L’imputabilità del minorenne

Di Andrea Baiguera Altieri -
  1. Profili de jure condito.

Art. 97 C.p. – Minore degli anni quattordici

Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni

Art. 98 C.p. – Minore degli anni diciotto

È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere, ma la pena è diminuita

Quando la pena detentiva inflitta è inferiore a cinque anni, o si tratta di una pena pecuniaria, alla condanna non conseguono pene accessorie. Se si tratta di pena più grave, la condanna importa soltanto l’interdizione dai pubblici uffici, per una durata non superiore a cinque anni, e, nei casi stabiliti dalla legge, la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.

Nella Prassi giudiziaria, gli Artt. 97 e 98 c.p. sono gravemente insufficienti, in tanto in quanto la valutazione del grado di maturità dell’ultra-14enne va effettuata sulla base di parametri criminologici provenienti dalla psicologia dell’età evolutiva. Da soli, gli Artt. 97 e 98 c.p. non recano alcun contenuto di significato, giacché è necessaria un’osservazione personologica sempre e costantemente relativa al caso specifico. In effetti, il comma 1 Art. 98 c.p. impiega i lemmi “capacità d’intendere e di volere”, ma si tratta di un’espressione assai vaga e generica, che può essere circoscritta solo grazie all’apporto della psico-patologia-forense. A tal proposito, De Francesco (2011) afferma che “questa condizione di semi-imputabilità minorile [ex comma 1 Art. 98 c.p.] è stata tradotta dalla Giurisprudenza e dalla Dottrina con il concetto di immaturità e si basa sull’idea che, pur potendo il singolo soggetto [infra-18enne] avere un livello di capacità sufficientemente sviluppato, ad esso mancherà quasi sempre quel bagaglio etico da cui dipende la piena comprensione dei valori morali che fondano una data comunità”. Come si può notare, De Francesco (ibidem) esorta l’interprete a distinguere tra le capacità cognitivo-culturali del minorenne e, dall’altro lato, il suo grado di maturità morale, civica e valoriale. Ovverosia, una potenziale maturità intellettiva potrebbe accompagnarsi ad una totale carenza sotto il profilo emotivo. D’altra parte, anche nella Giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. pen. I, 11 luglio 1991, n. 10002 rileva che, nella maggioranza delle fattispecie giudicate, “l’assenza di maturità del minore si fonda sulla mancanza di un adeguato sviluppo intellettuale e morale”. Del pari, Cass., sez. pen. I, 1° ottobre 1990, n. 14674 rimarca che, spesso, il Magistrato del merito si trova di fronte ad una “insufficiente capacità intellettiva e di autodeterminazione”. Oppure ancora, Cass., sez. pen. II, 13 settembre 1991, n. 9265 sottolinea, nell’ottica del comma 1 Art. 98 c.p., che “questa mancanza [di capacità d’intendere] è tale da non permettere [al minorenne] di rendersi conto del disvalore sociale del fatto commesso”. In ogni caso, la scelta de jure condito è stata la seguente: ex Art. 97 c.p., dunque nella fattispecie dell’infra-14enne, si presume, per legge, la totale assenza della volontà e dell’intendimento, mentre, ex Art. 98 c.p., dunque nel caso del minorenne dai 14 ai 17 anni, al Magistrato del merito spetta il compito di effettuare una “misurazione” psico-forense del grado di maturità, dunque del grado della c.d. “capacità d’intendere e di volere”.

L’Art. 97 c.p., in tema di rei infra-14enni, è totalmente apodittico e non consente alcuno spiraglio alla categoria della “imputabilità”. Giustamente, con afferenza a tale tematica, Mantovani (2020) sottolinea che “siamo di fronte [nell’ Art. 97 c.p.] ad una presunzione juris et de jure di incapacità, in quanto il giudice, quando abbia constatato la minore età dell’imputato, non può sostituire alla volontà del Legislatore un proprio convincimento positivo in merito alla presenza dell’imputabilità”. Anche Bettiol (1986) analizza la ratio dell’Art. 97 c.p., anzitutto e soprattutto dal punto di vista psico-forense, in tanto in quanto “se, indubbiamente, tale limite di età è piuttosto elevato, esso è però in linea con le risultanze della Dottrina italiana e straniera”. Qui, in realtà, si considera esclusa non tanto la capacità d’intendere, che, solitamente, viene acquisita molto prima di compiere quattordici anni, quanto, piuttosto, quella di volere, dalla quale, infatti, si fa dipendere la formazione del carattere e della personalità. E, dal momento che la personalità del minore di quattordici anni è ancora in fieri, si cerca di non impedirne il regolare sviluppo, prevedendo, appunto, la non applicazione della sanzione penale”.

