Il grado di maturità del reo minorenne

Di Andrea Baiguera Altieri -
  1. Lo stress pedagogico nell’adolescente

Meritato o meno che sia, lo stress pedagogico caratterizza l’intera fase dell’adolescenza, ove la contestazione della pedagogia veicolata dev’essere accompagnata dall’autodeterminazione di crescere e di formarsi una personalità. Secondo Neresini & Ranci (1992)[1], “per disagio adolescenziale s’intende la manifestazione, presso le nuove generazioni, della difficoltà di assolvere ai compiti di sviluppo che vengano loro richiesti dal contesto sociale per il conseguimento dell’identità personale e per l’acquisizione delle abilità necessarie alla soddisfacente gestione delle relazioni quotidiane”. Similmente, Gambini (2008)[2] ribadisce che “durante l’adolescenza, la persona deve superare vari compiti relativi allo sviluppo fisico, cognitivo e sociale, per definire la sua identità”. Sempre Gambini (ibidem)[3] prosegue nell’asserire che “l’adolescenza è un’età in cui il malessere, il disorientamento ed il rischio sono elementi costitutivi del processo di cambiamento. Il fatto di dover affrontare i vari compiti di sviluppo provoca, nei ragazzi, una certa ansietà che, di per sé, non è patologica, ma rappresenta un normale stato di disagio legato alla crescita che viene chiamato disagio evolutivo”.

 

Come si può notare, i tre Autori italiofoni testé menzionati ammettono la sociogenesi del disagio adolescenziale, in tanto in quanto lo stress pedagogico è generato dalle agenzie di controllo ed è destinato a favorire l’ingresso nella collettività degli adulti. Parimenti, Formella & Ricci (2010)[4] reiterano l’affermazione della natura sociogenetica del malessere giovanile, ovverosia “si può parlare di disagio evolutivo come di una difficoltà normale e superabile, che caratterizza i ragazzi nel momento della loro crescita, durante l’età adolescenziale […] [Questo] disagio deriva dall’interazione tra variabili relative al soggetto e variabili relative al contesto nel quale il soggetto è inserito”. Dunque, anche Formella & Ricci (ibidem)[5] invitano l’Operatore a contestualizzare la pedagogia dell’evoluzione all’interno della specifica heimat familiare e scolastica del/della ragazzo/a. Ciascun ultra-13enne presenta uno specifico contesto socio-ambientale; donde, la necessità di personalizzare ciascun piano d’istruzione a seconda delle esigenze concrete dettate dall’ambito di provenienza dell’individuo in fase di sviluppo. Tuttavia, come messo in evidenza da Formella & Ricci (ibidem)[6] “nella società di oggi, il modello degli adulti che i ragazzi hanno di fronte non sembra promettere felicità e appare poco realizzabile. Ciò provoca nei ragazzi il bisogno di differenziarsi e, a volte, ciò è realizzato attraverso gesti estremi come l’uso di sostanze o di alcool e comportamenti a rischio”. In effetti, l’ultra-13enne, metatemporalmente e metageograficamente, patisce spinte traumatofiliache, solitamente acuite dall’influsso dei coetanei. Ora, la tossicodipendenza e/o l’alcooldipendenza sono i primi campanelli d’allarme del piacere per il rischio e dell’accettazione di pericoli non normativamente consentiti. Tale concetto è il medesimo riaffermato, con un taglio esistenzialista, da Amenta (2004)[7], a parere del quale “tutte le forme di violenza adolescenziale, ad esclusione di quelle dovute a diagnosi patologica, sono legate al bisogno di emergere dall’incomprensione. Il bisogno negato è quello di esistere, di essere visti, di essere riconosciuti. Gli adolescenti, a volte, esprimono il bisogno legittimo di sentirsi importanti, utili e considerati, attraverso forme distruttive con le quali sperano di ottenere un riconoscimento”.

 

Amenta (ibidem)[8] si sofferma pure sulle frustrazioni, talvolta abnormi, provenienti dalle agenzie educative, nel senso che “dietro al disagio ed alla sua manifestazione si può individuare qualche bisogno frustrato, a volte in modo cronico […]. Se un allievo ha bisogno di riconoscimento, ma incontra, da parte dell’insegnante, la svalutazione di tale bisogno, potrebbe reagire cominciando ad esprimere rabbia e collera, mettendo, poi, inconsapevolmente, in atto comportamenti problematici per soddisfare il proprio bisogno”. Gli asserti di Amenta (ibidem)[9] sono validi non soltanto nell’ambito della scolarizzazione, ma anche in quello della sessualizzazione, cronicamente associata, durante l’adolescenza, a condizioni di rabbia auto-/etero-lesiva. Ognimmodo, senza dubbio, l’istituzione scolastica costituisce l’ambiente in cui, perlomeno in Occidente, il ragazzo tende a confidare maggiormente le proprie esigenze represse; da cui il carattere fondamentale dell’ascolto da parte dei docenti, ai quali va richiesto di veicolare non soltanto nozioni tecnico-culturali, ma pure etico-valoriali. Giustamente, Froggio (2002)[10] pone alcuni capisaldi, giacché “il disagio non è una condizione patologica, ma qualcosa di connesso al processo di crescita, al passaggio verso lo stato adulto […]. Il disagio è la manifestazione più leggera delle difficoltà sociali, psicologiche, economiche e scolastiche che l’adolescente incontra durante la crescita […]. Il disagio […] può degenerare in comportamenti devianti occasionali o in situazioni auto/etero-lesionistiche, come depressione, suicidi, disturbi alimentari e tossicodipendenza, o può esprimersi in atti contro il patrimonio pubblico o privato, come piccoli furti, atti teppistici, violenza negli stadi o vandalismi”. Le osservazioni di Froggio (ibidem)[11] colgono nel segno allorquando affermano che lo stress pedagogico adolescenziale non sempre è patologico e, soprattutto, ha un’eziologia sociogenetica.

