Gli stereotipi della Criminologia occidentale

Di Andrea Baiguera Altieri -
  1. La ratio della diversità.

Da circa due secoli, la Criminologia europea e nord-americana distingue, erroneamente, tra “fattori biologici” e “fattori sociali”. Giustamente, Ponti & Merzagora (2008)[1] affermano che “la distinzione [tra società e tare biologiche] ha un’utilità sistematica e didattica –se può essere didatticamente utile un errore-, ma, probabilmente, ha una maggiore utilità politica. Se attribuiamo la causa del crimine a fattori biologici […] crediamo di non poterci fare niente e che non è colpa di nessuno. Se attribuiamo, invece, la causa del crimine ad aspetti sociali, viene il dubbio di potere, o, addirittura, di dovere cambiare qualche cosa nell’assetto sociale, il che sembra dipendere maggiormente da noi”.

Assai esplicito ed anti-biologista è pure Taguieff (1994)[2], a parere del quale “dall’ osservazione di eventuali differenze fisiche non si possono stabilire differenze e gerarchie psicologiche, intellettive, comportamentali, etiche. In pratica, l’ideologia della provenienza è definibile come la dottrina secondo la quale il comportamento di un individuo è determinato dai caratteri ereditari che discendono da ceppi razziali separati, dotati di attributi diversi e dei quali si ritiene generalmente che essi intrattengano tra di loro rapporti di superiorità o di inferiorità”. La ratio della “razza” nega l’esistenza di una sola specie umana. Molto acutamente, Defanti (2012)[3] asserisce che, sotto il profilo della medicina forense, “il concetto di razza, inteso come un raggruppamento di individui con caratteri somatici immediatamente percepibili, non è sostenibile alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Vi sono differenze genetiche molto più consistenti di quelle riconoscibili nei tratti somatici, il che può comportare o una posizione di cosiddetto racial skepticism (le razze non esistono) o di racial constructionism, secondo cui esse non sono altro che costrutti sociali”. Anche Cornelli (à paraitre)[4], riprendendo Taguieff (ibidem) afferma che la nozione di “razza” va utilizzata con molta prudenza, oppure essa va radicalmente espunta dal lessico della Criminologia contemporanea.

La fondata preoccupazione per un eventuale ripristino del razzismo criminologico tange pure Mauro (2018)[5], in tanto in quanto “sta tornando pure questo, in un arretramento continuo di civiltà. Il colore della pelle dell’individuo, lo stereotipo impronunciabile del colore della pelle tornano immediatamente ad essere un’ossessione, attraversando i secoli e caricandosi di significati impropri, che la scienza ha smontato nei decenni ad uno ad uno”. Tuttavia, negli Anni Duemila, Alietti & Padovan & Vercelli (2014)[6] denunziano l’esistenza di un prevalente “razzismo senza razza, o su base culturalista”, nel quale le tradizioni culturali provocano discriminazioni ancora più forti di quelle fondate su fattori di matrice biologica. Tale razzismo su base culturale è ben spiegato da Todorov (2001)[7], giacché “all’ineguaglianza biologica tra le razze è stata sostituita l’assolutizzazione della differenza tra culture, peraltro difficile da porsi, visto che nel mondo si contano seimila gruppi linguistici e cinquemila gruppi etnici, che non corrispondono né a gruppi religiosi né, tantomeno, a tipi fisici”. Anche Taguieff parla di etno-centrismo o di etno-fobia, poiché “oggi è sempre più screditata, anche scientificamente, l’idea che vi siano razze pure [e] la distinzione tra noi e loro assume le forme dell’esclusione e della paura dell’altro, in quanto portatore di differenze [culturali, non biologiche, ndr]”. Con non poco vigore filo-democratico, Jankelevitch (1994)[8] dichiara che, a causa del nuovo razzismo intellettuale, “ci sono uomini che vengono ufficialmente perseguitati non per ciò che fanno, ma per ciò che sono”. L’italiofono Berizzi (2018)[9] scrive che “non è il caso di abbassare la guardia; episodi anche molto violenti sono tutt’altro che sporadici e si infittiscono”. A tal proposito, Beller (2017)[10] osserva che “dopo la caduta del muro di Berlino, proprio nelle zone dell’Europa centrale, che erano state al di là della cortina di ferro, vi è stato un riemergere dell’antisemitismo, in una mescolanza di nazionalismo integralista e autoritarismo conservatore. Movimenti che si fregiano di parole d’ordine xenofobe e antisemite si ritrovano in Ungheria, in Grecia, persino in Giappone, e sono tutti Paesi in cui la presenza ebraica è scarsissima, tanto da far parlare di antisemitismo senza ebrei (Ingrao, 2012)[11]. Quel che importa non è tanto l’identità dell’obiettivo, quanto che si tratti di altri rispetto a noi […]. L’antisemitismo è il termometro del livello di intolleranza raggiunto da una società”. La formazione di una discreta cultura giovanile mette al riparo dall’etno-fobia, ma esistono anche movimenti di pensiero razzisti che hanno rinvenuto e rinvengono cittadinanza in una certa letteratura criminologica deviata e deviante. Esiste il pericolo del ritorno di una certa Criminologia fondata sulla paura dell’altro, anche se siffatta alterità non ha più basi fisio-biologiche (Israel, 2010)[12].

