I REATI DI FALSO DEL FUNZIONARIO DELLA CAMERA DI COMMERCIO

Di Ranieri Razzante e Francesco Urbinati -

1. I profili di un dibattito aperto. La dibattuta questione sull’eventuale configurabilità dei reati di falso commessi dal funzionario-dipendente della Camera di Commercio nella tenuta del registro delle imprese va affrontata partendo dall’analisi della natura giuridica dell’Ente in questione e dei poteri che in capo a questi ne derivano.

Tale frangente, che si ripercuote sulla valenza dell’atto emesso, ne diversificherà – ad avviso degli scriventi – la rilevanza in sede giudiziale.

Per meglio comprendere il cuore della questione in esame è necessario procedere all’analisi della normativa di riferimento sulle nozioni dei principi generali e su una giurisprudenza carente, ma, tutto sommato, illuminante.

2. Natura giuridica della Camera di Commercio ed i suoi poteri. Non è affatto difficile individuare la natura giuridica della Camera di Commercio considerato che il “Testo Unico” L. 29.12.1993 n. 580 (così come modificata dal d.lgs. 15.2.2010, n. 23), ne fa espressa menzione all’art. 1, co. I, secondo cui “le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, di seguito denominate «camere di commercio», sono enti pubblici dotati di autonomia funzionale che svolgono, nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza, sulla base del principio di sussidiarietà di cui all’articolo 118 della Costituzione, funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese, curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali”.

È pacifico, dunque, che le Camere di Commercio siano enti pubblici e che i propri funzionari siano qualificati come pubblici ufficiali, secondo la nozione che ne viene data all’art. 357 c.p. Tale circostanza è, d’altronde, confermata da una recente pronuncia della Suprema Corte (su cui ritorneremo in seguito), in base alla quale è indubbio come “il funzionario della camera di commercio (ente avente personalità giuridica di diritto pubblico), rivesta, ai sensi dell’art. 357 c.p., la qualità di pubblico ufficiale e non di incaricato di un pubblico servizio” (Cass. Pen., sez. V, n. 1205 del 6.10.2014, dep. 13.1.2015).

Dato per certo che il funzionario della Camera di Commercio è pubblico ufficiale, vanno ora presi in considerazione i poteri e le funzioni che derivano da tale qualifica, ancorando la nostra disamina, ancora una volta, al tenore letterale della normativa di dettaglio.

I poteri sono indicati all’art. 2 co. II del Testo Unico summenzionato che, per chiarezza, si riporta integralmente di seguito:“Le camere di commercio, singolarmente o in forma associata, svolgono in particolare le funzioni e i compiti relativi a:

a) tenuta del registro delle imprese, del Repertorio Economico Amministrativo, ai sensi dell’articolo 8 della presente legge, e degli altri registri ed albi attribuiti alle camere di commercio dalla legge;
b) promozione della semplificazione delle procedure per l’avvio e lo svolgimento di attività economiche;
c) promozione del territorio e delle economie locali al fine di accrescerne la competitività, favorendo l’accesso al credito per le PMI anche attraverso il supporto ai consorzi fidi;
d) realizzazione di osservatori dell’economia locale e diffusione di informazione economica;
e) supporto all’internazionalizzazione per la promozione del sistema italiano delle imprese all’estero, raccordandosi, tra l’altro, con i programmi del Ministero dello sviluppo economico;
f) promozione dell’innovazione e del trasferimento tecnologico per le imprese, anche attraverso la realizzazione di servizi e infrastrutture informatiche e telematiche;
g) costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra imprese e consumatori e utenti;
h) predisposizione di contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti;
i) promozione di forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti;
l) vigilanza e controllo sui prodotti e per la metrologia legale e rilascio dei certificati d’origine delle merci;
m) raccolta degli usi e delle consuetudini;
n) cooperazione con le istituzioni scolastiche e universitarie, in materia di alternanza scuola-lavoro e per l’orientamento al lavoro e alle professioni”.