  1. Il grado di maturità del minorenne.

In Dottrina, nell’ottica del comma 1 Art. 98 c.p., il lemma “maturità” traduce, sotto il profilo criminologico, l’espressione codicistica “capacità d’intendere e di volere”. Nessuna disposizione legislativa de jure condito menziona espressamente il binomio maturità/immaturità, la cui analisi compete, anzitutto e soprattutto, al Magistrato del merito. Sotto il profilo storico-giuridico, come precisano i Lavori Preparatori del Codice Rocco (1929), “va introdotta [ex Art. 97 c.p.] la presunzione assoluta di non imputabilità del minore di quattordici anni e [ex Art. 98 c.p.] [va introdotto] l’obbligo dell’accertamento dell’imputabilità per l’infra-18enne. Tale imputabilità si identifica, come per l’adulto, con la capacità d’intendere e di volere. L’innovazione, rispetto al Codice precedente, consiste, quindi, nell’abolizione del concetto di discernimento, che il Codice Zanardelli poneva quale condizione necessaria per l’imputabilità del minore, perché ritenuto un elemento impreciso, incerto, vago, al punto di fornire argomento a troppe discussioni per fissarne il contenuto e l’estensione”. Anche Ponti & Gallina Fiorentini (1983) hanno accolto con favore l’abbandono della ratio populistica del discernimento, in tanto in quanto “bisognava optare per la capacità d’intendere e di volere, formula più chiara, meno nebulosa e maggiormente ancorata a parametri più oggettivi e più scientifici, in quanto non legata ad apprezzamenti etico-intuitivi, ma alla fenomenologia psichica”. Dunque, il parametro della “capacità d’intendere e di volere” apriva la strada all’ingresso della psico-patologia forense nel procedimento Penale minorile. La “fenomenologia psichica”, secondo l’espressione impiegata da Ponti & Gallina Fiorentini (ibidem) consentiva, finalmente, un’analisi medico-scientifica dell’infrattore minorenne, trattato con quella debita serietà che prima era ostacolata dal criterio vago e moralistico del “discernimento”. Tuttavia, non è mancato chi ha fatto notare che la ratio della “capacità d’intendere e di volere” è venuta a costituire, decennio dopo decennio, uno strumento valutativo egualmente incerto e sottoposto ad interpretazioni spesso contraddittorie e per nulla pacifiche tanto in Dottrina quanto in Giurisprudenza. Provvidenzialmente, Ponti & Gallina Fiorentini ibidem ) hanno tentato di sintetizzare, dagli Anni Trenta del Novecento al 1983, la babele di espressioni giurisprudenziali traducenti, nel concreto, il lemma “maturità”, che significa, in sintesi, “armonioso sviluppo della personalità … sviluppo intellettivo adeguato all’età, … capacità di valutare adeguatamente i motivi degli stimoli a delinquere … comprensione del valore morale della propria condotta … capacità di soppesare le conseguenze dannose del proprio operato per sé e per gli altri … forza del carattere … comprensione dell’importanza di certi valori etici … dominio acquisito su se stessi … attitudine a distinguere il bene dal male, l’onesto dal disonesto, il lecito dall’illecito …unità funzionale delle facoltà psichiche [e] loro normale sviluppo rispetto all’età … capacità di elaborare i comportamenti umani a livello della coscienza … capacità di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e di correlarlo al contesto dei rapporti e interessi socialmente protetti … capacità di volere i propri atti come risultato di una scelta consapevole … attitudine a far entrare nel proprio patrimonio di cognizioni e di esperienze il concetto della violazione … assimilazione delle regole morali e sociali in base ad un’autentica convinzione e non per un processo di imitazione formale. “Le quattordici espressioni giurisprudenziali or ora menzionate rinviano ad altrettanti precedenti storici della Suprema Corte, nei quali la Corte di Cassazione ha tentato di riempire di significato il parametro della “maturità” nel Processo Penale Minorile. Oppure ancora, tra le Sentenze di merito, si segnala Tribunale per i minorenni di Torino, 24 febbraio 1978, in cui si sostiene che “vanno assolti, perché non imputabili, i minori di anni 18 affetti da carenze della struttura e della dinamica della personalità (difficoltà di autocontrollo, ritardo mentale, aggressività collegata a sindrome abbandonica precoce e lunga istituzionalizzazione”. Il binomio maturità/ immaturità è stato analizzato anche da Tribunale per i minorenni di Firenze, 4 giugno 1975, ove si parla di “non imputabilità … [per] l’estrema instabilità psico-affettiva, [unita a] crisi del senso d’identità personale, estrema ambivalenza delle manifestazioni comportamentali ed estrema fragilità e labilità dell’io”. Similmente, Tribunale per i minorenni di Roma, 31 ottobre 1974 postula la totale immaturità “se, al momento del fatto, era scissa l’unità funzionale delle facoltà psichiche del soggetto”. Trattasi di preziose e, anzi, indispensabili traduzioni giurisprudenziali del lemma “imputabilità” nella fattispecie dell’infra-18enne infrattore.