Il Dottrinario qui in parola, infatti, evidenzia che la fase dell’evoluzione non va “medicalizzata”, bensì il pedagogo ed il Giurista sono tenuti a capire quali siano le spinte sociali non idonee che generano la sofferenza inutile. In Froggio (ibidem)[12] l’adolescente è presentato alla stregua di un soggetto socialmente condizionato, quindi inserito in uno specifico contesto collettivo, oltre che familiare e scolastico. È, pertanto, essenziale tener conto della provenienza socioculturale del giovane, la cui crescita, nel bene o nel male, è sempre etero-determinata. Erikson (1999)[13] ha teorizzato la vita umana come un “ciclo continuo”, in tanto in quanto “la vita dell’uomo può essere concepita come una serie di stadi di sviluppo, ciascuno caratterizzato da un conflitto vitale che dev’essere superato per passare a quello successivo. Nell’adolescenza, si ha il dilemma tra identità e confusione d’identità, ossia si ha una fase di sperimentazione consentita socialmente e definita moratoria psicosociale. L’identificazione e la sperimentazione sono i due processi necessari per giungere a definire la propria identità. Un’identità ben costruita comporta continuità, coerenza, reciprocità, libertà ed accettazione dei limiti, e la capacità di avvertire un progetto per il futuro. L’esito negativo di questo processo porta, invece, ad un’identità confusa e a sperimentare un senso d’inadeguatezza e di disagio. È importante evidenziare come il processo che porta all’acquisizione dell’identità causi, di per sé, disagio nell’adolescente, proprio perché richiede il superamento di un conflitto”. Forse, la più importante innovazione pedagogica di Erikson (ibidem)[14] consta nel descrivere l’intera vita umana alla stregua di un periodo formativo mai completamente concluso; da cui, l’importanza della c.d. “pedagogia degli adulti”, in cui si propongono risoluzioni di conflitti anche nell’ultra-25enne uscito dalla fase della costruzione dell’Io.

Tuttavia, per tornare alla fattispecie dell’adolescenza, Formella (2009)[15] rimarca che “nella società odierna, non esiste più una forte e riconoscibile identità generazionale. La crisi delle agenzie di educazione, come la famiglia, la scuola, le associazioni, la parrocchia […] hanno influito sullo stile di vita e sul pensiero dei giovani […]. I giovani […] devono restare giovani, perché non riescono ad inserirsi nella società degli adulti. Questo comporta disoccupazione, svolgimento di lavori insoddisfacenti, fidanzamenti eterni o matrimoni di prova, e rafforza la dipendenza economica ed affettiva dai genitori. Non esiste un’identità giovanile omogenea, non ci sono più modelli di riferimento unitari nel mondo degli adulti, non esistono più modelli giovanili da poter contrapporre agli adulti.

  1. Il disagio giovanile

L’odierna dittatura del relativismo e dell’agnosticismo mette in pericolo la stabilità emotiva e valoriale del giovane. Infatti, Formella & Ricci (ibidem)[16] osservano che “il ragazzo viene sollecitato all’individualismo ed all’egocentrismo. Tutto questo aumenta il disagio dell’adolescente nella costruzione della propria identità”. Dunque, anche a parere di chi redige, la cultura del pensiero debole non ha recato ad alcun beneficio, bensì essa ha esasperato la già difficile ricerca di senso da parte dell’ultra-13enne. Viceversa, più ottimista è Berti (1997)[17], a parere del quale il disagio giovanile costituisce solo una realtà transitoria, in tanto in quanto “la necessità di affrontare i vari cambiamenti personali e quelli dell’ambiente […] nella maggior parte dei casi, sparisce con la crescita dell’adolescente, l’acquisizione della propria identità e l’assunzione di un posto in mezzo agli altri”. A parere di chi scrive, Berti (ibidem)[18] sottovaluta il fatto che i traumi patiti in età adolescenziale hanno frequenti riverberi pure durante l’adultità.

D’altra parte, anche Gambini (ibidem)[19] sottolinea gli eventuali aspetti negativi della crescita adolescenziale, nel senso che “il disagio evolutivo è una condizione trasversale a tutti gli adolescenti, che accompagna la loro crescita, ma può trasformarsi in disadattamento quando l’adolescente non riesce a superare i propri compiti. Il giovane, allora, entra in crisi per l’accumulo delle difficoltà; di conseguenza, il disagio può anche portare alla cristallizzazione delle difficoltà e all’adozione di comportamenti messi in atto per ridurre la sofferenza insita nella situazione di malessere. In alcuni casi, possono comparire anche condotte antisociali che, se non sono transitorie, costituiscono l’inizio di un percorso di devianza”. Giustamente e pertinentemente, Gambini (ibidem)[20] evidenzia che il malessere giovanile, se non adeguatamente trattato dalle agenzie di controllo, reca di frequente ad una criminogenesi che sfocia in un’antigiuridicità pericolosamente eterolesiva. È,  pertanto, compito della pedagogia prevenire la necessità di un percorso rieducativo di matrice penitenziaria, giacché la pena detentiva deve costituire l’extrema ratio. Esiste, inoltre, il problema di distinguere la devianza fisiologica da quella psicopatologica. A tal proposito, Froggio (ibidem)[21] specifica che “per stabilire quando il disagio sperimentato da una persona può considerarsi normale e quando, invece, dev’essere considerato patologico, sono necessari dei criteri di valutazione, che, però, presentano del limiti […] Il fenomeno del disagio […] anche se, entro certi limiti, è normale ed è legato al superamento degli stadi di sviluppo, a volte evolve nella patologia”.

Come si può notare, Froggio (ibidem)[22] ammette la sussistenza di una zona grigia ove la distimia adolescenziale si congiunge e si confonde con la malattia psichica. Nel qual caso, il concetto di “educazione” deve lasciar spazio a quello di “cura”. Secondo Milanesi (1984)[23] la sofferenza del/della ragazzo/a non è patologica quando “soggettivamente, il disagio si manifesta come un insieme di percezioni, emozioni, sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che denotano uno stato generale di insoddisfazione, più o meno profonda, nei riguardi delle condizioni obiettive entro le quali il giovane è chiamato a vivere”. Del pari, nell’analisi di Formella (2009)[24], “il disagio giovanile non è l’espressione di un problema patologico [quando] è [semplicemente] collegato a problemi psicologici ed affettivi, a difficoltà di relazione, a difficoltà familiari, a difficoltà scolastiche e, soprattutto, ad un malessere esistenziale dovuto al processo di acquisizione dell’identità”. Pertanto, come si nota, Formella (ibidem)[25] prende le distanze da una neuropsichiatria tracotante ed onnipotente che pretende di interpretare il disagio adolescenziale in chiave medico-psichiatrica. Nella fase dello sviluppo dell’ultra-13enne, il concetto di patologia non è tassativamente presente, tranne nei casi in cui la crisi evolutiva manifesta sofferenze estreme e non ordinarie.

