Corte di cassazione, 6 aprile 2018 (udienza 24 ottobre 2017), sentenza n. 2832

Di Domenica Loredana Novia -

MASSIMA
Alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno.

 
Questo è quanto affermato dalla Suprema Corte a seguito di ricorso presento, a mezzo dei loro difensori, da S.T. e G.F., al fine di far annullare la impugnata sentenza della Corte d’appello di Roma, la quale aveva contestato, per quanto qui di interesse, il reato previsto dall’art. 609 octies del codice penale, perché in partecipazione tra loro, mediante violenza, consistita nell’immobilizzare con la forza la vittima denudandola e distendendola su un letto, costringevano la persona offesa a subire plurimi atti sessuali, toccandola e palpeggiandola in più parti, anche intime del corpo nonché penetrandola e consumando così rapporti sessuali completi.
La linea difensiva dei due imputati faceva leva sul fatto che l’intera vicenda processuale si fondasse esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, costituitasi parte civile, sulla inattendibilità delle dichiarazioni della vittima, sul consenso prestato al compimento dell’atto sessuale, inoltre, si rimproverava alla Corte del merito di aver eseguito una disamina parcellizzata degli aspetti salienti del materiale probatorio essendo state tralasciate prove a discarico fondamentali. Le doglianze mosse alla Corte di appello venivano riproposte con il ricorso per Cassazione.
I motivi di ricorso presentati da S.T. e da G.F. venivano considerati infondati e, in larga parte, non consentiti.
Tra i possibili motivi di ricorso previsti il comma 1 dell’art. 606 c.p.p., nella sua versione più recente, la lettera e) recita testualmente “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”. Detta disposizione ha come obiettivo di sanzionare le violazioni dell’obbligo della motivazione e di elevare le regole della logica a regole giuridiche, alla cui osservanza è vincolato il Giudice del merito quando procede alla valutazione delle prove e alla ricostruzione del fatto e se è certo che l’obbligo della motivazione è coessenziale al principio di legalità e di soggezione del giudice alla legge, è altrettanto certo che il controllo di legittimità trova titolo nei medesimi princìpi, onde è senz’altro giustificata l’affermazione che, nel sistema garantistico delineato dalla Costituzione, l’enunciazione dell’obbligo di motivazione è considerata come corollario del principio di legalità sancito dall’art. 101 comma 2, e della generalizzazione del sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali, espressa dall’art. 111.
Per quanto osservato, la posizione assunta dalla Suprema Corte non risulta essere condivisibile.
La Suprema Corte non convince, infatti, quando afferma che la Corte di appello ha scrutinato tutte le obiezioni difensive, sostanzialmente poi riproposte nel ricorso. Dalla lettura della sentenza in esame si evince, infatti, che i motivi di ricorso presentati risultano essere fondati, pertanto, andavano accolti in quanto, in più punti, la sentenza per la quale si chiede la nullità risulta essere carente, contraddittoria e illogica nella sua motivazione.

