Giurisdizione penale
Nell’ipotesi in cui ci si trova dinnanzi alla fattispecie di crimini transnazionali, si presenta la problematica di stabilire quale sia l’ordinamento giuridico chiamato ad occuparsi del fatto di reato.
Capita di frequente, infatti, che l’attività criminale si sviluppi su più territori nazionali, ed è dunque soggetta a distinte giurisdizioni penali.
Pertanto, è necessario individuare la qualificazione giuridica da dare all’accaduto nell’ipotesi in cui non coincidano i giudizi di valore espressi dai diversi legislatori.
Diversamente dal diritto civile, il diritto penale non prevede un sistema di norme volto a stabilire quale, tra le legislazioni concorrenti, prevalga sulle altre.
Ogni ordinamento regola in modo autarchico l’efficacia della propria legge penale.
Il nostro ordinamento, in particolare, oltre a espandere la propria giurisdizione su alcuni reati commessi all’estero dal cittadino italiano o dallo straniero, radica la propria giurisdizione esclusiva su tutti i reati che siano commessi anche solo parzialmente in Italia, dunque, è sufficiente per l’ordinamento italiano, che il fatto costituente reato si sia realizzato sul nostro territorio per ciò che riguarda parte dell’azione o dell’omissione ovvero che si verifichi l’evento del reato.
L’articolo 1 del codice di procedura penale italiano dispone che la giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario.
La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.
In tema di competenza, ciò che preme analizzare è quanto disposto dagli articoli 7-10 del codice di procedura penale italiano. Si tratta di disposizioni che individuano i criteri di applicazione della competenza.
Qualora il reato sia stato commesso interamente all’estero, la competenza è determinata successivamente dal luogo della residenza, della dimora, del domicilio, dell’arresto o della consegna dell’imputato.
Nel caso di pluralità di imputati, procederà il giudice competente per il maggior numero di essi.
- Se il reato è stato commesso a danno del cittadino, la competenza è del tribunale o della corte di assise di Roma quando non è possibile determinarla.
- In tutti gli altri casi, la competenza appartiene al giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro.
- Se il reato è stato commesso in parte all’estero, la competenza è determinata a norma degli articoli 8 e 9.
In particolare questi ultimi, disciplinano rispettivamente regole generali e regole suppletive per la determinazione della competenza territoriale.
Il criterio principale determinato dal comma 1 dell’art. 8 del codice di procedura è quello del c.d. locus commissi delicti, ovvero del luogo in cui il delitto è stato consumato: lo svolgimento del processo in tale luogo consente un rapido svolgimento delle indagini.
Si segnala che l’art. 210 delle norme di coordinamento, in deroga a quanto previsto dall’art. 8 c.p.p., fa salve le disposizioni di leggi o decreti che regolano la competenza per territorio.
Cercando di ricostruire gli elementi strutturali del “reato transnazionale”, si può innanzitutto evidenziare che emerge l’esistenza di una transnazionalità di matrice esclusivamente oggettiva, che è riconducibile alla lettera a) dell’articolo 3 della Convenzione di Palermo, laddove assume il valore di maggiore significatività l’ambito territoriale.
Si considera reato transnazionale, pertanto, il reato che sia commesso in più di uno Stato.
Viene così attribuita rilevanza all’ambito spaziale del comportamento delittuoso. Il riferimento principalmente alla condotta ed alla sua materialità rende possibile un immediato richiamo a tutta quella serie di comportamenti delittuosi in cui la transnazionalità risulta quasi in re ipsa.
Si parla, quindi, di transnazionalità in re ipsa, per gli illeciti collegati ai fenomeni afferenti il traffico di merci, persone, capitali.
Il reato può considerarsi quindi, transnazionale anche quando, pur essendo stato commesso in un solo Stato, abbia effetti sostanziali in un altro Stato. Per effetto sostanziale può intendersi tutto ciò che consegue da un rapporto di causa-effetto, ma che è anche in grado di correlarsi strettamente alla lesione del bene protetto dalla fattispecie[1].
La capacità dello Stato di esercitare la propria giurisdizione nei confronti di un fatto che è crimine universale trova fondamento nel diritto internazionale.
Il criminale è condannabile indipendentemente dal contesto entro cui sviluppa il crimine.
Nel momento in cui uno Stato esercita la propria giurisdizione su un caso che coinvolge persone o cose al di fuori dei propri confini territoriali, la pretesa giurisdizionale deve essere basata su un principio di competenza internazionale.
Qui trova fondamento il principio della giurisdizione universale, che presuppone che ogni Stato abbia un interesse ad esercitare la propria azione coercitiva per sanzionare quei reati che gli stessi Stati – universalmente – hanno condannato[2].
Fino al 1990 le azioni penali internazionali nei confronti di autori di crimini di guerra e crimini contro l’umanità avevano un oggetto residuale che si identificava coi crimini posti in essere durante la seconda guerra mondiale, gli unici ad essere ritenuti una violazione delle norme fondamentali del diritto internazionale umanitario.
Sul piano normativo hanno, inoltre, trovato spazio altre condotte lesive del diritto umanitario come l’apartheid, la tortura ed il genocidio, tutte condotte che sono sanzionate a livello statuale sulla base del meccanismo della giurisdizione universale.
Pertanto, una volta che un atto sia ascrivibile nella categoria di crimine universale, tutti gli Stati della comunità mondiale sono competenti a perseguire penalmente il fatto.
Tale espansione di jurisdictio deriva dal consenso mondiale in costante crescita verso la volontà di condannare tali crimini: atti che, spesso indiscriminatamente, mettono in pericolo vite umane o interessi patrimoniali.
