della corruzione privata attiva e passiva.

Ad una prima lettura dell’articolo emergono immediatamente le analogie con gli articoli 7 ed 8 della Convenzione del Consiglio d’Europa. Queste riguardano infatti i soggetti attivi, tra cui sono ricompresi coloro che dirigono o lavorano, in qualsiasi funzione e a qualsiasi titolo, per un qualunque ente privato, le modalità della condotta, nella quale rientrano anche la sollecitazione e l’offerta, l’ambito in cui la condotta è posta in essere, ossia l’esercizio di un’attività economica ed infine il corrispettivo della dazione, promessa od offerta, rappresentato dalla violazione dei doveri (breach of duties).

Data la simmetria delle disposizioni delle due Convenzioni, rinvio a quanto già detto in precedenza per il confronto tra l’articolo 21 e gli artt. 2635 e 2635bis C.c.

La Decisione Quadro 2003/568/GAI

Se le due Convenzioni esaminate nelle sezioni precedenti hanno orientato il legislatore nazionale in maniera “indiretta”, fornendo una cornice politico-criminale di riferimento verosimilmente ampia, le sollecitazioni di matrice comunitaria sono andate invece delineando una disciplina sempre più puntuale e stringente rispetto alla tipizzazione della corruzione tra privati, recepita non senza difficoltà dal nostro ordinamento.

Le preoccupazioni europee rispetto a pratiche corruttive estranee al settore pubblico ma potenzialmente pregiudizievoli per il corretto funzionamento del mercato unico e per la libertà economica dei suoi protagonisti hanno infatti plasmato la strategia politico-criminale in seno al cosiddetto “terzo pilastro” dell’Unione Europea, altresì denominato Giustizia e Affari Interni (GAI), istituito con il Trattato di Maastricht del 1992, e successivamente riformato dal Trattato di Amsterdam del 1999.

Ed è stata proprio la necessità di garantire una tutela penale uniforme in tutti gli Stati membri nei confronti della libera concorrenza ad aver portato all’emanazione della già citata Azione Comune 98/742/GAI, seguita ed abrogata dalla Decisione Quadro 2003/568/GAI.

L’Azione Comune del 1998 avrebbe dovuto trovare attuazione in Italia tramite la riforma del d.lgs. 61/2002, la quale tuttavia ha dato alla luce una fattispecie ad evento e del tutto orientata alla tutela del patrimonio sociale rubricata “Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”, non considerando neppure in astratto un pericolo per la libera concorrenza come invece auspicato dalle sollecitazioni comunitarie.

Il modello di tutela “concorrenziale” è stato mantenuto invece dalla Decisione Quadro del 2003. Lo stesso Considerando n. 962 del documento in esame, sulla scia della Convenzione del Consiglio d’Europa individua nella “concorrenza riguardo all’acquisizione di beni o servizi commerciali” e nel “corretto sviluppo economico” i due principali interessi a dimensione collettiva e macro-economica contemplati dai redattori, contornati, secondo non pochi autori, da indubbie venature moraleggianti.

La preoccupazione prioritaria del legislatore europeo di tutelare la libera concorrenza è ravvisabile anche nella riserva operata a favore degli Stati dal comma 3 dell’articolo 2 della Decisione, per la quale “uno Stato membro può dichiarare di volere limitare l’ambito di applicazione del paragrafo 1 alle condotte che comportano, o potrebbero comportare, distorsioni di concorrenza riguardo all’acquisizione di beni o servizi commerciali”. Il comma in esame sembra quindi limitare l’intervento penale a quegli accordi corruttivi che risultano in concreto idonei a determinare una lesione della concorrenza; la scelta del legislatore europeo è senz’altro condivisibile e conforme al principio di offensività, il quale impone di escludere la rilevanza penale di quei patti che, ancorché caratterizzati da immoralità, non risultano neppure ex ante in grado di distorcere il regolare andamento del mercato. Da questo punto di vista la Decisione Quadro sembra aver attribuito alla corruzione tra privati un grado di offensività meno rarefatto rispetto a quello individuato dai redattori della Convenzione sulla corruzione del Consiglio d’Europa.

La legge 190/2012 aveva effettivamente introdotto la controversa nozione di “distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi” quale evento che, se avveratosi, ammetteva la procedibilità d’ufficio del reato, il quale in linea generale rimane invece perseguibile a querela della persona offesa.

