Dall’Avanguardia Rivoluzionaria alla Mobilitazione Intelligente: Come l’ISIS ha Cambiato la Narrativa del Terrorismo
Era dal 1924 che non si parlava di Califfato, in Medio Oriente: da quando Mustafa Kemal Atatürk lo dissolse facendo nascere la Repubblica di Turchia. Oggi, un secolo dopo lo storico accordo di Sykes-Picot, lo Stato Islamico ridisegna la mappa sancita dal compromesso tra francesi e inglesi, occupando un’area a cavallo tra Siria ed Iraq più grande del Texas, dove vivono quasi 8 milioni di persone. L’ISIS è anche uno dei gruppi terroristici più ricchi della storia, con una ricchezza stimata di 2 miliardi di dollari ed un guadagno in esportazioni petrolifere di 2 milioni al giorno.
Ma cos’è che distingue l’ISIS da tutti gli altri gruppi terroristici precedenti, e in particolare da al-Qaeda? Jessica Stern e J. M. Berger nel loro saggio sullo “Stato del terrore” segnalano il passaggio dall’avanguardia rivoluzionaria (quella guidata da bin-Laden) alla “mobilitazione intelligente” (termine coniato da Howard Rheingold per descrivere l’azione praticata dallo Stato Islamico). Al-Qaeda era una congregazione che vedeva sè stessa come un élite intellettuale a capo di una rivoluzione ideologica da lei guidata e manipolata. L’idea era quella di stimolare la jihad, che poi si sarebbe diramata in modo spontaneo. Il terrorismo aveva l’unico compito di svegliare le masse e indicare la giusta direzione. Seguendo un modello di società segreta e isolata dal contesto sociale, al-Qaeda non è mai riuscita nell’intento di creare una comunità, tramite spontanea affiliazione. Mentre la propaganda di al-Qaeda è di tipo nichilistico, quella dell’ISIS ha un carattere utopistico. Offline, il gruppo di al-Baghdadi segue un modello funzionale alla creazione di un vero e proprio governo. Online, invece, diffonde la sua ideologia e celebra i suoi successi, per incrementare i propri adepti. È questo che Howard Rheingold definisce “smart mob”:
«Consiste in persone capaci di agire in concerto, pur non conoscendosi a vicenda. Le persone che organizzano queste mobilitazioni cooperano in modi impensabili fino a qualche anno fa, perché utilizzano strumenti con capacità sia comunicative che di elaborazione. Questi strumenti li collegano ad altre persone in modo immediato».
Ma, come spiegano ancora Jessica Stern e J.M. Berger, il cambiamento introdotto del Califfato va oltre la comunicazione orizzontale e l’uso dei social network. «L’Isis offre qualcosa di nuovo, diffondendo argomentazioni religiose ed enfatizzando due temi apparentemente in contraddizione: ultra-violenza e società civile. Questi si sono rivelati inaspettatamente potenti, quando combinati e alternati tra loro». L’ultra-violenza, oltre a intimidire i nemici, è perfetta per il pubblico dei potenziali foreign fighters – arrabbiati, disadattati nella loro condizione di stranieri in patria, tendenzialmente vendicativi nei confronti degli apostati. L’enfasi sulla società civile, mostrata nei video e nelle pubblicazioni scritte, serve a controbilanciare l’impatto dei video più atroci, limitandone l’effetto repulsivo.
In fondo, il progetto è quello di creare un vero e proprio stato, con tutto quello che esso comporta. L’affiliazione allo Stato Islamico equivale a tutti gli effetti ad un progetto rivoluzionario. È per questo che il messaggio viene esteso a tutti: combattenti, donne, bambini. Lo stato islamico non ha bisogno di controllarle in modo paternalistico le masse, ecco perché la sua propaganda riesce ad autoalimentarsi, come mai si era visto prima. La sua novità è la capacità di coinvolgere tutte le categorie sociali, in tutti i continenti. Al-Qaeda faceva esattamente il contrario: nascondendosi, creava una sorta di intimidazione preventiva per chi voleva avvicinarsi al suo progetto. La comunicazione ad ampio raggio avveniva solo di rado, quando strettamente necessaria.
Il Cambio del Linguaggio
L’ISIS, dal canto suo, si è addirittura dotata di un consiglio deputato alla gestione dei media e della propaganda. Il Consiglio per i Media si occupa delle dichiarazioni in occasioni ufficiali, supervisiona l’utilizzo dei social network, sviluppa la produzione propagandistica del Califfato (canzoni, testi, video, giornali) e fornisce delle barriere apposite per rendere i siti del Califfato più imperscrutabili e difficili da sottoporre a investigazioni dell’intelligence. Secondo Hassan Abu Hanein, un esperto giordano di gruppi islamici, questa istituzione opera in concerto con il Consiglio Legale, coordinando la pubblicità – video, manifesti, articoli di giornale, programmi radio – attorno alle esecuzioni.