 

Anche Formella & Ricci (ibidem)[26] specificano anch’essi la non utilità perenne delle categorie psicopatologiche; più dettagliatamente, essi sostengono che “il disagio diventa patologico [solo] quando causa un blocco nelle seguenti aree: nella relazione con gli altri (timidezza, vergogna, eccessiva inibizione, disinteresse verso i pari, tristezza, chiusura in se stessi o manifestazioni aggressive); nello sviluppo cognitivo (discrepanza tra le prestazioni del soggetto e le capacità che possiede); nello sviluppo adattativo (capacità di cambiare le proprie abitudini e modalità comportamentali in funzione della crescita ed in base alle sollecitazioni della società tipicamente riferite a questa fase di sviluppo )”. In sostanza, la maggior parte dei Dottrinari italiofoni esorta a non ipostatizzare l’approccio psicologico, giacché non sempre lo stress pedagogico va necessariamente sussunto entro le categorie patologiche del DSM-V. Esiste, dunque, un disagio “ordinario” fisiologicamente legato alla fase dell’adolescenza e non connesso alla devianza psichica.

  1. Gli strumenti di mitigazione del malessere adolescenziale

Come osservato da Bonino & Cattelino (2008)[27], “[nell’adolescenza] per fattori di protezione s’intendono quelle variabili personali o ambientali che sono in grado di mitigare, in modo diretto o indiretto, l’impatto del rischio sul comportamento e sullo sviluppo degli adolescenti […] Le relazioni tra questi fattori di protezione non sono di tipo cumulativo, ma di reciproca influenza, con effetti spesso esponenziali. I tre principali ambiti caratterizzati da fattori di protezione sono la famiglia, la scuola ed il gruppo dei coetanei. Si tratta degli stessi ambiti nei quali gli adolescenti affrontano i principali compiti evolutivi […]. I fattori di protezione hanno una duplice funzione: di promozione del comportamento positivo, di moderazione o di tamponamento dell’effetto dell’esposizione al rischio. È importante notare come, all’interno di un modello interazionista complesso […], nessun singolo fattore di rischio o di protezione può avere grande influenza da solo, poiché tutti i fattori interagiscono gli uni con gli altri, rafforzandosi o indebolendosi vicendevolmente”.

Ecco, dunque, che Bonino & Cattelino (ibidem)[28] rivisitano e rivalutano il ruolo di profilassi criminologica delle tre agenzie di controllo tradizionalmente oggetto dell’analisi delle scienze del crimine. Che lo si voglia o meno, nel bene o nel male, la famiglia, la scuola ed il gruppo dei pari sono decisivi per la formazione dell’individuo. P.e., una famiglia tossica agevolerà l’antisocialità; un prolungato fallimento scolastico segnerà per sempre l’allievo nelle proprie scelte lavorative; un gruppo di coetanei criminogeno può influenzare assai la futura carriera antinormativa. All’opposto, un nucleo familiare ordinario, una scolarizzazione adeguata e dei legami amicali sani aiutano l’ultra-13enne a recepire stimoli costruttivi che lo proteggeranno dall’antisocialità. Inoltre, a parere di chi scrive, Bonino & Cattelino (ibidem)[29], seppur implicitamente, ribadiscono che la formazione del soggetto è sempre e comunque un percorso socio-ambientalmente condizionato. Ciascun individuo sviluppa spontaneamente, criticandoli o aderendovi, gli stimoli pedagogici ricevuti dalle agenzie educative, come dimostra pure il fattore della precarietà abitativa e del luogo di residenza.

Interessanti sono pure Szpringer & Formella (2010)[30], i quali mettono in speciale evidenza il ruolo della supervisione genitoriale in età post-infantile, ovverosia “la supervisione si riferisce all’interesse ed alla conoscenza, da parte dei genitori, circa quello che fanno i figli fuori casa e con chi trascorrono il proprio tempo. [Essa] costituisce un fattore protettivo per molti comportamenti antisociali […] L’esposizione al rischio connesso alla disciplina inadeguata comincia nell’infanzia ed aumenta la probabilità di un esordio precoce del comportamento antisociale. La supervisione genitoriale diventa molto più importante alle soglie dell’adolescenza, in rapporto all’aumento dell’autonomia e del tempo trascorso fuori dal controllo degli adulti. Una supervisione eccessiva o assente si trasforma addirittura in fattore di rischio”. Szpringer & Formella (ibidem)[31] mettono in risalto il ruolo centrale della famiglia, la quale è e rimane, positivamente o negativamente, la cellula primordiale della società. Una dose normale di supervisione genitoriale è indispensabile per prevenire un mancato autocontrollo dell’ultra-13enne, che riceve un’educazione non endogena, bensì sempre veicolata da figure formative adulte necessariamente esterne.

Oppure ancora, i medesimi Szpringer & Formella (ibidem)[32] hanno evidenziato, nel ragazzo in età evolutiva, che “frequentare un gruppo religioso protegge l’adolescente dal mettere in atto condotte rischiose, anche se non si può dire che il non frequentare un gruppo religioso sia sempre un fattore di rischio”. Come si vede, i due Autori qui in parola sottolineano il ruolo quasi sempre basilare di una formazione metanormativa che apre la strada ad una valorialità non dominata dalla sterile e pura imitazione formale infantile.

Preziosi sono pure Bonino & Cattelino (ibidem)[33] nell’asserire che “i fattori di protezione possono agire in modi diversi: diminuendo la probabilità di rischio che il soggetto incontra in condotte pericolose, mitigando, in modo diretto o indiretto, gli effetti del rischio sullo sviluppo, eliminando il legame tra fattori di rischio e disagio o diminuendo le possibilità che il soggetto vada incontro a fattori di rischio […]. I fattori protettivi sono parte della resilienza delle persone e permettono di realizzare il circolo virtuoso che contrasta le traiettorie di rischio”. A parere di chi commenta, tuttavia, non si deve concepire in maniera deterministica e lombrosiana la ratio del ruolo dei fattori protettivi. Molto, infatti, dipende dalle altre circostanze ambientali e, soprattutto, dalla capacità dell’individuo di autodeterminarsi senza mettere in atto devianze antigiuridiche. E’ pertanto, indispensabile rigettare un’ipostatizzazione assolutizzante dei fattori di protezione, in tanto in quanto la criminogenesi dipende o, viceversa, non dipende dalla libera volizione dolosa del singolo; la famiglia, la scuola ed il gruppo dei pari non possono imporre condotte più o meno lecite, se non interviene, in definitiva, il deliberato consenso dell’ultra-13enne.