Le fattispecie di corruzione privata attiva e passiva vengono invece contemplate dal primo comma dell’articolo 2 della Decisione, rispettivamente alla lettera A e B.

 In relazione all’ambito in cui può manifestarsi il reato, il concetto di “attività professionali” svolte per conto di un “entità del settore privato” estende la punibilità anche al pactum sceleris stipulato in seno ad organismi collettivi privi di scopo di lucro e non esercitanti un’attività economica quali fondazioni ed onlus, contemplando quindi una gamma di enti più ampia rispetto a quella della Convenzione del Consiglio d’Europa, che esclude invece gli enti no-profit dalle “private entities”.

Sul versante dei soggetti del reato la Decisione Quadro contempla tra le parti attive tutti coloro che svolgono funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per l’ente. Come già osservato in merito alle Convenzioni del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite, anche la disposizione comunitaria estende la tutela penale alle condotte di coloro che, pur non soggetti al controllo o alla vigilanza da parte degli apicali, svolgano attività lavorative per l’ente di riferimento.

Seguendo l’impostazione comunitaria verrebbero inclusi nell’alveo dei responsabili anche i professionisti esterni, come gli agenti commerciali, i rappresentanti e anche gli avvocati, i quali invece sembrano dover essere estromessi dai soggetti sottoposti alla direzione e vigilanza dei vertici societari a cui fa riferimento il dato normativo del secondo comma dell’articolo 2635 C.c. post 2012.

Le modalità della condotta definite dalla Decisione Quadro sono affatto simili a quelle individuate dalla Convenzione, rientrando tra le medesime anche la sollecitazione dal lato attivo e l’offerta dal lato passivo, e che dopo il d.lgs. 38/2017 costituiscono elementi integranti la corruzione tra privati anche ai sensi della disposizione del Codice civile. La fattispecie delineata dal legislatore comunitario assume così i contorni di un reato a concorso eventuale e non necessario come sarebbe stato se la sollecitazione e l’offerta fossero invece state intese quali condotte tipiche del tentativo. La stessa Decisione Quadro, all’articolo 3, obbliga tuttavia gli Stati membri a sanzionare anche l’istigazione alle condotte di cui all’articolo 2, che nel nostro ordinamento costituisce un’autonoma ipotesi di reato al nuovo articolo 2635bis C.c., rubricato appunto “istigazione alla corruzione tra privati”.

Approfondimenti

L’ultimo rapporto del Greco evidenzia la necessità che l’Italia proceda il più rapidamente possibile alla ratifica del Protocollo addizionale alla Convenzione penale sulla corruzione che contiene, tra l’altro, agli artt. 2, 3 e 4, gli obblighi di incriminazione nei confronti delle condotte corruttive dei giurati (interni e stranieri) e degli arbitri (interni e stranieri). A questo riguardo, le autorità italiane hanno reso noto che il processo di ratifica è in corso.

A questo proposito si menziona l’art. 813, comma 2 del Codice di procedura civile, il quale espressamente afferma che: «agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio».

Per un’interpretazione estensiva delle norme del nostro codice penale volta a far includere nel concetto di pubblico ufficiale, ex art. 357 cod. pen., anche la figura dell’arbitro, si consenta il rinvio a M.C. Ubiali, Corruzione in atti giudiziari e arbitrato: per il Tribunale di Milano corrompere un arbitro non è reato, in Diritto penale Contemporaneo, 30 marzo 2018.

Ampio spazio viene quindi dedicato al tema della corruzione nel settore privato. Il rapporto del GRECO accoglie con favore le modifiche all’art. 2635 cod. civ. (Corruzione tra privati) introdotte dal d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38. In particolare viene elogiata l’estensione dell’ambito di applicazione della fattispecie non più esclusivamente alle società commerciali, ma anche a qualsiasi “ente privato”. Si sottolinea poi l’accrescimento del novero dei soggetti attivi del reato: non più solamente gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, ma anche coloro che, nell’ambito organizzativo della società o dell’ente privato esercitano funzioni direttive diverse dalle precedenti. Il GRECO giudica positivamente la scomparsa del riferimento alla causazione di un “nocumento alla società”, così come l’eliminazione della necessità dell’effettivo compimento o dell’omissione di un atto contrario agli obblighi dell’ufficio, che diventano, nella nuova formulazione, l’oggetto del dolo specifico. Si esprimono quindi parole di apprezzamento nei confronti della scelta di inasprire le pene, di prevedere ex art. 2635 bis cod. civ. un’ulteriore figura incriminatrice di ‘Istigazione alla corruzione tra privati’ e di estendere la responsabilità per queste condotte alle persone giuridiche.