Dal Consiglio per i Media dipendono anche le case di produzione multimediale (le maggiori delle quali sono al-Furqan e al-Hayat), che rappresentano uno dei punti di contatto tra la precedente gestione del terrorismo e l’ISIS. La differenza è l’utilizzo che oggi si fa della propaganda, e l’evoluzione cinematografica dei video diffusi in Rete. Se nei primi anni 2000 i gruppi jihadisti che agivano in Iraq e Afghanistan riprendevano principalmente discorsi dei leader e di esecuzioni, oggi lo Stato Islamico – che monopolizza quasi tutta la narrativa jihadista – si concentra più sulla mitizzazione del Califfato e dei suoi adepti che sulle esecuzioni.
Molti dei simboli del passato si sono tramandati alla nuova gestione del fondamentalismo islamico: la tuta arancione, la lettura della sentenza e della motivazione, le ambientazioni anonime. Ma, per il resto, il passo in avanti nella qualità della propaganda è evidente: tutto è ripreso in alta definizione, il montaggio video è più sviluppato (spesso accompagnato da musiche riconoscibili), i combattenti parlano inglese come i loro ostaggi. Lo stesso filmato in cui Abu Bakr al-Baghdadi si è presentato alla umma dicendo di essere il primo Califfo del mondo islamico dopo la caduta dell’Impero Ottomano ha una sua complessità di produzione. Nella moschea di al-Nouri ci sono almeno quattro telecamere, e alla destra di al-Baghdadi sventola un ologramma raffigurante la bandiera nera dell’ISIS.
Secondo Bruno Ballardini, esperto di comunicazione strategica, l’ISIS sfrutta la vulnerabilità dei nostri media, quelli occidentali. «È un po’ come se centinaia di radioamatori nascosti in un’isola sperduta nell’oceano irrompessero a sorpresa con le loro trasmissioni, a brevi intervalli su tutte le nostre principali frequenze radio, saturandole». Per arrivare a questo, lo Stato Islamico si muove su moltissimi fronti (video, radio, podcast, tweet, riviste, canzoni popolari, social network alternativi). Il risultato è l’aggiramento dei canali di comunicazione tradizionali, costretti ad inseguire contenuti che non passano più tramite loro. Anche i servizi di intelligence sembrano impotenti di fronte a tali attacchi. La cancellazione di video su un sito corrisponde spesso alla riapparizione dello stesso su un altro alternativo, spesso non tracciabile e, a volte, in grado di resistere alla censura di Internet. Ecco perché seguire i canali per i quali passa la comunicazione dell’ISIS e i punti in cui arriva serve a capire la forza di questo movimento terroristico, la sua carica innovativa, i suoi obiettivi e i suoi limiti.
Di particolare interesse è la comunicazione estesa alle nuove generazioni. Su Internet girano filmati di bambini di massimo dieci anni immortalati nell’atto di uccidere adulti infedeli, oppure ripresi nel mezzo di un addestramento militare. Essi possono essere utilizzati come veri e propri soldati (in genere, nelle situazioni più a rischio o negli attacchi kamikaze). Marta Serafini del Corriere della Sera non ha dubbi: parte della propaganda del Califfato è rivolta specificamente ai più giovani.
«Lo stesso filmato Flames of War, considerato uno dei più importanti ed efficaci della propaganda jihadista, è costruito tenendo a modello un videogame tra i più diffusi tra i teenager. Si tratta naturalmente di Grand Theft Auto, giudicato da molti particolarmente violento. Proprio di questo titolo Isis ha voluto fare un remake jihadista, con la speranza che chi ci giochi si esalti a tal punto da diventare un sostenitore dello Stato islamico e allo stesso tempo entri nella predisposizione mentale di combattere e uccidere».
Nei primi tre mesi del 2015 lo Stato Islamico ha reclutato quasi 400 bambini soldato. L’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr) segnala che i sunniti avvicinano i minori nei pressi di moschee, scuole e luoghi pubblici dove vengono messe in scena le esecuzioni di uomini non allineati alla volontà del Califfato. Stando a Juliette Touma, portavoce per la crisi siriana presso l’ufficio delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, essi non vengono utilizzati solo per combattere. «Sono varie le occupazioni assegnate ai bambini, durante i conflitti». Possono cucinare, occuparsi delle pulizie, svolgere le faccende di casa o curare jihadisti feriti. «Usano i bambini perché è più facile indottrinarli» – afferma Rami Abdulrahman, capo del Sohr – «possono fare di loro ciò che vogliono, gli impediscono di andare a scuola e li mandano negli istituti del Califfato».