In particolare, il compito di tenuta del registro delle imprese di cui al punto a) dell’articolo riportato viene specificato al capo II, art. 8, rubricato appunto “Registro delle imprese”, che riprende ed integra la disciplina di cui all’art. 2188 c.c., norma che si limita a fondare la necessità e la pubblicità del registro e che è infatti rimasta inattuata per oltre mezzo secolo dalla propria introduzione.
In tale contesto, il Registro oggetto dell’odierna analisi nasce con le fattezze di una peculiare anagrafe pensata per le persone giuridiche il cui scopo basilare è permettere “la pubblica consultazione di atti e fatti relativi alla vita economica del paese”1.

La funzione pubblicitaria cui il registro assolve si declina in diverse tipologie: i. pubblicità dichiarativa, cui provvede la sezione ordinaria e che ha lo scopo di rendere opponibili ai terzi i fatti che vengono registrati; ii. pubblicità notizia, cui procedono le sezioni speciali e che ha l’esclusiva funzione di fornire informazioni ai terzi circa la vita delle imprese piccola-artigiana-agricola; la mancata iscrizione non comporterà una ‘sanzione funzionale’, quella dell’inopponibilità, bensì soltanto una sanzione di carattere amministrativo; iii. pubblicità costitutiva, che ricorre allorquando l’iscrizione di un determinato atto o fatto è requisito necessario ed indispensabile per la sua esistenza, e che opera principalmente nel caso di iscrizione dell’atto costitutivo della società e di ogni sua successiva modifica.

3. Il Funzionario ed i suoi ruoli. I preposti all’ufficio della Camera di Commercio, adibito alla gestione del Registro delle Imprese, quale ufficio retto dal Conservatore nominato dalla giunta della stessa Camera e scelto tra i suoi dirigenti, ovvero nella persona del segretario generale, si occupano materialmente della tenuta, della conservazione e della gestione del registro, ormai esclusivamente secondo tecniche informatiche.

Si è molto discusso in passato se l’attività posta in essere dal funzionario della Camera di Commercio si sostanziasse in una mera iscrizione e formale modifica del registro oppure in un controllo più incisivo e interno degli atti depositati.

Tale problematica emergeva, in particolar modo, per quegli atti presentati direttamente dal privato e senza la previa omologazione di un altro pubblico ufficiale, quale poteva essere ad esempio il notaio. In sostanza si può, senza dubbio, sostenere che gli atti trasmessi dal notaio al funzionario della Camera di Commercio non debbano sottostare ad alcuna istruttoria nel merito del contenuto dell’atto da parte di quest’ultimo ricevuto e dal primo rogato, che può e deve, invero, limitarsi all’iscrizione materiale nel registro cui precede soltanto una verifica meramente formale per acquisire quegli elementi da riportare e far conoscere ai terzi.

Questione particolarmente affrontata da dottrina e giurisprudenza (Trib. Milano, sent. 22.9.2013, in www.giurisprudenzadelleimprese.it) è quella relativa ai controlli effettuati dalla Camera di Commercio sui bilanci depositati dalle imprese, non necessitando gli stessi di un controllo omologatorio del notaio [da ultimo tutte le modifiche societarie devolute ai poteri del commercialista a mezzo del conforme mandato dell’imprenditore all’utilizzo della sua chiave digitale].

Seppur inizialmente si pensava che l’attività dell’ufficio dovesse sostanziarsi in controlli nel merito sulle poste debitorie e creditorie2 o anche in un controllo qualificatorio o di tipicità3 è, in realtà, maggiormente condivisibile quella giurisprudenza più recente volta a qualificare il vaglio del funzionario come meramente formale, non avendo – spesso – il preposto alla CCIAA qualificata formazione in tema di diritto commerciale e societario.

