Gli aspetti giuridici connessi all’uso dei droni

Di Pierpaolo Rivello -

Sommario: 1. Considerazioni generali. – 2. I droni nel codice della navigazione e in quello dell’ordinamento militare. –  3. Le fattispecie incriminatrici potenzialmente rilevanti.

  1. Considerazioni generali.

Si potrebbe affermare che tanti sono i problemi derivanti dall’impatto del diritto penale sull’utilizzo dei droni quante sono le stesse denominazioni di tali aeromobili, che vanno da quella di APR (aeromobile a pilotaggio remoto), che troviamo nel codice dell’ordinamento militare,  a SAPR (sistemi aeromobili a pilotaggio remoto), che compare nel Regolamento ENAC, a UAV (unmanned aerial vehicles), utilizzato nel mondo anglosassone,  a UAS (unmanned aircraft systems), parimenti rinvenibile  nei Paesi di lingua inglese, a RPAS (remotely piloted aircraft systems), presente in numerosi documenti dell’U.E.

A ben vedere, i droni non pongono problematiche diverse rispetto ai normali mezzi aerei qualora utilizzati contro gruppi di terroristi chiaramente identificati (personal strikes) o per colpire soggetti o gruppi nei cui confronti sussista un’elevata presunzione di appartenenza a gruppi terroristici (signature strikes).

In tal caso, come sottolineato in numerosi Report dell’O.N.U., si rientra nell’ambito della considerazione in base alla quale, ai sensi del diritto internazionale [1], deve ritenersi inammissibile un «intentional, premeditated and deliberate use of lethal force», al di fuori di situazioni di conflitto armato.

Infatti, in tempo di pace, il ricorso a droni, così come ad altri mezzi aerei o di diversa natura al fine di uccidere individui appartenenti a gruppi sospettati di terrorismo, potrebbe essere giustificata solo ai sensi del disposto dell’art. 51 della Carta dell’O.N.U., volto a garantire il diritto di autotutela individuale o collettiva.

Parimenti, in caso di formale conflitto tra Stati l’utilizzo dei droni in via di massima non pone, per quanto concerne la conformità rispetto allo ius ad bellum, delle problematiche differenti rispetto a quelle scaturenti dal ricorso al mezzo aereo.

Occorre anzi precisare che secondo una parte della dottrina, in taluni casi, non solo l’utilizzo dei droni deve essere considerato «preferibile» rispetto ad altri possibili mezzi di offesa, ma addirittura costituirebbe una lesione del diritto umanitario il ricorso a mezzi più generalizzati di distruzione laddove fosse possibile avvalersi di uno strumento assai più preciso e mirato quale quello offerto dai droni [2].

Occorre al riguardo tener conto in particolare di tre norme contenute nel Primo Protocollo Aggiuntivo dell‘8 giugno 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949 [3]. In base all’art. 48, concernente il c.d. principio di distinzione, allo scopo di assicurare il rispetto e la protezione della popolazione civile e dei beni di carattere civile, le parti in conflitto sono tenute ad utilizzare ogni mezzo al fine di distinguere fra la popolazione civile ed i combattenti, nonchè fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari, onde risparmiare la popolazione ed i beni civili, dirigendo le operazioni militari unicamente nei confronti degli obiettivi militari.

A sua volta, l’art. 51 del Primo Protocollo Addizionale, volto a delineare il principio di proporzionalità, stabilisce che, ai fini della protezione delle popolazioni civili, vieta nelle operazioni di guerra gli attacchi indiscriminati, i “bombardamenti a tappeto” e quelli che determinano molto probabilmente dei danni collaterali.