Unica nota critica rimane il mantenimento, anche nell’ultima formulazione della norma, della condizione di procedibilità della querela, fatta eccezione per le ipotesi in cui dalla condotta corruttiva derivi una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi. L’Addenda sottolinea che la procedibilità a querela si pone in contrasto con quanto sancito dalla Convenzione, ma che l’Italia ha nondimeno legittimamente esercitato il suo diritto di riserva su questo punto.

Il 16 gennaio 2019 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la c.d. Legge Anticorruzione (L. 9 gennaio 2019, n. 3) la cui entrata in vigore è fissata per il 31 gennaio prossimo. Tra le molte novità significative, si segnala l’abrogazione (ad opera dell’art. 1 co. 5 L. 3/2019) del comma 5 dell’art. 2635 c.c., disciplinante il reato di Corruzione tra Privati, il quale prevedeva “Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi”.

Parallelamente, è stato abrogato il comma 3 dell’art. 2635 bis c.c. (“Istigazione alla corruzione tra privati”) che stabiliva “Si procede a querela della persona offesa”. La riforma introduce quindi il regime indiscriminato della procedibilità d’ufficio per tutte le ipotesi di corruzione e di istigazione alla corruzione tra privati, indipendentemente (per quanto riguarda il solo reato di cui all’art. 2635 c.c.) dall’accertamento della intervenuta “distorsione alla concorrenza”.

Corruzione tra privati e cd. match fixing

Il quadro complessivo delle Fonti internazionali in materia di corruzione tra privati, in grado di conformare od orientare il legislatore italiano si completa, a mio avviso, anche con la Convenzione del Consiglio d’Europa sul Match Fixing.

La legge 3 maggio 2019, n. 39 di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla manipolazione di competizioni sportive, fatta a Magglingen il 18 settembre 2014, ha difatti colmato una lacuna significativa nel nostro ordinamento, conducendo al potenziamento dello strumentario di tutela penale contro le pratiche di manipolazione.

Come è noto, il decreto–legge 22 agosto 2014, n. 119, convertito con modificazioni dalla legge 17 ottobre 2014, n. 146, nel recare un articolato “pacchetto” di misure volte a rafforzare gli strumenti di contrasto ai fenomeni di violenza ed illegalità connessi agli eventi sportivi, aveva, tra l’altro, elevato il livello delle sanzioni edittali previste dall’art. 1 della legge n. 401/1989 per i reati di frode in competizioni agonistiche (cd. match fixing)[8].

La fattispecie di manipolazione o frode, in realtà, contempla nella prima delle due condotte alternative, un’ipotesi sovrapponibile alla corruzione tra privati.

È stata, comunque, avvertita l’esigenza di completare tale intervento con norme volte a rendere più rigoroso il regime delle conseguenze patrimoniali derivanti dagli illeciti penali contemplati dal citato art. 1 e, per quanto concerne l’esercizio abusivo delle scommesse, dal successivo art. 4 della legge n. 401/1989.

Infatti, le fattispecie incriminatrici in commento sono soggette alla disciplina generale delle misure di sicurezza di natura ablatorie contenuta nell’art. 240 c.p., il quale non consentiva la confisca per equivalente del prezzo o del profitto del reato. Inoltre, i reati di match fixing e di esercizio abusivo di giochi e scommesse non rientravano nel novero delle fattispecie che, a norma del D. Lgs. n. 231/2001, danno luogo alla responsabilità penale della persona giuridica.

L’impossibilità di applicare tali istituti ai reati in argomento era suscettibile di determinare una minore capacità di aggressione ai capitali illeciti accumulati attraverso le condotte di frode sportiva e l’illecita gestione delle scommesse su eventi sportivi.