Ci sono bambini filmati mentre sparano con un howitzer M198 verso le forze di sicurezza irachene, durante l’attacco nella raffineria di Baiji e ci sono quelli che partecipano alle esecuzioni, come il minorenne che, nel gennaio 2015, ha ucciso due spie del Servizio di sicurezza della Federazione Russa. Sono numerosi i campi di addestramento in Siria e Iraq, dove questi giovani combattenti prendono il nome di “cuccioli del Califfato” (presupponendo che i loro padri siano “the lions”, i leoni).
La Jihad sui Social Network
A dare una svolta alla propaganda jihadista fu Anwar al-Awlaki – predicatore yemenita, ucciso nel 2010 da un drone americano. Prima del suo intervento, la comunicazione del fondamentalismo islamico si basava sui lunghi proclami di Osama bin-Laden o Ayman al-Zawahiri, registrati in lingua araba, quindi destinati ad un pubblico limitato. Prima di essere ucciso, al-Awlaki riesce a dare una svolta significativa a questo modo di reclutare potenziali adepti, battezzando la nascita del magazine Inspire, la rivista patinata in inglese che aveva l’obiettivo di iniziare una “open source jihad”. Accanto alle invettive contro i “nemici dell’Islam”, nel magazine si trovano indicazioni su come costruire una bomba o sui possibili metodi per colpire gli infedeli. Al-Awlaki può quindi essere considerato il creatore dei cosiddetti “lupi solitari”, quei jihadisti che non venivano raggiunti dalla comunicazione di bin-Laden, ma oggi hanno accesso – anche grazie ai social media – alla propaganda dell’ISIS.
Francesco Marone, ricercatore dell’università di Pavia, sottolinea come il Califfato abbia «speso e spende molte energie in un’attività di propaganda di portata globale. Tale attività costituisce un aspetto fondamentale del conflitto in cui è impegnato. Questa campagna di promozione serve diversi scopi: legittimare la propria autorità; reclutare militanti e fiancheggiatori e motivare i simpatizzanti; intimidire e condizionare i nemici». Quello che lo distingue dai gruppi terroristici precedenti sono la sofisticazione e la professionalità con le quali persegue tali obiettivi. «L’attività di propaganda mediatica dello Stato islamico si rivolge a pubblici differenti, tanto ai nemici quanto agli amici, modulando opportunamente la prospettiva, il registro e il linguaggio utilizzati. Tra i molti nemici figurano gli sciiti, gli yazidi, i curdi e i cristiani del Levante, gli apostati (murtaddin) del mondo sunnita e gli infedeli (kuffar) occidentali. Gli amici comprendono militanti (inclusi i cosiddetti foreign fighters, provenienti anche dall’Europa), fiancheggiatori, potenziali reclute e simpatizzanti».
Il messaggio è spesso duplice. A fianco agli atti di violenza, alle decapitazioni e al maltrattamento degli ostaggi, lo Stato Islamico diffonde l’idea di una comunità. In alcuni video, i combattenti sono ripresi nell’atto di mangiare in compagnia: si scambiano battute, sorridono, parlano di cose diverse dalla jihad, nutrono e accarezzano animali. È la cosiddetta “conquista dei cuori e delle menti”, che ha permesso al terrorismo di diventare un brand come mai lo era stato prima d’ora. Non solo: lo Stato Islamico ha sviluppato una sofisticata strategia sui social network, servendosi anche di video in alta definizione e campagne di hashtag; in netto contrasto con l’idea di propaganda di Osama bin-Laden.
In realtà, sembra che il Califfato riesca a conciliare, senza troppi problemi, l’utilizzo di siti occidentali e di social network alternativi. Su Twitter e Facebook, le nuove reclute diventano esse stesse strumenti di propaganda. L’utilizzo di hashtag da parte dei cosiddetti cyber-mujaheddin permette di orientare il flusso dei tweet a proprio piacimento, aggirando possibili censure. L’ISIS, su Twitter, si aggancia ad eventi mondiali per raggiungere il maggior numero di utenti possibile, rimanendo in una sorta di anonimato. Un esempio – citato da Cahal Milmo su The Independent – è quello dei mondiali di calcio del 2014. In quell’occasione, i jihadisti hanno usato hashtag come #Brazil2014, #ENG, #France e #WC2014 per estendere la loro propaganda sperando che qualcuno cliccasse sui loro contenuti. La stessa cosa viene fatta con la Premier League inglese – utilizzando parole chiave come #MUFC (Manchester United Football Club) o #LFC (Liverpool Football Club) – per promuovere video di decapitazioni in Siria ed Iraq.