Infine, il successivo art. 57 (precauzione negli attacchi) così prevede, tra l’altro: ‹‹1. Le operazioni militari saranno condotte curando costantemente di risparmiare la popolazione civile, le persone civili e i beni di carattere civile. 2. Per quanto riguardagli attacchi,  saranno prese le seguenti precauzioni: a) coloro che preparano o decidono un attacco dovranno i) fare tutto ciò che è praticamente possibile per accertare che gli obiettivi da attaccare non sono persone civili, né beni di carattere civile, e non  beneficiano di una protezione speciale, ma che si tratta di obiettivi militari … e che le disposizioni del presente Protocollo non ne vietano l’attacco; ii) prendere tutte le precauzioni praticamente possibili nella scelta dei mezzi e metodi di attacco, allo scopo di evitare o almeno di ridurre al minimo il numero di morti e di feriti fra la popolazione civile, nonché i danni ai beni di carattere civile che potrebbero essere incidentalmente causati; iii) astenersi dal lanciare un attacco da cui ci si può attendere che provochi incidentalmente morti e feriti fra la popolazione civile, danni ai beni civili..››.

È stato conseguentemente affermato che se uno Stato è in grado di utilizzare una tecnologia atta a ridurre i danni superflui derivanti da un conflitto armato, in tal caso è obbligato, proprio in base al principio di precauzione previsto dal diritto internazionale umanitario, ad impiegare quella tecnologia, e che conseguentemente, poiché la strumentazione  dei droni è potenzialmente idonea a contenere i danni superflui provocati dagli attacchi aerei [4], qualora una Nazione abbia degli APR sia obbliata ad  impiegarli a fini offensivi, in quanto solo in tal modo può dirsi rispettato il principio di precauzione [5].

  1. I droni nel codice della navigazione e in quello dell’ordinamento militare

L’art. 743 c. nav., nella sua versione novellata, ricomprende nella dizione di aeromobili anche i mezzi aerei a pilotaggio remoto. Detta norma così dispone: «Per aeromobile si intende ogni macchina destinata al trasporto per aria di persone o cose. Sono, altresì, considerati aeromobili i mezzi aerei a pilotaggio remoto, definiti come tali dalle leggi speciali, dai regolamenti dell’ENAC e, per quelli militari, dai decreti del Ministero della difesa».

Ai sensi dell’art. 246 del d. lgs. n. 66 del 2010 (Codice dell’ordinamento militare) un APR è un mezzo aereo pilotato da un equipaggio che opera da una stazione remota di comando e di controllo e che può essere posizionato a terra o sul mare, a bordo di unità navali.

Il successivo art. 247 autorizza le Forze Armate italiane ad impiegare gli APR al fine dello svolgimento di attività operative ed addestrative dirette alla difesa ed alla sicurezza nazionale, e prevede, ai commi 2 e 3, che tale impiego avvenga nell’ambito delle c.d. “aree segregate”, e cioè all’interno di spazi aerei determinati e con le limitazioni stabilite in un apposito documento tecnico-operativo (DTO) elaborato dall’Amministrazione militare, sulla base delle indicazioni della Forza Armata che impiega gli APR.

L’art. 748 c. nav., in aderenza ai principi della Convenzione di Chicago, prevede che, salvo diversa disposizione, le norme del codice della navigazione non si applicano agli aeromobili militari, di dogana, delle Forze di Polizia di Stato, nonché ai mezzi di cui all’art. 744, quarto comma, c. nav. (aeromobili equiparati a quelli di Stato), e cioè agli aeromobili utilizzati da soggetti pubblici o privati, anche se solo occasionalmente, per attività finalizzate alla tutela della sicurezza nazionale, e che per tale motivo sono conseguentemente equiparati agli aeromobili di Stato.

Più in generale, le norme del codice della navigazione, salva la sussistenza di una diversa specifica previsione, non si estendono al personale, ai mezzi, agli impianti ed alle infrastrutture appartenenti al Ministero della Difesa ed agli altri Ministeri che impiegano aeromobili di Stato di loro proprietà.

L’estraneità del codice della navigazione rispetto agli aeromobili militari e a quelli di Stato appartenenti alle Forze di polizia dotate di componenti aeree, tra cui gli aeromobili del Ministero dell’Interno impiegati dalla Polizia di Stato, fa sì che agli aeromobili, e dunque anche agli APR, non si applichi il regime amministrativo previsto per gli aeromobili militari. Essi pertanto non sono registrati nel Registro Aeronautico Nazionale, riservato solo agli aeromobili privati, e tenuto dell’ENAC.