Una volta stabilito che ogni Stato può esercitare la propria giurisdizione nei confronti di un individuo che ha commesso un crimine internazionale, occorre specificare che vi è un generale obbligo dell’esercizio dell’azione penale, ovvero occorre che da qualche soggetto giuridico, il reo venga punito.
Altro aspetto su cui preme in tale sede soffermarci, riguarda la transnazionalità dei crimini organizzati.
In una società moderna volta, sempre di più, al progressivo superamento dei confini geografici ed alla creazione di mercati – politici, commerciali e finanziari – globali, anche il fenomeno della criminalità organizzata tende, inarrestabilmente, ad assumere dimensioni sovranazionali, proiettandosi con
pericolosità oltre le frontiere degli Stati tradizionali.
Lungimiranti appaiono le parole con le quali Giovanni Falcone, nel 1992, in occasione della prima riunione della Commissione sulla Prevenzione della Criminalità e per la Giustizia Penale in seno alle Nazioni Unite, auspicava l’introduzione di una legislazione sovranazionale finalizzata alla lotta alle forme di criminalità organizzata: “La via decisiva per combattere la criminalità organizzata presuppone una collaborazione internazionale energica ed efficace e richiede la predisposizione di una legislazione internazionale adeguata”[3].
La raggiunta presa di coscienza, che un’efficace lotta alla criminalità organizzata non possa prescindere da una comune cooperazione giudiziaria, ha portato alla promozione di nuovi strumenti di contrasto alla criminalità organizzata.
Nacque così a dicembre del 2000 la Convezione delle Nazioni Unite contro la Criminalità Organizzata Transnazionale, la cosiddetta Convenzione di Palermo, recepita nell’ordinamento italiano solo nel 2006, dopo un interminabile iter parlamentare, con la legge n. 146/2006.
Dall’analisi sulla tipologia, o meglio, sulla “natura” transnazionale del crimine, come individuata all’art. 3 della Convenzione, si è tentato di enucleare un diritto penale transnazionale, con profili differenziali rispetto alle nozioni di diritto internazionale penale e di diritto penale internazionale.
L’articolo 3 della citata legge riconduce la qualificazione del reato transnazionale al concorso di tre distinti parametri:
Il primo è connesso alla gravità del reato, in quanto deve trattarsi di un delitto punito con una pena non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione.
Il secondo parametro prevede il coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato ( cosiddetto “involving” utilizzato nella Convenzione di Palermo)
Il terzo, infine, concerne alternativamente:
- la commissione del reato in più di uno Stato;
- la commissione del reato in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato;
- la commissione del reato in uno Stato, ma l’implicazione in esso di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato,
- la commissione del reato in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in un altro Stato.
Trattasi, pertanto, non di un’autonoma ipotesi di reato, ma di una qualifica trasversale applicabile a qualsivoglia fattispecie criminosa.
Pur foriera di rilevanti effetti sul piano della disciplina sostanziale e processuale, la definizione di “reato transnazionale” dettata dall’articolo 3 della legge 146/2006 non prevede, tuttavia, alcuna sanzione in termini di aggravamento della pena[4].
Al contrario, il successivo articolo 4 della Convenzione di Palermo, circoscritto unicamente ai “reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato”, introduce una circostanza aggravante ad effetto speciale che prevede un importante aumento di pena, da un terzo alla metà, non soggetto al giudizio di bilanciamento con circostanze attenuanti diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale[5].
Meritevole di un aggravamento della pena, quindi, è stato ritenuto non solo il reato transnazionale in sé, bensì un’unica ipotesi di reato transnazionale, quale la commissione del reato in uno Stato, e l’implicazione in esso di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato[6].
Per ciò che concerne l’articolo 4, in riferimento all’applicazione delle aggravanti in materia di crimini transnazionali, la giurisprudenza maggioritaria, ha dettato un orientato verso l’applicabilità dell’aggravante ai reati fine dell’associazione anche in caso di immedesimazione tra associazione per delinquere e gruppo criminale organizzato.
La Convenzione di Palermo, del resto, lascia ampi margini d’azione agli Stati Parte in merito alle modalità esecutive con cui neutralizzare il fenomeno della criminalità organizzata transnazionale, limitando il proprio vincolo nell’obbligo di penalizzazione di determinate condotte caratterizzate dal fatto di avere carattere transnazionale e di vedere coinvolto un gruppo criminale organizzato[7].
In conclusione, lo scopo della Convenzione di Palermo, inciso nel suo art. 1, è quello di promuovere la cooperazione degli Stati – parte – per prevenire e combattere il crimine organizzato transnazionale in maniera più efficace.
[1] http://astra.csm.it/incontri/relaz/16179.pdf
[2] http://www.difesaonline.it/evidenza/diritto-militare/crimini-internazionali-e-transnazionali-la-clausola-aut-dedere-aut
[3] https://www.penalecontemporaneo.it/upload/2023-mingione218.pdf
[4] https://www.penalecontemporaneo.it/upload/2023-mingione218.pdf
[5] In virtù del rinvio espresso dal secondo comma dell’art 4 all’art. 7 comma 2 d.l. 13 maggio 1991, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991 n.203.
[6] Art. 3 lettera c, Convenzione di Palermo.
[7] Cfr. A. CENTONZE, Criminalità organizzata e reati transnazionali, Giuffrè Editore, 2008, p. 306: “In definitiva, la finalità di questa scelta di politica criminale appare ineccepibile nella direzione di un intervento repressivo più incisivo sulla sfera di operatività di una consorteria criminale transnazionale, che comporta un cospicuo aumento della pena per effetto della sua natura di circostanza aggravante ad effetto speciale e una pluralità di conseguenze processuali che si riverberano sulla fase dell’esecuzione della pena”.
Scarica il documento in PDF giurisdizione penale