La Cassazione conferma le condanne per Buzzi e Carminati: storia di un altalenante iter giudiziario

Di Tommaso Palamone -

La recente pronuncia della Corte di Cassazione, Seconda Sezione penale, mette (in parte) la parola fine al tortuoso iter giudiziario che ha fatto luce su cosiddetto “Mondo di mezzo”, una realtà criminale operante per diversi anni nella Capitale tramite due distinti sodalizi, l’uno dedito alla corruzione, l’altro al recupero di crediti di natura usuraia.

Più precipuamente, con la suddetta pronuncia venivano confermate le pene irrogate alle due figure apicali al centro della vicenda giudiziaria, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, condannati al termine del processo di appello bis ad anni dieci di reclusione per il primo ed anni dodici e mesi dieci per il secondo.

In definitiva, dunque, è stato escluso il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. (e relative aggravanti), la cui configurabilità è stata oggetto di discussione dell’intero procedimento.

(A tal proposito), l’ipotesi accusatoria della Procura, sin dall’apertura delle indagini nel 2014, deduceva l’esistenza di un’unica associazione mafiosa, facente capo a Buzzi e Carminati, dedita ad attività estorsive per il recupero di crediti di natura usuraia, ma soprattutto diretta ad intessere un fitto sistema di corruzione di funzionari pubblici, volto a far ottenere alle cooperative legate a Buzzi l’aggiudicazione di appalti per servizi di pubblica utilità.

Tale ipotesi veniva condivisa, in fase cautelare, dalla Suprema Corte, la quale con due ordinanze del 2015 confermava le misure disposte nei confronti degli imputati, stante i copiosi elementi che facevano propendere in tal senso.

Nel 2017 veniva definito il processo di primo grado con una decisione in aperto contrasto con quanto sostenuto dall’accusa, non riconoscendo – i giudicanti – l’unicità dell’associazione e asserendo, al contrario, l’esistenza di due distinte associazioni criminali “semplici”: una, facente capo a Carminati e dedita all’attività estorsiva, l’altra, facente capo a Buzzi, votata alla corruzione dei funzionari capitolini. Invero, secondo quanto asserito dai giudici, l’unico punto di contatto tra le due realtà criminali si rinveniva nella partecipazione – ad entrambe le associazioni – di Carminati e di un altro imputato, elemento insufficiente di per sé a far ritenere l’unicità dell’associazione. A tanto va soggiunto che il Tribunale di Roma escludeva la caratura mafiosa delle due associazioni, “derubricandole” all’ipotesi meno grave di cui all’art. 416 c.p., in quanto queste – secondo i giudici – difettavano dei requisiti della forza di intimidazione, dell’assoggettamento e dell’omertà.

In particolare, quanto alla prospettazione dell’accusa relativa all’esistenza della c.d. riserva di violenza, intesa come la fama criminale di cui un’associazione mafiosa gode e che viene da questa sfruttata senza la necessità di porre in essere azioni violente – sostenevano i giudici – essa  è un elemento che può caratterizzare solo le mafie derivate da quelle tradizionali, tipica delle cosiddette mafie delocalizzate, “qualità” esclusa nel caso di specie, in quanto il collegamento di Carminati con la celebre Banda della Magliana ed il gruppo eversivo dei N.A.R. non poteva più ritenersi attuale, né i contatti dello stesso con elementi delle mafie tradizionali potevano considerarsi stabili e collegate ai fatti di causa. Peraltro, la decisione sanciva che l’attività corruttiva dei funzionari capitolini si sorreggeva sulla complicità e non sull’intimidazione. Infine, la non riconducibilità delle due associazioni nell’alveo delle “mafie derivate”, imponeva la necessità di accertare se queste potessero essere considerate “mafie autoctone”, in grado, in quanto tali, di conseguire una autonoma e concreta forza intimidatrice, di cui però non si aveva nessun riscontro in dibattimento.