In base al combinato disposto degli artt. 743, comma 2, e 745, comma 2, del codice della navigazione gli APR militari vengono considerati a tutti gli effetti come aeromobili militari, e sono, pertanto, immatricolati nel Registro degli Aeromobili militari (RAM) presso la Direzione degli Armamenti Aeronautici e per l’aeronavigabilità (ARMAEREO).

Anche il D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (Testo Unico dell’ordinamento militare) prevede, all’art. 106, lett. m), che la Direzione di ARMAEREO detenga il Registro degli Aeromobili militari (RAM).

La Direzione ARMAEREO, pertanto, cura la certificazione e l’immatricolazione. Essa cioè si occupa dell’assegnazione della matricola militare agli aeromobili militari, corrispondente all’ammissione alla navigazione, da parte dell’ENAC, per gli aeromobili privati, ai sensi dell’art. 749 c. nav.

Stante l’inapplicabilità del codice della navigazione agli aeromobili militari e di Stato, in caso di incidente non possono valere le disposizioni concernenti le inchieste tecniche riguardanti appunto gli incidenti e gli inconvenienti gravi di volo di cui agli artt. 826 ss. C. nav.

Pertanto, per gli APR di Stato l’investigazione tecnica non deve essere svolta dall’Agenzia Nazionale Sicurezza del volo.

In base all’art. 3 del d. lgs. 25 febbraio 1999, n. 66, l’indagine tecnica in tal caso è di competenza del Ministero della Difesa. Più precisamente, l’art. 140 del d. lgs. 15 marzo 2010, n. 66 ha affidato all’Ispettorato Sicurezza Volo dell’Amministrazione militare il compito di coordinare l’attività investigativa, a fini di prevenzione, degli eventuali incidenti ed inconvenienti di volo che possano interessare gli aeromobili militari, e dunque anche gli APR.

  1. Le fattispecie incriminatrici potenzialmente rilevanti.

Dal punto di vista penalistico, l’inapplicabilità del codice della navigazione a questo settore fa sì che i piloti e gli operatori degli APR non possano essere considerati soggetti attivi dei reati previsti da detto codice, ma solo di reati delineati dal codice penale comune o dai codici penali  militari di pace o di guerra.

L’individuazione della relativa competenza territoriale va ricavata, in caso di reati comuni, dal disposto dell’art. 8 c.p., in base al quale essa appartiene, in linea generale, al Tribunale del luogo ove il reato è stato consumato.

Ai fini della nostra disamina, occorrerà dunque verificare dove l’APR abbia operato ed ove si sia verificato l’evento, risultando a detti fini irrilevante che il mezzo sia invece stato pilotato da un luogo diverso.

Qualora il reato “comune” sia stato commesso nel corso di una missione all’estero, la competenza sarà “accentrata” presso  il Tribunale ordinario di Roma, ai sensi dell’art. 19, comma 10, della l. n. 145 del 2016 (c.d. “legge quadro sulle missioni internazionali”), in base al quale «per i reati di cui ai commi 8 e 9 e per i reati attribuiti alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria commessi dal cittadino che partecipa a missioni internazionali, nel territorio e per il periodo in cui esse si svolgono, la competenza è del tribunale di Roma».

In caso di configurazione di un reato militare, la competenza risulterà fissata in base all’art. 273, secondo comma, del c.p.m.p., secondo cui la cognizione dei reati militari commessi in corso di navigazione su aeromobili militari, sia in Italia che all’estero, è di competenza del tribunale militare del luogo di stanza dell’unità militare a cui appartiene il militare indagato o imputato.

In caso di missione internazionale, la competenza è invece del Tribunale militare di Roma, per effetto dell’art. 19, comma 1, della citata legge n. 145 del 2016.