  1. La protezione anti-crimino-genetica fornita dalle agenzie educative

Secondo Franta (1988)[34], l’agenzia educativa è tenuta a stabilire con l’adolescente uno stretto rapporto di reciproca interazione, ovverosia, a parere di questo Autore, “la relazione educativa è interazione e comunicazione educativa, […] perché [tale] situazione interpersonale è un processo nel quale intervengono i diversi partners, sia pure su un piano di non parità. Negli ultimi due secoli della storia della pedagogia, la relazione interpersonale è stata considerata il modello di fondo dell’educazione […]. Questa visione deriva dall’affermazione di Dilthey: la scienza della pedagogia […] può iniziare solo con la descrizione dell’educatore nel suo rapporto verso l’educando”. Sempre nell’ottica di Franta (ibidem)[35], “il rapporto pedagogico è come una relazione appassionata di una persona matura verso una persona in divenire che cerca di realizzare la sua vita […]. L’educatore deve sostenere questo attraverso le qualità processuali dell’amore e dell’autorità, e l’educando attraverso l’obbedienza e l’amore.

 

La relazione educativa diventa fattore di protezione quando è capace di fornire sostegno e quando promuove, nell’educando, alcuni elementi che sono già, di per sé, fattori di protezione, come l’autostima, l’autoefficacia, l’ottimismo e la ricerca di senso”. Quindi, il summenzionato Dottrinario si dissocia dal modello educativo “verticale” e disumanizzante adottato sino alla prima metà del Novecento. Franta (ibidem)[36] esorta l’educatore ad abbandonare atteggiamenti “apicali” che sortiscono l’effetto controproducente di umiliare senza giusta causa l’ultra-13enne. Infatti, l’esperienza mostra che una pedagogia non inter-relazionale diminuisce l’autostima ed il rendimento del soggetto in età adolescenziale. L’educazione dev’essere intesa alla stregua di un rapporto reciproco che, senza per questo sminuire la dignità dell’adulto, arricchisce, sotto il profilo emotivo, ambedue le parti. Siffatto modello inter-relazionale è sostenuto pure da Bonino & Cattelino & Ciairano (2003)[37], in tanto in quanto “un elemento del buon funzionamento familiare è rappresentato dalla qualità delle relazioni, che consente di sviluppare fiducia e favorisce, nei figli, le competenze necessarie per affrontare questo periodo di transizione […]. Altri aspetti fondamentali sono il sostegno ed il controllo esercitato dai genitori”. Come si vede, Bonino & Cattelino & Ciairano (ibidem)[38] insistono sul fattore protettivo del controllo genitoriale, giacché il ruolo educativo primario della famiglia non è delegabile alle agenzie di controllo. Nel bene o nel male, in effetti, anche la più dissociata delle famiglie veicola quelle istanze morali che accompagneranno il ragazzo per tutta la fase dell’adultità. Non si può, d’altronde, negare che i genitori, se presenti, generano principi etici non veicolabili dalla scuola, dal gruppo dei pari e dal gruppo religioso di appartenenza. Anzi, la famiglia, benché talvolta tossica, rappresenta la forma primordiale della futura vita sociale.

Analoga è la posizione di Cattelino (2010)[39], poiché “[bisogna] mettere bene in evidenza i compiti relazionali che i genitori devono svolgere con i figli adolescenti. Innanzitutto, devono sostenere i figli su un piano affettivo ed emotivo e nelle attività che compiono all’esterno della famiglia; inoltre, devono creare una comunicazione aperta e tollerare i possibili disaccordi. È opportuno, poi, che i genitori forniscano anche una guida precisa e dei chiari punti di riferimento per favorire l’assunzione di responsabilità e limitare le condotte rischiose. È molto importante che ci sia un equlibrio tra disponibilità all’ascolto, calore, supporto emotivo e controllo dei comportamenti dei figli mediante chiare indicazioni normative”. Pertanto, anche Cattelino (ibidem)[40] rimarca che l’esercizio corretto della genitorialità costituisce il primo argine alla criminogenesi; la c.d. “carriera criminale” viene provocata, anzitutto e soprattutto, da una pedagogia familiare troppo lassista, che consente al/alla figlio/a frequenti uscite notturne e che non esercita nessun controllo sul gruppo dei coetanei. Cattelino (ibidem)[41], pur in maniera fors’anche eccessivamente idealizzata, ripropone un modello mediterraneo di genitorialità, nel quale l’autorità parentale diminuisce le spinte criminogenetiche esterne sulla figliolanza.

Nell’ottica testé esposta si colloca Franta (ibidem)[42], il quale afferma che “un buon livello di sostegno genitoriale permette all’adolescente di rivolgersi con sicurezza verso l’esterno e lo rende capace di esplorare nuovi ruoli ed aspetti di sé, perché sa di poter contare sulla presenza affettiva stabile dei genitori […]. In adolescenza, il sostegno genitoriale comprende anche la disponibilità che i genitori offrono nell’ascoltare il figlio, nel condividere i problemi e nel comunicare apertamente con lui. Infatti, la possibilità di discutere in modo aperto con i genitori permette agli adolescenti di percepirsi amati ed accettai e di sviluppare un’immagine di sé più positiva”. Dunque, Fronta (ibidem)[43] individua un nesso particolarmente delicato ed importante tra la corretta genitorialità e l’autostima dell’ultra-13enne; a sua volta, un ottimismo di fondo circa la propria persona reca un ruolo protettivo sotto il profilo della criminogenesi giovanile. Tuttavia, senz’altro, rimane, nell’Autore qui in parola, l’eterno problema della frequente discrasia fattuale tra la visione teorica della famiglia e la prassi quotidiana. In effetti, a livello empirico, la pedagogia rischia di porre in essere declamazioni retoriche prive di riscontri concreti nella gestione quotidiana delle agenzie di controllo. Non senza un idealismo astratto, Cattelino (ibidem)[44] ripete, al pari di quasi tutti gli altri Dottrinari italiofoni, che “il ruolo protettivo del sostegno genitoriale è utile [per prevenire] la messa in atto di comportamenti a rischio, il disagio emotivo, lo stress ed i sentimenti depressivi […]. Molto Studi hanno messo in evidenza l’importanza di una comunicazione aperta tra genitori e figli nel coinvolgimento degli adolescenti in svariati tipi di comportamenti a rischio. [Inoltre] i genitori possono ridurre il rischio di sperimentare sentimenti di malessere. Gli adolescenti che hanno genitori supportivi e aperti al dialogo si coinvolgono meno in forme di rischio esternalizzato e soprattutto nelle condotte devianti, poiché la disponibilità al dialogo ed al confronto rende più facile l’interiorizzazione delle norme e dei valori proposti dai genitori”.