Tale interpretazione si coordina con quella meno posta in discussione e relativa ad altri atti che confluiscono nel registro delle imprese come, ad esempio, la modifica della compagine sociale in relazione alla quale è sostenuto in modo unanime come il conservatore del registro sia “tenuto all’iscrizione della deliberazione di revoca e nomina di amministratore, previo esercizio del solo controllo di regolarità formale. Per regolarità formale si deve intendere il controllo sui soli requisiti formali dell’atto, salvo che l’illiceità dell’atto comprometta la riconducibilità al “tipo” giuridico di atto iscrivibile” (Trib. Napoli, ord. 27.6.2013 in Notariato, 2013, 5, 504 nota di Ranucci).
Il Conservatore non può entrare nel merito delle vicende societarie. La delibera dev’essere considerata come validamente assunta finché non interviene l’eventuale revoca in via giudiziale o stragiudiziale e, di conseguenza, l’atto va sempre iscritto, a meno che non vi siano ulteriori motivi ostativi di carattere puramente formale. Tali sono quelli che attengono alla competenza dell’ufficio interpellato, alla provenienza e certezza giuridica delle sottoscrizioni, alla riconducibilità dell’atto iscrivendo al tipo legale ed, ancora, alla legittimazione alla presentazione dell’istanza di iscrizione (si veda Trib. Verona, sent. 28.9.2009, in www.ilcaso.it).

4. I profili di carattere penale. Così delineati la natura giuridica del Registro delle Imprese ed i compiti cui i funzionari della Camera di Commercio sono, relativamente ad esso, chiamati, occorre far luce sull’aspetto che più incide sulla (eventuale) penale rilevanza della condotta del Pubblico Ufficiale preposto alle incombenze di registrazione in capo alla Camera di Commercio: la natura giuridica dell’atto oggetto di registrazione.

Stabilito dunque che il funzionario della Camera di Commercio, pur rivestendo in tutto la qualità di pubblico ufficiale ex art. 357 c.p., nell’ambito della propria attività connessa alla tenuta del registro delle imprese, si limita a certificare esclusivamente il verificarsi del deposito, senza in alcun modo entrare nel merito delle informazioni di cui all’atto presentato dalla società, si dovrà ora accertare la natura dell’atto così formulato e delle, eventuali, conseguenze penali che susseguano alla sua falsità.

Come noto, tutte le fattispecie di falso penalmente rilevanti che il nostro codice penale pone in capo sia al pubblico ufficiale che al privato in relazione ad un atto pubblico (artt. 476 e ss. c.p.) richiedono, per la definizione del loro contenuto precettivo, la connessione con una norma ulteriore, pur anche di carattere extrapenale, che conferisca attitudine probatoria all’atto nel cui si immette la dichiarazione inveritiera. In altre parole, perché si contesti il falso (materiale in relazione alla genuinità o ideologico in relazione alla veridicità) nell’atto pubblico deve esservi norma posta a previsione dell’obbligo, per il dichiarante, di attenersi alla verità (Cass. SS. UU., sent. 17.2.1999 in Lucarotti, Rv. 212782; Cass. sez. V, sent. 4.12.2007, in Bonventre, Rv. 239110).

Nel caso in esame non si evince alcuna norma che conferisca l’attitudine su menzionata agli atti emessi dal funzionario della Camera di Commercio, ma l’unica valenza dell’attività posta in essere dallo stesso si risolve in una mera funzione pubblicitaria, che si sostanzia nel rendere conoscibili ai terzi le vicende e le modifiche riguardanti le imprese.

A dirimere dubbi in merito a tale questione è intervenuta la Suprema Corte (Cass. Pen., sez. V, n. 1205 del 6.10.2014, dep. 13.1.2015), già citata precedentemente, in un caso di imputazione ex artt. 48 e 479 c.p. (falso ideologico in atto pubblico per induzione), ove veniva contestato il falso relativamente al deposito presso la Camera di Commercio di bilanci di esercizio di una società non formalmente approvati.

La Cassazione ha giustamente rilevato come il deposito del bilancio presso la Camera di Commercio non rivesta carattere costitutivo, né con esso si attesta la regolarità della procedura di approvazione: il funzionario della Camera di Commercio, una volta ricevuti il bilancio e i verbali di assemblea, si limita ad attestare l’avvenuto deposito degli stessi senza esprimere alcunché in merito alla regolarità del loro contenuto.