Jihadi John
Lucio Caracciolo, direttore di Limes, afferma che «il marchio Is vuole agire sull’immaginario collettivo dei musulmani di tutto il mondo, inclusi gli insediati nelle terre degli infedeli – anzitutto Europa, Russia e Stati Uniti. Più di altre strutture jihadiste, lo Stato Islamico è riuscito ad attrarre e inquadrare migliaia di combattenti provenienti da nazioni occidentali e cristiane, tra cui molti convertiti, attivi sul campo di battaglia come nello spazio virtuale della Rete. Il tagliagole che decapita i giornalisti americani James Foley (19 agosto) e Steven Sotloff (2 settembre) scandendo i suoi proclami in Queen’s English – battezzato “Jihadi John” dai media che ne hanno rilanciato l’orrore – è l’icona di questa ramificazione terroristica radicata negli angoli oscuri delle comunità islamiche di casa nostra».
È dunque il boia con accento britannico il testimonial più rappresentativo della propaganda dello Stato Islamico. E non è un caso: l’impatto sull’Occidente di un combattente che parla la sua stessa lingua è un effetto chiaramente ricercato dall’ISIS. Lo dimostra anche l’esempio, ancor più sorprendente, di John Cantlie, che analizzeremo successivamente. La comunicazione – come sottolineato da Jessica Stern e J.M. Berger – è sproporzionatamente inclinata verso i cosiddetti foreign fighters, sia nel suo contenuto che nel target di riferimento. Per questo, tutti i messaggi importanti del gruppo vengono realizzati – o immediatamente tradotti – in inglese, francese e tedesco. Thomas Hegghammer, professore di storia della jihad, in un’intervista rilasciata a Joshua Holland afferma che i combattenti stranieri sono «sovra-rappresentati da coloro che progettano gli atti più efferati dello Stato Islamico. Questi aiutano a radicalizzare il conflitto, rendendolo più brutale; e creano anche una certa intrattabilità dell’esercito essendo, in media, più ideologici dei tipici ribelli siriani».
John Cantlie
Uno dei simboli di maggiore impatto della comunicazione del Califfato è il reporter britannico John Catlie, rapito dall’ISIS mentre tentava di attraversare il confine tra Siria e Turchia. Gli strateghi dello Stato Islamico hanno pensato che un occidentale in grado di portare avanti la propaganda anti-occidentale avrebbe avuto un impatto devastante sia sui foreign fighters che sulla credibilità degli avversari dell’ISIS. Cantlie poi sembra il testimonial particolarmente adatto al ruolo. Egli infatti, essendo un giornalista di professione, è in grado di leggere e analizzare la stampa occidentale, smascherandone facilmente le incongruenze. Tant’è che si ritiene si scriva i testi da solo, seppur sotto indicazione degli esperti del Califfato. L’ostaggio è stato dunque sfruttato come testimonial del gruppo – all’inizio nella trasmissione Lend me your ears, poi in due documentari girati a Kobane e a Mosul. Cantlie, vestito in tenuta arancione e con i capelli rasati come tutti gli ostaggi del Califfato, è seduto in una stanza semibuia. Le puntate di Lend me your ears iniziano sempre con la stessa formula: “Buongiorno, mi chiamo John Cantlie, sono un cittadino britannico abbandonato dal suo governo e ostaggio dello Stato Islamico”. Successivamente, l’inviato passa alla rassegna stampa facendo notare le falle nel sistema di informazione occidentale, contraddicendo le dichiarazioni di Barack Obama e di altri leader politici.
La serie viene interrotta alla sesta puntata e sostituita da uno speciale dal titolo Inside Ayn al Islam (“Dentro Kobane”). Lo stesso esperimento viene ripetuto a Mosul, dove Cantlie gira spensierato per le strade guidando una volante della polizia del Califfato. Egli non è più vestito da ostaggio, bensì con abiti di tipo occidentale. Successivamente, vediamo Cantlie in un mercato di Mosul. Qui, l’inviato speciale dello Stato Islamico gira per le bancarelle, si ferma ad annusare il sapone di Aleppo e compra un pacchetto di legumi.