Nuovamente, Cattelino (ibidem)[45] propone un paradigma di genitorialità idealistico e quasi mai coincidente con la realtà pedagogica fattuale. L’Autore in questione risulta impeccabile sotto il profilo formale, ancorché non sostanziale, sicché gli asserti summenzionati scadono nel limbo delle formule teoriche prive di riscontro oggettivo. Probabilmente, possono essere utili Nota & Soresi (1997)[46], i quali citano una statistica scolastica degli anglofoni Gottlieb e Syllvestre, in cui “tra gli adulti citati più spesso per le proprie confidenze, c’erano gli insegnanti […] con cui i ragazzi [tra i 16 ed i 20 anni] avevano svolto attività extracurricolari […]. [Ma] gli ostacoli alla formazione di queste relazioni erano il ruolo formale svolto dall’adulto, la presenza di gruppi troppo grandi nelle attività scolastiche, il dover assumere ruoli di subordinazione da parte dei giovani e la presenza di pressioni culturali, come quella di non dare confidenza agli sconosciuti. È emerso che queste relazioni risultavano importanti nel favorire scelte sociali mature, nel diminuire le tensioni, nella spinta a prendere in considerazione più alternative di fronte ad un problema e nell’incoraggiamento a pervenire ad una maggiore autocomprensione”.

Nota e Soresi (ibidem)[47] recano il merito di aver denotato apertamente l’importanza dell’agenzia pedagogica costituita dall’istituzione scolastica. Anzi, nel censimento criminologico dei menzionati Gottlieb & Syllvestre, la scuola sopperisce al fallimento della famiglia, la cui intimità e riservatezza non sempre sono adeguatamente garantite; donde, l’apertura emotiva degli adolescenti nei confronti del personale docente. Forse, l’umanizzazione della scuola è talvolta maggiormente preziosa del veicolare aridamente e seriosamente nozioni puramente tecnico-culturali. Entro tale prospettiva di “informalità” del rapporto tra allievo ed insegnante, anche Bandura (2000)[48] evidenzia che “l’allievo riconosce il ruolo del docente come guida ed il docente esercita questo ruolo. Queste relazioni sono caratterizzate dal rispetto vicendevole e dalla cooperazione, allo scopo di raggiungere un obiettivo comune, che è quello di aumentare le conoscenze e promuovere le competenze del giovane. Queste relazioni [con gli insegnanti] facilitano il successo scolastico dell’adolescente e ciò favorisce la costruzione di un’identità positiva […]. Molti fattori cognitivi, emotivi, motivazionali e relazionali influiscono sul successo scolastico degli adolescenti [poiché] […] l’auotoefficacia ha un ruolo importante nel promuovere l’adattamento e nell’opporsi a differenti forme di disagio psicologico e sociale nell’infanzia e nell’adolescenza”. Come si vede, Bandura (ibidem)[49] postula la necessità di un’autorità scolastica finalizzata non solo all’acquisizione di una buona cultura, ma anche all’ascolto non formale delle problematiche connesse allo stress pedagogico. Se l’insegnante dosa equamente formalità ed informalità, la scuola può arrivare a colmare le lacune pedagogiche del nucleo familiare, giacché l’ultra-13enne viene ad equiparare le figure dei genitori e del docente.

In effetti, anche Pastorelli (2005)[50] sostiene che “insegnanti consapevoli dell’importanza del proprio ruolo educativo possono potenziare le capacità cognitive dei loro studenti e quelle personali e socio-relazionali […] sforzandosi di accrescere l’autoefficacia degli alunni, la loro capacità di usare strategie di risoluzione dei problemi e di osservare le regole per raggiungere gli obiettivi prefissati […]. I giudizi dell’insegnante, tanto espliciti quanto impliciti, hanno grandi conseguenze”. Tuttavia, a parere di chi redige, rimane la problematica dell’equilibrio tra ruolo formale e ruolo informale del docente. Pastorelli (ibidem)[51] non chiarisce come d in che grado l’insegnante possa mantenere il distacco professionale di fronte agli atteggiamenti di apertura confidenziale dell’educando.

  1. Aspetti criminologici

Fornari (1997)[52] afferma che “c’è chi sostiene che si sta manifestando una certa precocità da parte delle nuove generazioni, cosa per cui sono state avanzate alcune proposte di revisione della soglia dell’imputabilità. Ma, in realtà, bisogna distinguere, perché ci sono quattro livelli di maturità: biologica, intellettiva, affettiva e sociale. Per quanto riguarda la prima, basta solo pensare all’importanza che ha, a livello psicologico, un armonioso sviluppo del corpo, e quali complessi di inferiorità e ritardi maturativi possono derivare o da un’eccessiva, rapida e precoce evoluzione somatica o [viceversa] dalla presenza di menomazioni, rallentamenti o dismorfismi di crescita”. Tali asserti si attagliano perfettamente al profilo dei disturbi alimentari nelle adolescenti di sesso femminile. Sempre Fornari (ibidem)[53], a proposito della “maturità intellettiva” contesta che gli ultra-13enni contemporanei, grazie alle nuove tecnologie comunicative, ricevono sì un’enorme quantità di stimoli culturali, ma ciò non incide, poi, sulla crescita e sull’attivazione dei freni inibitori.