In sostanza, la decisione giurisprudenziale va correttamente ad indicare che dalla qualifica di pubblico ufficiale del soggetto che attesta l’avvenuto deposito non deriva necessariamente un atto pubblico, dovendo nel caso concreto soffermarsi sull’attività che il soggetto pone in essere. Nel caso richiamato nessuna norma integratrice del precetto penale è stata rinvenuta, né poteva farsi riferimento alla disciplina del codice civile in tema di bilanci ed assemblee di approvazione.

Inoltre, si può rilevare senza difficoltà come seppur il bilancio vada depositato obbligatoriamente ed abbia una rilevanza generale (non solo quindi nell’interesse dei soci e della società, ma anche delle altre imprese e dei terzi in generale), il mancato deposito dello stesso è sanzionato in via amministrativa ex art. 2630 c.c.. Sul versante penalistico è possibile richiamare le disposizioni sulle false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., ma tali norme esulano dall’oggetto dell’odierna analisi.

La Suprema Corte, in definitiva, afferma che “non è configurabile la fattispecie di cui all’art. 483 c.p. nel caso in cui siano depositati presso l’ufficio del registro delle imprese, tenuto dai funzionari della Camera di Commercio, bilanci di esercizio di una società non formalmente approvati, non essendovi alcuna norma che conferisca attitudine probatoria all’attività dei suddetti funzionari in ordine al contenuto degli atti di cui ricevono il deposito” e che dunque “correttamente i giudici di merito hanno ritenuto l’insussistenza del reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p., (falso ideologico in atto pubblico per induzione), come contestato nel capo di imputazione, assumendo che il deposito del bilancio presso la camera di commercio non ha carattere costitutivo, né con esso si attesta la regolarità della procedura di approvazione”.

Ancor più infondato, giunti a questo punto, sarebbe attribuire agli atti così catalogati una valenza fidefacente: se è pur vero, infatti, che, come giurisprudenza insegna, il funzionario della Camera di Commercio pone in essere un’attività meramente formale, ancor più difficile, risulterà configurare in capo allo stesso poteri certificatori tipici di taluni pubblici ufficiali, quali il notaio o il giudice. E solo l’essere incaricati di tali poteri comporta che l’atto posto in essere dal pubblico ufficiale sia vero fino a querela di falso.

La rilevanza di tale frangente è presto detta: il legislatore penale ha in più punti sottolineato la gravità del falso che ricada su di un atto fidefacente, prevedendo alcune aggravanti speciali (art. 476 co. II c.p.; art. 478 co. II c.p.) e, conseguenti, severi aggravamenti di pena, qualora la falsità materiale o ideologica non concerna un semplice atto pubblico bensì uno che faccia fede fino a querela di falso.

È evidente che non tutti gli atti emessi dal pubblico ufficiale possano essere considerati fidefacenti, con conseguente impossibilità di applicare la fattispecie prevista al comma I.
Tale occorrenza è ben evidenziata da una sentenza del Tribunale di Messina (sez. II, 11.7.2005), ove veniva esclusa proprio la configurabilità dell’art. 476 c.p. capoverso. Si riporta di seguito uno stralcio della sentenza da cui emerge perfettamente il distinguo in esame:

“Va detto che nella generalità degli atti pubblici, accanto ad un eventuale contenuto dispositivo, vi è normalmente l’attestazione, anche implicita, di una situazione di fatta percepita o constatata dal pubblico ufficiale. Ed invero per definizione, a norma degli art. 2699 e 2700 c.c., l’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede e lo stesso fa piena prova, fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. È dunque evidente che la distinzione tra atti pubblici fidefacenti e atti non facenti fede fino a querela di falso, ai fini dell’aggravante in questione, non può essere individuata sulla base del contenuto, altrimenti praticamente tutti gli atti pubblici finirebbero col rientrare in tale categoria e l’ipotesi base della norma non avrebbe pressoché alcun ambito di applicazione. Ai fini della distinzione di tali atti, invece, deve essere valorizzata la destinazione degli stessi, nel senso che ciò che li caratterizza deve essere individuato non solo nell’attestazione di fatti appartenenti all’attività del pubblico ufficiale o caduti sotto la sua percezione, bensì nella loro originaria destinazione alla prova, cioè nel fatto che gli stessi siano precostituiti a garanzia della pubblica fede, e redatti, da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di una speciale funzione certificatrice, diretta, per legge, alla prova di fatti che lo stesso funzionario redigente riferisce come visti, uditi o compiuti direttamente da lui, quale può essere, per esempio, il rogito notarile o il verbale di udienza, atti, cioè, destinati per loro stessa natura, in via principale o esclusiva, alla rappresentazione di fatti ed alla prova dei medesimi (cfr. Cass. V, 9/2/83, 2837; Cass. V, 21/4/1989; Cass. VI, 12/12/89, 10414/90)”.