  1. Le Teorie lombrosiane.

Nella Letteratura criminologica, Lombroso ha avuto alterne fortune. Da un iniziale entusiasmo della comunità scientifica, si è passati ad una generale ripugnanza, per poi riscoprire talune opinioni lombrosiane vicine alle correnti di pensiero dogmaticamente dominate dalle Neuroscienze degli Anni Duemila. Il più grande nemico di Lombroso fu senz’altro Padre Agostino Gemelli, assai consapevole dei gravi rischi cui conduce l’eugenetica. Secondo il Dottrinario in questione, l’“uomo delinquente” altro non sarebbe che un individuo biologicamente sottosviluppato, in cui gli istinti non hanno alcun freno. A tal proposito, Lombroso aveva fondato la “Teoria dell’atavismo”, secondo la quale il criminale è un soggetto “ipoevoluto”, in preda a continue “scariche di istinti” prive di inibizioni. Lombroso (1910)[13] paragonava il cervello dei condannati a quello “degli animali inferiori, specie i rosicchianti […] [perché il delinquente] è un essere riproducente gli istinti feroci dell’umanità primitiva e degli animali inferiori”. Malaugurevolmente, negli Anni Duemila, non è mancata una psichiatria tracotante, onnipotente ed onnipresente che ha rivalutato Lombroso ed il suo inquietante modo di percepire il reo alla stregua di un vero e proprio “animale inferiore”. P.e., Gatti & Verde (2004)[14] hanno rimarcato che “oggi lo si è un po’ rivalutato. Moderne ricerche effettuate con tecniche di neuroimaging hanno riscontrato un’associazione fra comportamento antisociale violento e anomalie fisiche espressione di imperfetto sviluppo neuronale, collocabile verso il terzo mese di gravidanza. Fra queste anomalie ne ritroviamo alcune già citate da Lombroso, come quelle relative ai lobi delle orecchie, l’asimmetria facciale e la minore conducibilità elettrica a livello epidermico. Questo è uno degli esempi possibili; di lui è stato affermato che avesse anticipato di più di un secolo risultati attuali e che vengono ricondotti a teorizzazioni quali quella basata sull’immaturità dello sviluppo del sistema nervoso centrale”.