Uno dei motivi di doglianza dei ricorrenti è che l’intera vicenda processuale si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, costituitasi parte civile. La deposizione della persona offesa è astrattamente idonea a fondare da sola la prova del fatto rappresentato, postulando la mancata previsione da parte del legislatore di alcuna deroga della sua capacità a testimoniare, ma risulta essere inammissibile un “atto di fede” nei confronti della stessa quando, dagli atti di causa, emerge che risulta essere portatrice di un personale interesse all’accertamento del fatto, in tal caso si rende necessaria una rigorosa e penetrante indagine positiva sulla sua credibilità. Nel caso che ci occupa la parte offesa aveva una relazione sentimentale con il sig. M.P., poi teste, amico degli imputati.
Il teste M.P. riferiva che era rimasto contrariato dal fatto che la vittima fosse uscita con altri invece che con lui e le aveva manifestato la sua intenzione di chiudere la relazione; solo a tal punto la vittima racconta dell’abuso subìto. La ricostruzione del fatto operata dal sig. M.P., porta all’emersione di un interesse della parte offesa ad accusare gli imputati; nonostante ciò il Giudice del merito deduce “semplicemente” che la parte offesa non aveva motivo di accusare falsamente i tre imputati. Il Giudice di merito non può sottrarsi al dovere di esaminare i motivi di sospetto rispetto alla testimonianza della persona offesa limitandosi ad affermare, puramente e semplicemente, che la vittima non aveva motivo per dire il falso, perché è evidente la carenza di motivazione su questioni devolute e rilevanti ai fini del decidere. Con troppa facilità, ed in modo alquanto contraddittorio, la Corte di appello liquida le specifiche questioni poste dagli imputati in ordine alla credibilità della persona offesa. Con altrettanta facilità la Suprema Corte, a nostro avviso, tralascia di prendere in considerazione il fatto che la parte offesa era portatrice di un interesse inquinante; trattasi di una presunzione juris tantum che impone un maggior rigore di indagine della sua credibilità oggettiva e soggettiva rispetto a quella cui vengano sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, necessità altresì di una concreta verifica della reale terzietà proprio quando entrano in gioco interessi astrattamente confliggenti con quelli degli imputati.
Che il fatto contestato fosse avvenuto con il consenso, al più putativo, della vittima è un ulteriore motivo di doglianza dei ricorrenti. Dagli atti di causa emerge che gli imputati, quando videro “stranita” la vittima e costei espresse dissenso, si fermarono. Inoltre, dal referto del pronto soccorso non emergono segni di violenza se non delle ecchimosi, all’interno delle cosce, autoprodotte dalla p.o. per sua espressa ammissione e, soprattutto, la totale mancanza di lesioni vaginali, dopo ben tre rapporti sessuali completi. È quindi evidente la illogicità del convincimento della Corte di merito che il racconto della parte offesa fosse congruo e credibile. Nel caso che ci occupa il consenso prestato ab initio si è modificato in itinere nel corso della congiunzione carnale. Il consenso nel reato di violenza sessuale ha una particolare valenza strutturale, esso non è un consenso giustificante quale quello previsto dall’art. 50 c.p. ma ha carattere strutturante – c.d. consenso improprio – dal momento che se vi è consenso non vi è reato e non già se vi è consenso il reato è giustificato. I risvolti di detta distinzione sono anche di carattere processuale: in presenza di consenso c.d. improprio avremmo una pronuncia assolutoria perché il fatto non sussiste mentre nell’altro perché il fatto non costituirebbe reato con eventuale applicazione dell’erronea supposizione del consenso ex art. 59 comma IV c.p.
Quanto alla doglianza mossa dai ricorrenti circa la disamina parcellizzata degli aspetti salienti del materiale probatorio essendo state tralasciate prove a discarico fondamentali.
Nel valutare i fatti e le prove il Giudice del merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli stessi, né procedere ad una loro mera sommatoria. Deve valutare, anzitutto, i singoli elementi per verificarne la certezza, saggiarne l’intrinseca valenza dimostrativa e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa, in una visione unitaria, risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Dalla lettura della sentenza in esame emerge che la Corte territoriale si è adagiata, apoditticamente, sul racconto della persona offesa senza affrontare le numerose questioni poste dagli imputati sulla credibilità di quest’ultima.
Il compito del giudice di legittimità non è, quindi, quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì: di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, fornendone una corretta interpretazione; di dare esaustiva e convincente risposta alla deduzione delle parti; di applicare esattamente le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Il sindacato della Corte di cassazione sulla struttura logica del ragionamento probatorio e sull’osservanza delle regole di inferenza attraverso le quali esso si articola, trae base dall’esplicita previsione dell’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., come modificato dall’art. 8 della 1. n. 46 del 2006, che, col prevedere come vizio della sentenza la “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione”, ha l’indubbio effetto di sanzionare le violazioni dell’obbligo della motivazione e di elevare le regole della logica a regole giuridiche, alla cui osservanza è vincolato il Giudice di merito quando procede alla valutazione delle prove e alla ricostruzione del fatto. Lo scrutinio dei vizi logici della motivazione tende a verificare il grado di plausibilità razionale dell’asserzione probatoria ed a realizzare il sindacato ab estrinseco sul metodo di valutazione della prova. In altri termini, il controllo è esercitato accertando quali siano le regole logiche cui si è uniformato il ragionamento probatorio ed attuando il vaglio della struttura razionale della motivazione e della corrispondenza del discorso giustificativo ai comuni canoni epistemologici. In tale operazione deve tenersi costantemente presente che il controllo della motivazione è agganciato a specifiche regulae iuris che, pur avendo ad oggetto il giudizio sul fatto, si traducono in regole metodologiche a base del legale convincimento in fatto: sicché la decisione non conforme ai criteri ed al metodo prescritti dall’ordinamento giuridico è viziata da un error iuris poiché l’obbligo del Giudice di merito di dare al suo convincimento una base razionale si sostanzia nell’obbligo di rispettare norme e principi giuridici.
Condividere quanto statuito dalla Suprema Corte, nella sentenza in esame, equivarrebbe ad accettare una “impotenza difensiva” dinnanzi a decisioni di merito contrassegnate da apparati argomentati ben confezionati nella forma, ma privi di reale corrispondenza con le risultanze del processo.

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