Può residualmente configurarsi l’ipotesi di falso ex art. 480 c.p., cioè la falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o in autorizzazioni amministrative?

Per rispondere a tale domanda vanno individuati gli elementi distintivi dell’atto pubblico e del certificato amministrativo, i quali vengono rinvenuti non nella valenza probatoria, ma nell’appartenenza o meno del fatto attestato alla sfera di attività del pubblico ufficiale: l’atto pubblico attesta un fatto al quale il pubblico ufficiale ha contribuito in via immediata, tramite la redazione dell’atto o la propria presenza al momento dell’avvenimento (Cass. Pen. 17.11.1982, n. 676), il certificato ha una valenza meramente dichiarativa o certificativa del contenuto di atti pubblici preesistenti o comunque dallo stesso non direttamente documentati (Cass. Pen. 22.10.1981, n. 1034).

In sostanza, nell’atto pubblico il pubblico ufficiale esercita le proprie funzioni costitutive di diritti per la P.A. e per i privati, mentre il certificato dichiara attestazioni preesistenti in altro atto pubblico. La giurisprudenza ha quindi distinto l’attività di cui all’art. 476 c.p., rilevante ai fini della formazione di un atto pubblico vero e proprio, da quella di cui all’art. 480 c.p., ove il certificato si caratterizza per la mera ricezione di un atto pubblico già precostituito (Cass. Pen. 9.10.1981, n. 701).

L’attività del funzionario della Camera di Commercio, sulla base della disamina sopra svolta, concretizzandosi in mera ricezione di atti, potrebbe tutt’al più rientrare nella fattispecie di cui all’art. 480 c.p., con un trattamento sanzionatorio evidentemente più favorevole di quello previsto alle fattispecie che lo precedono.

5. Conclusioni. Orbene, la speciale funzione certificatrice diretta alla prova di fatti che il funzionario riferisce come visti, uditi o dallo stesso direttamente compiuti, possono, così come indicato dalla giurisprudenza, rinvenirsi in capo al notaio o al giudice che sottoscrive il verbale d’udienza, ma non certo in capo al funzionario della Camera di Commercio.

Poiché la sua funzione meramente recettiva priva della connotazione di atto pubblico ciò che egli medesimo è chiamato a riportare nel registro delle imprese, non è ipotizzabile il falso in capo al funzionario della Camera di Commercio; né, tanto meno, nella dichiarazione, eventualmente inveritiera, che confluisca nello stesso registro potrà ravvisarsi quella valenza probatoria che la renda vera fino a querela di falso, così rendendo ancor più remota la configurazione di un’ipotesi aggravata nei suoi confronti.

Residua l’eventuale configurabilità del falso in certificati o autorizzazioni amministrative per l’attività meramente recettiva di atti pubblici preesistenti, i quali sfuggono, come si è detto, dalla sfera di attività del funzionario della Camera di Commercio.

1 P. Cendon, Commentario al codice civile, Milano, 2009, pag. 432.

2 Si veda V. Sanna, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, in Studi di diritto dell’impresa, Torino 2013, p. 155 nota 111 e pp. 157 e ss.;

3 E. Riva Crugnola, Liquidazione, cancellazione, estinzione delle società di capitali: la posizione dei creditori sociali, casi giurisprudenziali e questioni aperte in Le Società, n. 11/2015, pp. 1246 e ss..

Ranieri RazzanteAvvocato in Roma, Docente di Legislazione Antiriclaggio nell’Università di Bologna
Francesco UrbinatiDottore in Giurisprudenza e collaboratore alla Cattedra di Diritto Processuale Penale presso l’Università di Perugia

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