Chi redige contesta aspramente la rivalutazione positiva tentata da Gatti & Verde (ibidem). Presentare Lombroso come un illuminato precursore del neuroimaging significa aprire la strada alle teorie ad eziologia biologica della criminalità, le medesime che hanno recato alla sterilizzazione di massa delle donne rom. Parlare di presunte anomalie criminogene nel feto significa incutere timori immotivati. Le diagnosi prenatali non possono e non debbono recare ad una nebulosa previsione di futuri comportamenti criminosi. L’“uomo delinquente”, semmai, patisce condizionamenti sociali ed ambientali, in tanto in quanto il reo non è per nulla paragonabile ad un “animale inferiore” dominato dagli istinti. Il condannato mantiene intatta la propria dignità umana, come sancito dal comma 3 Art. 27 Cost. e dall’Art. 3 CEDU. P.e., nella Dottrina lombrosiana, la donna, soprattutto se dedita al meretricio, è considerata membro del “mondo animale […] con tratti immodificabili di animale culturale” (Lombroso & Ferrero 1893)[15]. Oppure ancora, in Lombroso & Ferrero (1927)[16] si legge che “la donna normale –intendendosi quella non prostituta e non criminale, quella naturalmente ed organicamente monogama e frigida– è meno intelligente del maschio, più ottusa nella sensibilità degli organi, meno creativa dell’uomo, con minore sensibilità morale ed ancor più deficiente sentimento della giustizia; in compenso, più dissimulatrice, più crudele, più suggestibile, più dipendente, una innocua semi-criminale, anche quando è onesta, e, per tutta la vita, una bambina grande”. L’odio di Lombroso, in Lombroso & Ferrero (1893), non ha limiti nemmeno per “le donne di genio, [che] presentano frequentemente caratteri maschili, onde il genio potrebbe spiegarsi nella donna […] per una confusione di caratteri sessuali secondari”. Anche Frigessi & Giacanelli & Mangoni (1995)[17], non senza ironia e compatimento, sottolineano che, per Lombroso e Ferrero, “l’inferiorità muliebre trova una spiegazione nella selezione naturale. […] [E’ corretto- dice Lombroso-] questo ribrezzo che mostriamo noi, almeno in Europa, per la donna di vero ingegno […] [C’è bisogno] di una selezione alla rovescia”.

Tuttavia, Lombroso eccelleva in tema di apologia medico-forense. Come osservato da Martucci (à paraitre)[18] le follie xenofobe di tale Autore sono talvolta mitigate, in tanto in quanto “nel pensiero lombrosiano, la gerarchia, la piramide dei popoli non sarebbe così rigida ed immutabile, predestinata e definitiva, perché essa può essere scompaginata dai fattori evolutivi”. Dunque, esiste una parte dell’eugenetica non contraria, o, comunque, passiva nei confronti degli inevitabili “incroci” razziali. Per il resto, Lombroso (1871)[19] non manca di provocare vigorose risate quando sostiene che “all’uomo di colore deve somigliarsi […] l’uomo primitivo, se è vero che le specie zoologiche superiori si formano dal perfezionamento delle inferiori. Dal negro dovette derivare il giallo ed il bianco […]. Si tratta di sapere se noi bianchi, che torreggiamo orgogliosi sulla vetta della civiltà, dovremo un giorno chinare la fronte dinanzi al muso prognato del negro ed alla gialla e terrea faccia del mongolo”. Come si può notare, in cento anni è mutato lo stile linguistico, ma, tutt’oggi, perdurano pregiudizi anti-cristiani, nonché anti-giuridici, nei confronti dei consociati recanti la pelle nera o altre caratteristiche somatiche non europee. Per di più, come notato da Villa (1985)[20] l’equazione “negro=criminale” era spontanea, in tanto in quanto, “per Lombroso, molti dei caratteri che presentano gli uomini selvaggi e le razze diverse tra loro ricorrono anche spessissimo nei delinquenti abituali”. Analogamente, l’eugenetista Ferri (1929)[21] asseriva che “i caratteri del delinquente tipico sono anormali per noi uomini civili, ma comuni e normali nelle razze inferiori”. Addirittura, Curcio (2014)[22] ricorda i pregiudizi di Lombroso nei confronti dei Meridionali italiani, sotto il profilo “razziale, genetico e psicologico […]. Sicché, dove predominavano i discendenti dei Berberi e dei Semiti, prevalgono i delitti di sangue; dove i discendenti dei Greci, le frodi”.