P.e., l’aggressività giovanile eterolesiva prescinde dalla qualità del quoziente di intelligenza, in tanto in quanto la maggiore cultura non determina, in maniera automatica, una maggiore maturità emotiva. Il medesimo Dottrinario italiofono, inoltre, chiarisce che la “maturità affettiva” viene troppo spesso confusa con una sessualizzazione precoce, il che non è corretto, giacché le pulsioni erotiche non generano quella fortificazione del carattere prescindente dal mero esercizio fisico di atti sessuali quantitativamente abbondanti ancorché qualitativamente privi di una costruttività e di una prospettiva futura. D’altra parte, la sessualità fisica minorile non rafforza il carattere del/della ragazzo/a ed è improntata ad una animalità istintiva ed a-morale. Quanto, poi, alla “maturità sociale”, l’infra-18enne, ma fors’anche l’infra-25enne, manifesta sempre forti carenze, perché la personalità del giovane e del giovane adulto è oggi inficiata da modelli edonistici fondati sulla ratio del piacere di breve periodo. Senza inibizioni sessuali, è inevitabile la nascita di una personalità fragile e chiusa al mondo esterno a causa della poca capacità di resistenza alle frustrazioni. Senza contare, inoltre, la diffusa tendenza all’abuso di alcol e di stupefacenti. Entro tale ottica interpretativa, Niccheri (2011)[54] evidenza che “ora i ragazzi, senza alcun dubbio, hanno maggiore maturità intellettiva, ma, a mio avviso, è molto rallentata la maturità affettiva, innanzitutto perché provano molte meno emozioni e, spesso, provano delle emozioni sbagliate. Il contributo della televisione, in questo senso, è estremamente negativo. Per esempio, i ragazzi non hanno più il concetto della morte: un tempo, vedevano morire il nonno in casa, vedevano la malattia, la morte, il familiare che andava via e che non tornava più; ora, si abituano a vedere gli eroi che muoiono stasera e domani, nella puntata successiva, ci risono. Quindi, la morte ha acquistato un altro significato. Poi, si abituano ad avere soltanto emozioni violente, oppure a considerare valide delle emozioni violente. Sono estremamente convinta che i ragazzi di oggi sono più intelligenti di quelli di ieri, però, sul lato dell’affettività, sono a livelli molto più bassi, questo anche per effetto della mancanza di situazioni affettive accoglienti: la famiglia di ieri, che stava intorno ai ragazzi, che si ritrovava attorno ad un tavolo a parlare anche con loro, indubbiamente era una famiglia molto più accogliente. Ora, non c’è più tutto questo. Quindi, dal punto di vista affettivo, c’è una maggiore aridità, in generale, ed i ragazzi l’avvertono, la sentono”.

Chi scrive concorda appieno con Niccheri (ibidem)[55], in tanto in quanto, in epoca odierna, si confonde la maturità con la sessualizzazione, la quale, sovente, altro non è che un bestiale sfogo semi-parafiliaco esasperato dai modelli veicolati dai mass-media. In particolare, l’atto erotico dell’adolescente o del post-adolescente non inibisce l’aggressività ed i delitti contro la persona. Anche Fiorillo (2002)[56] sfata il mito della maturità precoce, ovverosia “l’aver anticipato il compimento di certi atti non è significativo di maturità, perché non c’è riflessione, ma solo precocità e tolleranza di certi comportamenti. Non incontrando divieti, non riflettono neanche e si trovano a fare delle cose delle quali non hanno la percezione dell’importanza, anche positiva, percezione che potrebbero avere se dovessero aspettare uno o due anni ancora. I ragazzi d’oggi […] hanno solo meno limiti […]. Credo che il limite di 14 anni [ex Artt. 97 e 98 CP] sia giusto. A 13 anni sono ancora dei bambini. Abbassare l’età imputabile vuol dire far pagare ai ragazzi quelle che sono le responsabilità di altri”. Dunque, pure Fiorillo (ibidem)[57] reputa che il pansessualismo occidentale nulla ha a che fare con il grado di maturità dell’infra-18enne. Del pari, lo sviluppo meramente intellettivo è necessario ancorché non sufficiente.

CSM (1974)[58] ha notato che la “maturità” di cui agli Artt. 97 e 98 CP, purtroppo, è una “variabile geografica” non uniforme tra i vari Tribunali per i minorenni. Nel Nord Italia, l’art. 98 c.p. è applicato al 32 % degli imputati minorenni. Nell’Italia Centrale, solo il 5 % degli infrattori minorenni ultra-13enni viene prosciolto. Nell’Italia del Sud, l’8,5 % e nell’Italia Insulare l’8 %. P.e., il Tribunale per i minorenni di Milano giudica “immaturo” il 60,3 % dei ragazzi, mentre l’AG minorile di Napoli riconosce l’incapacità d’intendere e di volere solo allo 0,2 % degli infrattori. Sicché, Barsotti & Calacagno & Losana & Vercellone (1975)[59] hanno sostenuto che “questa differenza mal si giustifica con una presunta immaturità dei ragazzi settentrionali rispetto ai loro più svegli fratelli meridionali”. Altri Autori, invece, affermano che il Diritto Penale Minorile italiano va totalmente novellato ed integrato. Secondo CSM (ibidem)[60], “come dimostra l’atteggiamento tenuto dal Tribunale per i minorenni di Milano nei primi Anni Settanta [del Novecento], l’immaturità ha finito col diventare uno strumento di di clemenzialismo e di deresponsabilizzazione del minore. Il numero crescente di proscioglimenti per immaturità [ex comma 1 art. 98 c.p.] non è, infatti, la conseguenza di una minore maturità delle nuove generazioni, ma il segno che la Giurisprudenza, sopperendo alla diserzione del Legislatore, si è servita di questa formula come rimedio alla non più accettata ideologia punitiva. Lo strumento utilizzato ha consistito nell’ampliare sempre più il concetto di maturità e di estenderne l’applicazione, fino a giungere, di fatto, in talune sedi, ad elevare la soglia dell’imputabilità al 18.mo anno”.