[1] Nell’epoca della crisi del multilateralismo discorrere dei risultati dei Fora multilaterali tematici come il WGB OCSE o l’ACWG del g20 può mostrare una vitalità delle politiche multistatali in grado di disegnare la via per un recupero della dimensione sovranazionale delle policy e del diritto.

[2] Si veda la già citata Rivista co-diretta dall’Autore con il Prof. Ranieri Razzante, dal titolo Diritto penale della Globalizzazione, giunta al suo 9 numero e secondo anno di attività.

[3] Art. 2635 Codice civile (Fonti→ Codice civile→ LIBRO QUINTO – Del lavoro→ Titolo XI – Disposizioni penali in materia di società e di consorzi→ Capo IV – Degli altri illeciti, delle circostanze attenuanti e delle misure di sicurezza patrimoniali).

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la stessa pena se il fatto è commesso da chi nell’ambito organizzativo della società o dell’ente privato esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo.

Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.

Chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma, è punito con le pene ivi previste.

Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.

[Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.](2)

Fermo quanto previsto dall’articolo 2641, la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte. (1)

Note

(1) Articolo così modificato dall’art. 3 del D. Lgs. 15 marzo 2017, n. 75.

(2) La legge 9 gennaio 2019, n. 3 ha disposto (con l’art. 1, comma 5, lettera a)) l’abrogazione del comma 5 dell’art. 2635.

[4] Art. 2635 bis Codice civile

Fonti→ Codice civile→ LIBRO QUINTO – Del lavoro→ Titolo XI – Disposizioni penali in materia di società e di consorzi→ Capo IV – Degli altri illeciti, delle circostanze attenuanti e delle misure di sicurezza patrimoniali

Chiunque offre o promette denaro o altra utilità non dovuti agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonché a chi svolge in essi un’attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, affinché compia od ometta un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedeltà, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 2635, ridotta di un terzo.

La pena di cui al primo comma si applica agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonché a chi svolge in essi attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, che sollecitano per se’ o per altri, anche per interposta persona, una promessa o dazione di denaro o di altra utilità, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, qualora la sollecitazione non sia accettata.(1)

[Si procede a querela della persona offesa.](2)

Note

(1) Articolo inserito dall’art. 4, D. Lgs. 15 marzo 2017, n. 38.

(2) La legge 9 gennaio 2019, n. 3 ha disposto (con l’art. 1, comma 5, lettera b)) l’abrogazione del comma 3 dell’art. 2635-bis.

[5] La “diplomazia giuridica” – intesa come azione diplomatica innovativa nel settore della giustizia e della sicurezza socio-economica – può contribuire allo sviluppo di modelli normativi comuni, al cui interno valorizzare in particolar modo l’esperienza italiana di contrasto a rilevanti fenomeni criminali.

Essa può altresì fungere da volano di nuovi percorsi di crescita economica e di leale concorrenza tra le imprese, in contesti giuridici armonizzati nei quali l’Italia possa porre in evidenza i principi ispiratori e le migliori prassi maturate nel nostro assetto costituzionale, che vede nello statuto di indipendenza delle istituzioni di garanzia un presidio fondamentale per la tutela dei diritti e per l’uguaglianza concreta ed effettiva dei cittadini di fronte alla legge.

[6] Si tratta di vere e proprie norme, paragonabili a leggi delega del nostro parlamento, di quelle che se non fossimo in campo penale chiameremmo self executing.

[7] La Convenzione del Consiglio d’Europa è assistita dall’attività di peer to peer review del GRECO: si tratta di un foro multilaterale globale. Il CoE ha dotato il meccanismo di valutazione reciproca e peer pressure di un Segretariato Generale dedicato.

[8] Art. 1, L. n. 401/1989: “Chiunque offre o promette denaro o altra utilità o vantaggio a taluno dei partecipanti ad una competizione sportiva organizzata dalle federazioni riconosciute dal Comitato Olimpico nazionale italiano (CONI), dall’Unione italiane per l’incremento delle razze equine (UNIRE) o da altri enti sportivi riconosciuti dallo Stato e dalle associazioni ad esso aderenti, al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione, ovvero compie altri atti fraudolenti volti al medesimo scopo, è punito con la reclusione

da un mese ad un anno e con la multa da lire cinquecentomila a due milioni. Nei casi di lieve entità si applica la sola pena della multa”.

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