Come prevedibile, l’oltranzismo misantropo di Lombroso (1876)[23] non risparmiava nemmeno i rom, definiti come “immagine vivente di una razza intera di delinquenti, che riproducono tutte le passioni ed i vizi […]. Sono spergiuri anche tra di loro; ingrati, vili e, nello stesso tempo, crudeli […]. Sono, appunto, come i delinquenti, vanitosi […] feroci, assassinano senza rimorso, a scopo di lucro; si sospettarono, anni or sono, di cannibalismo”. L’accusa di cannibalismo era frequente in Lombroso, secondo il quale l’“uomo atavico”, specialmente se epilettico, abbaia e si ciba di carne umana.

Non potevano mancare attacchi agli omosessuali, che, come riportato, in sintesi, da Granieri & Fazio (2012)[24] vengono tacciati di abitualità nel delinquere a motivo della loro “frivolezza, egoismo, gelosia, falsità, tendenza al mendacio ed al pettegolezzo”. La delinquenza, nell’omosessuale, secondo l’ Autore qui in parola, era evidente da caratteristiche fisiognomiche riportate e catalogate in una sua pubblicazione francofona del 1906.

Anticipando il nazismo, Lombroso postula una tendenza a delinquere persino nei disabili, definiti come affetti da una più o meno marcata “regressione a fasi evolutive anteriori”. In tal caso, è palese l’influenza della Teoria della degenerazione di Darwin e di Morel.. Anche Prichard parlava dei disabili alla stregua di individui inferiori affetti da una pericolosa “follia morale”. Tuttavia, secondo Villa (ibidem), l’odio antisociale di Lombroso si scarica soprattutto sugli epilettici, in tanto in quanto, a parere di tale aberrante criminologo, “è certo che la delinquenza nata e la pazzia morale non sono che forme speciali di epilessia”.

Lombroso (1889)[25] si manifesta spietato verso gli epilettici, giungendo al punto di asserire che “e così si spiega l’enorme frequenza di veri epilettici tra i criminali, che già si calcolava prima almeno il decuplo del normale, ma che, con uno studio più diligente, arriva fino al centuplo”. È pleonastico ricordare che, una quarantina d’anni dopo, la follia dei gerarchi nazionalsocialisti uccise decine e decine di migliaia di epilettici nelle camere a gas. Lombroso non manca di coniugare l’epilessia al genio, tranne nella fattispecie delle donne “geniali”, rare a causa della scarsa ricorrenza dell’epilessia presso la popolazione femminile. Lombroso è giunto al punto di accusare Dante Alighieri di una sospetta epilessia a causa della narrazione di cadute improvvise nella Divina Commedia. Ciò costituisce la riprova della quasi totale assenza di un metodo scientifico nelle strampalate osservazioni di questo bizzarro medico forense. Ognimmodo, l’equazione di Lombroso tra crimine violento ed epilessia è priva di un serio fondamento, soprattutto a causa della mancanza, tra Ottocento e primi del Novecento, di strumentazioni diagnostiche idonee. Tale è pure il grossolano errore di Maudsley (1975)[26], secondo cui “non è da mettersi in dubbio che la mania omicida non sia, talora, che un’epilessia larvata […] Un’impulsione omicida irresistibile può irrompere in una persona affetta da nevrosi epilettica, anche senza un vero attacco di epilessia […]. Questa esplosione può precedere immediatamente, o anche sostituire realmente un attacco di epilessia”. Altrettanto falsamente, Falret scriveva, come riferito da Villa (ibidem), che “gli attacchi di mania con furore, che succedono o si alternano con gli attacchi epilettici, portano questi malati agli atti più violenti, sovente ai più pericolosi”. Trattasi di asserti pseudo-medici completamente smentiti dalla psico-patologia contemporanea. L’epilessia non reca alcuna propensione naturale all’omicidio volontario.