Come si nota, CSM (ibidem)[61] denunzia che lo stare decisis giurisprudenziale è giunto ad una iperprotezione del minorenne dai 14 ai 17 anni d’età; anziché concretizzare la maturità a seconda del singolo caso, la Magistratura tende a negare sempre la capacità d’intendere e di volere di fronte ad infrattori non ancora 18.enni. Per conseguenza, il minorenne si sente avvolto e protetto da una tassativa presunzione di non punibilità. Parimenti, in Dottrina, Domanico (1995)[62] mette in risalto che “il crollo verticale delle pronunzie, da parte del Tribunale minorile di Milano, sia in sede di udienza preliminare che dibattimentale, di proscioglimento per incapacità d’intendere e di volere, avutosi in questi ultimi anni, invita ad una riflessione sui rischi connessi ad una sostanziale disapplicazione dell’art. 98 c.p. Dal 24 ottobre 1989 al 31 marzo 1995, su un totale di 6762 pronunce, solo l’8,3% ha dichiarato l’incapacità d’intendere e di volere ex art. 98 c.p., passando da un 20,5 % nel 1990 ad un 6,6 % nel 1994; inoltre, tra queste pronunce, […] la maggioranza assoluta ha riguardato minori italiani (oltre il 60 %)”.

Sempre in Dottrina, Domanico (ibidem)[63] precisa che “stando ai Lavori Preparatori del Codice Rocco – nei quali si legge che il ragazzo è imputabile quando ha conseguito quel livello di capacità d’intendere e di volere che è normale nel ragazzo medio della sua età – secondo una prima tesi, il minore sarebbe imputabile quando ha raggiunto quel livello di capacità che si riscontra, generalmente, nei suoi coetanei. Ma questa opinione è ritenuta, dalla maggior parte della Dottrina, inaccettabile, in quanto ne deriva che si dovrebbe punire un 15.enne maturo per la sua età e, viceversa, non punire un 17.enne che ragiona come un 16enne”.

Drastico ed irrealista è Franchini (1985)[64], il quale nega qualsivoglia maturità precoce, ovverosia “dev’essere esclusa l’imputabilità di quei minori che, al momento del reato, dimostrano un grado di maturazione inferiore a quello di un ragazzo normale di 14 anni […]. Spesso, a 16/17 anni, si è ancora dei bambini con uno sviluppo psicofisico pari a quello di un 13.enne. Per cui, è giusto assolvere chi si trovi in una situazione del genere, e altrettanto giusto condannare chi, invece, ha raggiunto la maturità tipica di un 14enne”. A loro volta, Barsotti & Calcagno & Losana & Vercellone (ibidem)[65] precisano che “nemmeno per l’adulto si presume la capacità d’intendere e di volere, dovendo il giudice spiegare perché ha ritenuto l’imputato capace; ma una presunzione, nei confronti del maggiorenne, esiste: egli, se non sono presenti le cause di esclusione della capacità d’intendere e di volere previste dagli Artt. 88, 89, 91, 93 e 96 c.p. è maturo. Se, invece, per il ragazzo tra i 14 ed i 17 anni, il giudice deve provare che esiste, in concreto, questa capacità, allora, per sillogismo, risulta che la prova dovuta dal giudice consiste nel dimostrare che il minore ha già conseguito quel tanto di maturità che la legge presume sempre presente nel 18enne, ossia il minimo richiesto per giustificare una misura punitiva. Allora, perché il Legislatore ha previsto una diminuzione di pena nei confronti dell’ultra 13enne che sia stato riconosciuto imputabile? […] Perché l’art. 98 c.p., stabilendo che il ragazzo è imputabile se ha la capacità d’intendere e di volere (non se presenta una semi-incapacità), ma riconoscendogli, nonostante questo, una diminuzione di pena, non ricollega tale diminuzione al fatto che il ragazzo è semi-capace, bensì al fatto che quel ragazzo, anche se capace d’intendere e di volere, rimane pur sempre un ragazzo ed è, quindi meritevole di indulgenza. Si tratta di una scelta di politica criminale, fatta sulla base della consapevolezza sia che il carcere è indubbiamente più sofferto da un ragazzo che da un adulto, sia che, nei confronti del primo, v’è una maggiore speranza di cambiamento e di reinserimento”.

Dal canto suo, Cabras (2002)[66] asserisce che “i criteri debbono essere generali e statistici insieme. È chiaro che, statisticamente, un ragazzo di 12 anni ha meno capacità di uno di 17; questo, se si va a guardare la media delle persone, può essere sicuramente quantificabile. Però c’è anche da dire che ogni persona ha una sua storia personale, e, di conseguenza, ogni individuo che sia nato e cresciuto in un certo tipo di ambiente, dove certe esperienze possono essere fatte tranquillamente e con ricchezza di apporti a vario livello, avrà uno sviluppo, una maturità che sarà diversa, per esempio, da quella di un individuo precocemente istituzionalizzato. Quindi, non credo che si possa fare un discorso esclusivamente statistico sull’età, ma bisogna tenere conto anche del percorso di vita che il singolo ha fatto”.

Per parte sua, Barcellona (1973)[67] evidenzia che “mentre certi fatti criminosi, come l’omicidio, la rapina, il furto, oltre a contrapporsi alle più elementari regole di condotta sociali, appaiono immediatamente ripugnanti al sentimento comune, sicché la loro immoralità è di facile percezione anche per un soggetto fornito di uno sviluppo individuale e psichico non molto progredito; altri, invece, essendo di più difficile valutazione, richiedono, affinché il soggetto ne percepisca l’immoralità e l’antisocialità, una maturità psichica ed una sensibilità morale e sociale molto sviluppate. Ne consegue che, mentre per i reati del primo tipo, in linea di massima, positivo sarà il giudizio sulla capacità d’intendere e di volere del minore, fornito di un normale grado di evoluzione mentale, per i reati del secondo tipo, più difficile si presenterà l’indagine su tale capacità, potendosi verificare che il soggetto, ancorché perfettamente capace d’intendere e di volere in relazione ai reati più gravi, possa non esserlo per quelli di più difficile comprensione. Ed è appunto questa considerazione che fa sorgere l’esigenza che l’accertamento del giudice di merito, circa l’imputabilità del minore, non venga effettuato astrattamente, in base al semplice esame della personalità e della condotta, ma tenga anche e soprattutto conto del fatto commesso e della sua natura”. Quindi, indirettamente, Barcellona (ibidem)[68] propone, per l’ultra 13enne, una valutazione giurisprudenziale che legga il comma 1 art. 98 c.p. alla luce dei criteri di gravità soggettivi e oggettivi di cui all’art. 133 c.p.. La contestualizzazione rimane comunque l’unica via per un’applicazione equa del comma 1 art. 98 c.p., in tanto in quanto il minore va giudicato sempre entro una prospettiva socio-ambientale nonché personologica.