Tra i più frequenti reati militari concernenti l’utilizzo degli aeromobili militari (e dunque anche degli APR) può essere fatta menzione di quelli delineati dagli artt. 106 c.p.m.p. (perdita colposa di aeromobile militare) e 108 c.p.m.p. (avaria colposa di aeromobile militare).

Trattasi di due reati “propri” del comandante di aeromobile militare, in quanto esclusivamente ascrivibili a tale figura. È stato, pertanto giustamente osservato che il pilota di un APR del tipo strategico, tattico o leggero, quale comandante dell’aeromobile potrebbe essere soggetto attivo di questi due reati, che risultano procedibili, ai sensi dell’art. 260, primo comma, c.p.m.p. a richiesta del Ministro da cui il militare dipende.

L’art. 106 c.p.m.p. nel suo primo comma opera un richiamo, nella configurazione della fattispecie, al precedente articolo 105, prevedendo peraltro la pena della reclusione militare fino a dieci anni.

Il successivo terzo comma stabilisce che le stesse pene si applichino al comandante di una forza aeronautica o di un aeromobile isolato in manovra (non interessa ai fini della nostra trattazione, concernente gli APR, il riferimento ad «altro militare su di esso imbarcato») che ‹‹per negligenza o imprudenza o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, commette alcuno dei fatti preveduti dall’articolo precedente››. L’art. 105 c.p.m.p. è invece di applicabilità quasi solo teorica, trattandosi di reato doloso, e non essendo ipotizzabile che, salvo il caso di sabotaggio, un comandante decida volutamente di distruggere dei nostri velivoli.

In base a detta norma il comandante di una forza aeronautica, che cagioni la perdita o la cattura di uno o più aeromobili dipendenti dal suo comando, è punito con l’ergastolo. La stessa pena si applica al comandante di un aeromobile isolato, che provochi la perdita o la cattura dell’aeromobile stesso.

A sua volta, l’art. 108 c.p.m.p. opera un richiamo, nella ricostruzione della fattispecie, all’ ipotesi dolosa (parimenti quasi solo teorica) delineata dal precedente art. 107 c.p.m.p., in base al quale il comandante di un aeromobile, il quale ne cagioni l’investimento o un’avaria, è punito con la reclusione non inferiore ad otto anni, e, se da detti fatti sia derivata la perdita dell’aeromobile, con la reclusione non inferiore a quindici anni.

Anche agli APR è inoltre sicuramente applicabile l’art. 109 c.m.p.m. (agevolazione colposa), per effetto del quale quando l’esecuzione di alcuno dei fatti previsti dagli articoli 105 o 107 c.p.m.p. è stata resa possibile, o soltanto agevolata, per colpa del militare che aveva la custodia o la vigilanza delle cose ivi indicate (e dunque nel nostro caso dell’APR), tale soggetto è punito con la reclusione militare da uno a cinque anni.

Parimenti applicabile agli APR è l’art. 110 c.p..m.p. (omesso uso di mezzi per limitare il danno, in caso d’incendio o di altro sinistro) in base al quale il comandante di un aeromobile che, nel caso d’incendio, investimento, o di qualsiasi altro sinistro, non adoperi tutti i mezzi, di cui potrebbe disporre, per limitare il danno, è punito con la reclusione militare fino a cinque anni.

Non sono invece compatibili con la natura degli APR, privi di personale a bordo, gli illeciti di cui agli artt. 111 c.p.m.p. (abbandono o cessione del comando in caso di pericolo) e 112 c.p.m.p. (violazione del dovere del comandante di essere l’ultimo ad abbandonare la nave, l’aeromobile o il posto, in caso di pericolo).

Tali reati appaiono ricollegabili a situazioni ove l’abbandono è in gran parte determinato da un senso di paura provocato dall’imminenza del pericolo, in un contesto ove proprio la fisica presenza determina l’instaurazione di una simile situazione stressogena, generalmente assente laddove il comando avvenga “da remoto”.