Quanto, poi, agli Ebrei, Lombroso (1894)[27] ha mantenuto un atteggiamento ambiguo, giungendo ad affermare che l’uomo ebreo ha un cranio “ariano” che lo distingue dai delinquenti appartenenti ad altri ceppi semiti. In effetti, nel predetto Studio del 1894, si parla di “numerose mistioni” etniche che avrebbero attenuato le tendenze delinquenziali degli Ebrei antichi. Siffatte Teorie sono state riprese dal medico tedesco Virchow, il quale, come poi rimarcato da Defanti (2012)[28], tentò di sfatare il mito di una razza ebraica inferiore, ma si trattava, come nel precedente caso di Lombroso (1894), di dimostrazioni fisiognomiche degne di un romanzo comico, più che criminologico. Tuttavia, secondo Frigessi & Giacanelli & Mangoni (ibidem), per Lombroso la razza ebraica si era via via “purificata” o “evoluta”, dopo la Diaspora, incrociandosi con altre etnie e, quindi “montando a gradi superiori dall’origine sua”. Lombroso, unitamente a Darwin, non nega la possibilità di una c.d. “evoluzione della razza”, soprattutto nella frequente fattispecie di grandi migrazioni storiche, che recano a commistioni inevitabili. Questo, probabilmente, è uno dei pochi profili positivi delle orribili Teorie biologiche di Lombroso.

  1. I discepoli di Lombroso e l’inaspettato Lombroso democratico-sociale

Le bizzarrie visionarie e crudeli di Lombroso non giungono, tuttavia, al punto di negare l’esistenza di cc.dd. “svantaggi sociali” che vengono ad assommarsi e a peggiorare le tare ereditarie. P.e., Lombroso (1889) riconosce che la “donna delinquente” patisce condizioni sociali ingiuste, giacché “molte delle infanticide delinquono per un sentimento d’onore esagerato, di cui è causa l’infamia che annette la società nostra alla maternità illegittima, mentre non rende obbligatoria al maschio la riparazione, né dà diritto alla ricerca della paternità, non lasciando alla femmina altra alternativa che cancellare le tracce di un’immensa gioia che per lei sola si converte in un’immensa sventura, o restare per sempre infamata”.

Dunque, in Lombroso (1889) non è assente l’analisi del fattore sociale criminogeno. Addirittura, come riportato in Frigessi & Giacanelli & Mangoni (ibidem), non manca, nella Criminologia lombrosiana, una certa solidarietà femminista per la donna, poiché “con coercizioni ridicole, crudeli e prepotenti, […] abbiamo contribuito a mantenere e, quel che è più triste, ad accrescere la inferiorità sua, per sfruttarla a nostro vantaggio, anche quando ipocritamente coprivamo la docile vittima di elogi a cui non credevamo, e che, piuttosto di un ornamento, erano una preparazione a nuovi sacrifici”. Lombroso (1889) si manifesta consapevole di quello che Garland chiamerebbe “social control”. Non tutto è lasciato ad un determinismo privo di morale e di senso democratico.

Pure nei confronti degli abitanti del Sud-Italia, in Lombroso, la ricerca di difetti fisiognomici non era totalmente disgiunta dalla denunzia delle ingiustizie sociali. In effetti, Gibson (2004)[29] rileva che “aveva screditato le popolazioni meridionali, ma poi individuò nel latifondo e nel potere di stampo feudale dei grandi proprietari terrieri le cause dell’arretratezza dei contadini del Sud”.

Anche Ferri, principale allievo delle Teorie lombrosiane, ipotizzava una “multicausalità” del crimine, la cui genesi discenderebbe sì dalle tare razziali, ma anche da mancate occasioni di “emancipazione sociale”. Infatti, Ferri (1929, cit.) osservava che “per noi, il delitto non è un fenomeno esclusivamente biologico, né esclusivamente un prodotto dell’ambiente fisico o sociale […]. La razza è la causa della superiore o inferiore propensione all’omicidio, ma con la futura vittoria del socialismo, la maggior parte dei reati scomparirà”.

La critica criminologica degli Anni Duemila ha scoperto un Lombroso che credeva nella “multi-fattorialità” del crimine, pur se, malaugurevolmente, le deficienze psico-fisiche rimanevano predominanti nella nascita delle carriere delinquenziali. Anzi, Lombroso (1902)[30] giunge financo ad abbozzare un modello di “white collar crime”, in tanto in quanto censura la corruzione “dello Stato di vera oligarchia avvocatesca in cui si trovano le società europee, e specialmente le nostre”. In buona sostanza, Lombroso (1902) non è indulgente con il crimine dei colletti bianchi, fatto di “professionisti che mentono scientemente, impiegati che chiudono un occhio per favoritismo, uomini di governo che abusano del potere e della giustizia”. È entusiasmante scoprire un Lombroso che non si concentra solo sulle psicopatologie ereditarie, ma anche su fattori criminogeni legati a variabili socio-economiche.