Analogo è il parere di Barcellona (ibidem)[69], poiché, secondo tale Autrice, “è proprio dalla valutazione del fatto commesso [ex art. 133 c.p.] che dovrebbe muovere l’attività del giudice che voglia accertare l’imputabilità del soggetto, per continuare, poi, con l’esame sulla personalità e sulla condotta, esame che, nel caso dei reati più gravi, e, quindi, di palese antisocialità, servirà solo a confermare la capacità del soggetto, tranne nelle ipotesi in cui si scoprano anomalie psichiche […], mentre, nel caso dei reati meno gravi, e, quindi, di antisocialità meno evidente, servirà ad accertare l’esistenza o no della capacità del minore, dato che, in tali ipotesi, il semplice riferimento al fatto non sarebbe certo sufficiente per chiarire il dubbio circa tale esistenza”. Ecco, di nuovo, un invito alla suprema ratio della contestualizzazione, la quale diviene possibile soltanto congiungendo la precettività degli artt. 98 e 133 c.p. Ciò che conta è l’osservazione della specifica e concreta personalità dell’infrattore minorenne maggiore degli anni 13. All’opposto, una lettura solipsistica ed assolutizzante dell’art. 98 c.p. viola il principio della proporzionalità ragionevole della pena.

[1]Neresini & Ranci, Disagio giovanile e politiche sociali, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1992.

[2]Gambini, Dimensioni del disagio adolescenziale. Risultati di una ricerca empirica, Psicologia, Psicoterapia e Salute, Vol. 14, n. 2, 2008.

[3]Gambini, op. cit.

[4]Formella & Ricci, il disagio adolescenziale. Tra aggressività, bullismo e cyberbullismo, LAS, Roma, 2010.

[5]Formella & Ricci, op. cit.

[6]Formella & Ricci, op. cit.

[7]Amenta, Gestire il disagio a scuola, La Scuola, Brescia, 2004.

[8]Amenta, op. cit.

[9]Amenta, op. cit.

[10]Froggio, Psicosociologia del disagio e della devianza giovanile. Modelli interpretativi e strategie di recupero, Laurus Robuffo, Roma, 2002.

[11]Froggio, op. cit.

[12]Froggio, op. cit.

[13]Erikson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti, Armando, Roma, 1999.

[14]Erikson, op. cit.

[15]Formella, L’educatore maturo nella comunicazione relazionale, Aracne, Roma, 2009.

[16]Formella & Ricci, op. cit.

[17]Berti,  La devianza adolescenziale. In Palmonari, Psicologia dell’adolescenza, Il Mulino, Bologna, 1997.

[18]Berti, op. cit.

[19]Gambini, op. cit.

[20]Gambini, op. cit.

[21]Froggio, op. cit.

[22]Froggio, op. cit.

[23]Milanesi, Giovani e città. Percorsi giovanili a rischio. Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Brescia, Brescia, 1984.

[24]Formella, L’educatore maturo nella comunicazione relazionale, Aracne, Roma, 2009.

[25]Formella, op. cit.

[26]Formella & Ricci, op. cit.

[27]Bonino & Cattelino, La prevenzione in adolescenza. Percorsi psicoeducativi di intervento sul rischio e la salute, Erikson, Trento, 2008.

[28]Bonino & Cattelino, op. cit.

[29]Bonino & Cattelino, op. cit.

[30]Szpringer & Formella, Risk behaviuors of young people. Based on the example of narcotic consumption issue, Aracne, Roma, 2010.

[31]Szpringer & Formella, op. cit.

[32]Szpringer & Formella, op. cit.

[33]Bonino & Cattelino, op. cit.

[34]Franta, Atteggiamenti dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa, LAS, Roma, 1988.

[35]Franta, op. cit.

[36]Franta, op. cit.

[37]Bonino & Cattelino & Ciairano, Adolescenti e rischio. Comportamenti, funzioni e fattori di protezione, Giunti, Firenze, 2003.

[38]Bonino & Cattelino & Ciairano, op. cit.

[39]Cattelino, Rischi in adolescenza. Comportamenti problematici e disturbi emotivi, Carocci, Roma, 2010

[40]Cattelino, op. cit.

[41]Cattelino, op. cit.

[42]Franta, op. cit.

[43]Franta, op. cit.

[44]Cattelino, op. cit.

[45]Cattelino, op. cit.

[46]Nota & Soresi, I comportamenti sociali. Dall’analisi all’intervento, Erip., Pordenone, 1997

[47]Nota & Soresi, op. cit.

[48]Bandura, Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Erikson, Trento, 2000.

[49]Bandura, op. cit.

[50]Pastorelli, Autoefficacia, relazioni familiari, ego-resiliency e depressione in adolescenza, Età evolutiva, n. 82, 2005.

[51]Pastorelli, op. cit.

[52]Fornari, Trattato di psichiatria forense, UTET, Torino, 1997.

[53]Fornari, op. cit.

[54]Niccheri, Minorenne e reato. Cenni storici e realtà attuale, L’Altro Diritto, Pacini, Pisa, 2011.

[55]Niccheri, op. cit.

[56]Fiorillo, L’imputabilità del minore, Pacini, Pisa, 2002.

[57]Fiorillo, op. cit.

[58]CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), Relazione sull’indagine svolta presso gli uffici giudiziari per i minorenni, Roma, 1974.

[59]Barsotti & Calcagno & Losana & Vercellone, Sull’imputabilità dei minori tra i 14 ed i 18 anni, in Rivista italiana di diritto processuale penale, IV, 1975.

[60]CSM, op. cit.

[61]CSM, op. cit.

[62]Domanico, minori ultraquattordicenni tra esperienze recenti e mutazioni sociali, in Diritto penale e processo, n. 6, 1995.

[63]Domanico, op. cit.

[64]Franchini, Medicina legale, CEDAM, Padova, 1985.

[65]Barsotti & Calcagno & Losana & Vercellone, op. cit.

[66]Cabras, Maturità ed età, L’Altro Diritto, Pacini, Pisa, 2002.

[67]Barcellona, L’accertamento della capacità d’intendere e di volere nei minori degli anni diciotto, in Temi, 1973.

[68]Barcellona, op. cit.

[69]Barcellona, op. cit.

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