È invece ipotizzabile l’applicabilità, anche con riferimento agli APR, dell’art. 113 c.p.m.p. (omissione di soccorso o di protezione, in caso di pericolo), il cui secondo comma sanziona con la reclusione militare fino a tre anni il comandante di uno o più aeromobili militari, che non presti ad aeromobili, ancorchè non nazionali, l’assistenza o la protezione che era in grado di dare.

Va qui sottolineato, sia pure incidenter tantum, come tale disposizione tragga la sua ratio dalla volontà di rispettare consuetudini marinaresche, poi estese anche al campo aeronautico, assurte al rango di fondamentale canone comportamentale, volte ad imporre la solidarietà e ad esigere che venga posto in essere ogni sforzo per aiutare un altro mezzo in difficoltà, a prescindere dalla sua nazionalità.

Con riferimento alla tematica della privacy, occorre infine menzionare il disposto dell’art. 615 bis (interferenze illecite nella vita privata), in base al quale chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.

Al riguardo, come è stato posto in rilievo dalla dottrina che si è specificatamente occupata di questa tematica, i droni ‹‹rappresentano l’ultima frontiera tecnologica nel campo delle videoriprese e anche l’ultima minaccia alla riservatezza delle persone›› [6]. Occorre comunque effettuare alcune doverose precisazioni. I droni rappresentano un mezzo tecnologico di estrema rilevanza e di grande utilità nei più diversi settori; sarebbe profondamente scorretto un approccio “diffidente” circa il ricorso a tale straordinaria opportunità di pilotaggio.

Bisogna, semplicemente, in aderenza alle indicazioni offerte dal Working Group art. 29, essere particolarmente attenti agli effetti potenzialmente invasivi ricollegabili al loro uso, in quanto sottratti alla percezione dei singoli eventualmente sottoposti ad operazioni di sorveglianza “dall’alto”.

Non a caso il Gruppo dei Garanti costituenti il Working Group ha raccomandato ai costruttori di droni l’adozione di misure di privacy by default e l’adozione di misure volte a rendere quanto più possibili visibili ed identificabili i droni utilizzati a fini commerciali.

Valgono, per il resto, i criteri generali in tema di captazioni di immagini, volte a vietare le riprese all’interno di luoghi di privata dimora  ed al contempo a consentire le riprese in luoghi pubblici, giacchè in tal caso ‹‹le persone inquadrate nelle riprese possono essere considerate parte integrante del paesaggio ripreso, in quanto “necessariamente” consapevoli della loro esposizione››[7].

[1] Va rilevato che, contrariamente a quanto potrebbe ritenersi, il riferimento ai droni nelle Convenzioni internazionali non risale solo agli ultimi anni; infatti già la Convenzione di Chicago, sottoscritta il 7 dicembre 1944, veniva utilizzata la dizione di “aeromobile senza pilota”.

[2] A. DE ROSA, Gli aeromobili a pilotaggio remoto: evoluzione normativa e prospettive, in Rass. giust. mil., 2014, n. 2.

[3] Cfr. A. DE ROSA, Vecchi e nuovi problemi di diritto militare, in Rass. giust. mil., 2015, n. 6

[4] Potrebbe tra l’altro osservarsi che in tal caso la possibilità di danni collaterali è anche attenuate dal fatto che il pilota “remoto” non risente dello stress che potrebbe invece subire il pilota a bordo di un velivolo. Si profila al riguardo un ulteriore considerazione,  volta a sottolineare come il pilota “remoto” in operazioni conflittuali possa vivere le stesse come una sorta di “gioco”, o risulti comunque assai più “distaccato” e coinvolto emotivamente  di quanto lo sarebbe un militare a diretto contatto con la realtà.

[5] Cfr. F. ROSEN, Extremely stealth and incredibly close: drones, control and legal responsibility, in Journal of conflict and security law, Oxford University Press, 2013.

[6] M. Soffientini,  Privacy. Protezione e trattamento dei dati, Wolters Kluwer, Milanofiori Assago, 2016, p. 432.

[7] M. Soffientini,  Privacy, cit., p. 435.

Scarica il documento in PDF Gli aspetti giuridici connessi all’uso dei droni

Tag:, , , ,