Martucci (2002)[31] ha osservato che “[Lombroso] si interessò praticamente a tutto quello che riguardava il crimine […] A cominciare da quelli che, decenni dopo, i criminologi definiscono i delitti dei colletti bianchi, cioè la criminalità economica. Quasi tutti, anche in Italia, ripetono che il primo ad occuparsi di questo tipo di delitti fu Edwin Sutherland negli Anni Quaranta del Novecento. In realtà, tra i molteplici interessi di Lombroso, e nell’immensa mole dei suoi scritti, non mancano riferimenti alla delinquenza economica. L’occasione che promosse l’interesse di costui per l’argomento furono gli scandali finanziari che, alla fine dell’Ottocento, scossero non solo il mondo economico, ma anche quello politico italiano”. Come prevedibile, non era ancora in uso l’espressione tecnica “white collar crime”, coniata da Sutherland una cinquantina d’ anni più tardi, ma, a parere di chi scrive, sono egualmente interessanti i lemmi “brigantaggio bancario”, impiegati, per la prima volta, dal lombrosiano Niceforo (1898)[32]. Certamente, ognimmodo, il criminale economico, ovverosia il “brigante bancario” non recava per nulla le presunte tare biopsichiche dell’“uomo delinquente” nella tipica accezione genetica lombrosiana. In effetti, in maniera esplicita, Lombroso & Ferrero (1893) debbono apertamente riconoscere che i percettori di tangenti “sono soggetti che hanno i caratteri dell’uomo comune e che non presentano particolarità somatiche che li distinguano”. Pertanto, Lombroso e Ferrero giungono alla conclusione che i rei di delitti contro la PA vanno definiti come “criminaloidi”, ovverosia delinquenti minori non affetti da deficienze somatiche evidenti.

Probabilmente, il difetto del lombrosianesimo consta nel confondere la “criminalità” con la “aggressività”. Lombroso cade in aporia di fronte ai delitti non aggressivi, per i quali non vale la retrograda e volgare ricerca di anomalie nel cranio e nei tratti somatici. Uno dei più gravi errori di Lombroso, Ferrero e Ferri è consistito nell’ipostatizzare la delinquenza caratterizzata dalla vis physica, allorquando, viceversa, esistono forme di criminalità ben più diffuse e prive di connotati violenti. È e deve rimanere inaccettabile l’immagine del criminale cavernicolo, mezzo disabile e perennemente propenso all’omicidio volontario. Anzi, l’eventuale disabilità non è per nulla un fattore criminogeno. All’opposto, non trova spiegazione il white collar crime. Tuttavia, a parere di chi commenta, è molto positiva la lungimiranza di Lombroso in tema di colletti bianchi, poiché rivela una sensibilità sociologica che, almeno per alcuni istanti, fa dimenticare la trita e ritrita tesi delle tare ereditarie. Lombroso (1889) manifesta la propria insospettabile modernità anche nell’affermare che “in carcere non giungono con eguale facilità tutti coloro che offendono le leggi sociali […] Nella lotta secolare di classe, la giustizia è adoperata dal ricco come strumento di potere e di dominazione contro il povero, che è già a priori condannato e condannabile solo come tale”. Certamente, comunque, uno degli errori di Lombroso, fors’anche involontario, è stato quello di dividere, in maniera apodittica e dicotomica, la società dei delinquenti e dei detenuti da quella degli uomini rispettabili. A tal proposito, Goring (1913)[33] ha sfatato tale mito lombrosiano, riscontrando in un gruppo di liceali-modello inglesi i difetti della fisionomia attribuiti da Lombroso all’ uomo delinquente. Volente o nolente, Lombroso ha giustificato il predominio della borghesia post-unitaria italiana, soprattutto nelle disagiate zone del Meridione. Attribuire la criminogenesi alla razza ed alla disabilità induce a reputare inutili o, quantomeno, superflue le politiche di Welfare e di solidarietà sociale.