A seguito del gravame proposto dalla Procura, la Corte di Appello di Roma, nel 2018,  ribaltava completamente la sentenza di primo grado, riconoscendo l’unicità dell’associazione e il carattere mafioso della stessa: secondo i Giudici, l’unicità dell’associazione era rinvenibile, da un lato, nelle mire espansionistiche di Carminati, intenzionato ad inserirsi, grazie all’esperienza di Buzzi, nel settore amministrativo/imprenditoriale, dall’altro nella volontà di Buzzi di utilizzare la fama criminale di Carminati e l’amicizia di quest’ultimo con alcuni politici capitolini. Sarebbe proprio da questo “manifesto programmatico” che, secondo i giudici, prendeva forma la “mafiosità” dell’associazione, tramite il ricorso occasionale all’intimidazione, necessaria a palesare la c.d. riserva di violenza ed idonea ad instaurare, seppur su un ambito territoriale ristretto, il necessario assoggettamento omertoso, e ciò attraverso la fama criminale raggiunta da Carminati.

Pur non seguendo la tesi della “mafiosità derivata” la Corte affermava, insomma, l’esistenza di un’associazione mafiosa “nuova”, la cui forza intimidatrice non risiedeva in atti violenti o di minaccia, ma nel prestigio criminale autonomo raggiunto da Carminati.

Paradossalmente, i giudici di secondo grado, pur riconoscendo la sussistenza di una vera e propria associazione ex art. 416 bis c.p., irrogavano pene più contenute rispetto a quelle inflitte in primo grado.

Nel 2019, con l’ennesimo stravolgimento, la Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso presentato dagli imputati, escludeva definitivamente la sussistenza dell’associazione mafiosa, riconoscendo al contrario l’esistenza di due associazioni per delinquere “semplici”.

Quanto all’elemento dell’unicità dell’associazione, la Suprema Corte evidenziava che il quadro probatorio non permetteva in alcun modo di risalire ad un pactum sceleris tra Buzzi e Carminati e che la Corte di appello si fosse appiattita su elementi di fatto inconferenti, recependo passivamente la decisione adottata dalla Corte di Cassazione in ambito cautelare, senza considerare la diversa base probatoria intanto formatasi durante il primo grado di giudizio.

Più nello specifico, secondo la Suprema Corte, la sentenza di appello risultava viziata da gravi carenze motivazionali, in primis riconducibili alla pretesa della Corte di appello di far derivare la capacità intimidatrice dell’associazione non dal prestigio criminale della stessa, ma da quella di un suo singolo membro, ovvero Carminati.

Veniva sottolineato, altresì, come la capacità intimidatrice del metodo mafioso dovesse essere attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, non essendo sufficiente che questa si limitasse ad una mera potenzialità astratta. Non conformandosi ai summenzionati requisiti, la Corte di appello – in presenza di una chiara anemia probatoria – faceva discendere la capacità intimidatrice in “modo automatico e sostanzialmente presuntivo” dalla sola figura di Carminati.

Infine, i giudici di seconde cure, erroneamente, effettuavano una impropria sovrapposizione tra assoggettamento omertoso, indotto dal timore scaturito dalla forza intimidatrice delle associazioni mafiose, e quell’omertà propria dei sistemi corruttivi, fondata sulla connivenza tra le parti. Ebbene, la vicenda di Mafia Capitale, secondo la Suprema Corte, apparteneva al secondo meccanismo, parte di un sistema “gravemente inquinato, non dalla paura ma dal mercimonio della pubblica funzione”.

Il precipitato logico di quanto appena esposto è quello per cui la Suprema Corte, riqualificati i reati contestati ai sensi dell’art. 416 c.p. e ritenuta la sussistenza di due associazioni “semplici”, annullava con rinvio la sentenza di appello relativamente al trattamento sanzionatorio, il quale veniva rideterminato al termine dell’appello bis e confermato in Cassazione con la recente pronuncia.

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