[1] Ponti & Merzagora, Compendio di Criminologia, Quinta Edizione, Raffaello Cortina, Milano, 2008.

[2] Taguieff, La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna, 1994.

[3] Defanti, Eugenetica: un tabù contemporaneo. Storia di un’idea controversa. Codice Edizioni, Torino, 2012.

[4] Cornelli, Pregiudizi, stereotipi e potere. Alle origini delle pratiche di disumanizzazione e delle politiche dell’odio, in

Rassegna italiana di Criminologia, à paraitre.

[5] Mauro, L’ uomo bianco, Feltrinelli, Milano, 2018.

[6] Alietti & Padovan & Vercelli, Antisemitismo, islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche nella

società italiana, Franco Angeli Editore, Milano, 2014.

[7] Torodov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano, 2001.

[8] Jankelevitch, in Taguieff, La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna, 1994.

[9] Berizzi, NazItalia. Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista, Baldini & Castoldi, Milano, 2018.

[10] Beller, L’ antisemitismo, Il Mulino, Bologna, 2017.

[11] Ingrao, Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS, Einaudi, Torino, 2012.

[12] Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Il Mulino, Bologna, 2010.

[13] Lombroso, Prefazione al libro della figlia, Gina Lombroso, La nuova scuola penale, in Archivio di psichiatria, scienze

penali ed antropologia criminale, fasc. 1-2, 1910.

[14] Gatti & Verde, Cesare Lombroso: una revisione critica, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXXIV, 2,

2004.

[15] Lombroso & Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Roux & C., Torino, 1893.

[16] Lombroso & Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Quinta edizione, Fratelli Bocca, Torino,

1927.

[17] Frigessi & Giacanelli & Mangoni, Cesare Lombroso, Delitto, Genio, Follia, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.

[18] Martucci, Il Bianco imperfetto. Da Cesare Lombroso al razzismo scientifico: una falsa parentela, in Rassegna italiana

di Criminologia, à paraitre.

[19] Lombroso, L’uomo bianco e l’uomo di colore, Sacchetto, Padova, 1871.

[20] Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Franco Angeli, Milano, 1985.

[21] Ferri, Sociologia criminale, Quinta Edizione, Tipografia Sociale Torinese, Torino, 1929.

[22] Curcio, Genealogia e metamorfosi del razzismo in Italia, in Alietti & Padovan & Vercelli, Antisemitismo, islamofobia

e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche nella società italiana, Franco Angeli, Milano, 2014.

[23] Lombroso, L’ uomo delinquente studiato in rapporto all’ antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, Hoepli, Milano, 1876.

[24] Granieri & Fazio, The Lombrosian prejudice in medicine. The case of Epilepsy, Epileptic psychosis, Epilepsy and aggressiveness, in Neurological Sciences, 33, 2012.

[25] Lombroso, L’ uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie, II Edizione, Fratelli Bocca, Torino, 1889.

[26] Maudsley, La responsabilità nelle malattie mentali, Dumolard, Milano, 1975.

[27] Lombroso, L’antisemitismo e le scienze moderne, Roux & C., Torino, 1894.

[28] Defanti, Richard Wagner, Genio e antisemitismo, Lindau, Torino, 2012.

[29] Gibson, Nati per il crimine. Cesare Lombroso e le origini della Criminologia biologica, Bruno Mondadori Editore,

Milano, 2004.

[30] Lombroso, Delitti vecchi e nuovi, Fratelli Bocca, Torino, 1902.

[31] Martucci, Le piaghe d’ Italia. I lombrosiani e i grandi crimini economici nell’ Europa di fine Ottocento, Franco

Angeli, Milano, 2002.

[32] Niceforo, L’Italia barbara contemporanea. Sandron, Palermo, 1898.

[33] Goring, The English Convict: A Statistical Study, HMSO, London, 1913.

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