De jure condendo, taluni, perlomeno a livello di interpretazione giurisprudenziale, hanno proposto di fondare il comma 1 Art. 98 c.p. sulla ratio della “intelligenza”, la quale, tuttavia, sotto il profilo psico-evolutivo, non coincide con la “capacità di intendere e di volere”, bensì ne costituisce un requisito strumentale o collaterale. A tal proposito, Tribunale per i minorenni di Roma, 31 ottobre 1974 ha precisato che “l’intelligenza è la facoltà per cui si comprendono le conseguenze meccaniche dei propri atti, ossia il rapporto causa-effetto nella sua materialità. Invece, la capacità d’intendere significa anche la possibilità di elaborare i comportamenti umani a livello della coscienza, vale a dire a quel livello che consente di percepire criticamente il contenuto etico di un atto e di correlare questo atto al contesto dei rapporti e degli interessi socialmente protetti”. Dopotutto, anche il criminale incallito reca una “intelligenza” assai sviluppata. Dunque, sempre a livello giurisprudenziale, nell’ottica del primo comma Art. 98 c.p., ciò che conta è la “maturità”, in tanto in quanto, come sottolineato da Tribunale per i minorenni di Roma, 22 marzo 1973, “non basta che il minore conosca astrattamente il carattere illegale dell’atto posto in essere ed il suo contenuto immorale od anti-sociale, ma occorre che egli abbia assimilato le regole morali e sociali della comunità, in base ad una autentica convinzione e non per un processo di imitazione formale”.

Molto determinante, ai fini della creazione di una mente definibile come “matura” è l’ambiente valoriale in cui l’infra-18enne si è formato. In effetti, la quasi totalità dei minorenni infrattori proveniente da nuclei familiari disagiati ha avuto una formazione scolastica fallimentare e ha vissuto all’interno di periferie criminogene, ove l’illegalità è la norma. Questa importanza della Heimat circostante è sottolineata anche da Pazè (1982), a parere del quale “un ragazzo vissuto in condizioni assai carenti rispetto a quelle ritenute normali, che non ha avuto validi modelli educativi e che ha ricevuto solo stimoli negativi, che non ha finito le scuole, per lo più dovrà essere ritenuto non imputabile, perché non è cresciuto come i suoi compagni più fortunati, ha una personalità più fragile e non sa resistere ad impulsi forti”. Egualmente basagliano e garantista è il parere di Vercellone (1980), secondo cui “noi diciamo che è normale il diciottenne sano, ben alimentato, la cui salute, anche psichica, è stata tutelata ex Art. 32 Cost., che è stato adeguatamente mantenuto, educato ed istruito dai genitori ex Art. 30 Cost., che si è giovato dei supporti che di solito riceve un bambino, ex Art. 36 Cost. […]. Il ragazzo che non ha avuto questo minimo di supporto ambientale […] non può essere considerato normale in un Ordinamento giuridico che fa perno sull’Art. 3 della Costituzione repubblicana […]. È davvero difficile ritenere conforme alla seconda parte dell’Art. 3 Cost. mandare in prigione colui che quegli ostacoli non ha superato perché niente è stato fatto per lui onde consentirgli di raggiungere il pieno sviluppo della sua persona. Il giudice, dunque, nel valutare la maturità ex Art. 98 c.p. dovrà essenzialmente tener conto di quanto la normale evoluzione sia stata favorita dalla sussistenza di quel supporto ambientale, ritenendo immaturi, e quindi non punibili, i giovani imputati […] che tale supporto non hanno ricevuto in modo normale”. Gli asserti filo-riduzionistici di Vercellone (ibidem) rinviano ad una visione interventistica di uno Stato democratico-sociale non giustizialista e geloso della ratio della proporzionalità riabilitativa della pena. In effetti, non è compito del carcere sopperire alle carenze dello Welfare. La responsabilità penale è sì personale, ancorché condizionata da eventuali fattori pedagogici criminogenetici. Del resto, anche secondo Barbarico & Lanza & Vercellone & Pazè & Morello & Vaccaio (1982), il Magistrato deve costantemente contestualizzare, giacché “è necessario differenziare l’analisi ed i criteri di valutazione della maturità, a seconda che l’imputato sia un ragazzino italiano con un’educazione normale o un ragazzino, ad esempio, nomade […]. Sono valutazioni individuali e individualizzate e, naturalmente, c’è tutta una serie di parametri che possono avere un peso […] Si può vedere come ogni parametro può influire o meno rispetto a tutti gli altri. Però tutti questi parametri che la Giurisprudenza usa, quali l’educazione, la famiglia, la scuola e le categorie psicologiche non vanno presi assolutamente come degli elementi a sé stanti, univoci e quindi tali da far fare un ragionamento, come veniva fatto negli Anni Sessanta e Settanta del Novecento, per cui la mancanza di un parametro escludeva già tutti gli altri, ma vanno letti in modo integrato e, soprattutto, legato a tutta una serie di parametri culturali di aggancio”. Come si può notare, Barbarico & Lanza & Vercellone & Pazè & Morello & Vaccaio (ibidem) invitano il Magistrato minorile a contestualizzare l’Art. 98 c.p. all’interno del vissuto concreto del minorenne infrattore, con una particolare attenzione per il “fattore etnico”, che è determinante nella nascita, o meno, di valori talvolta condivisi soltanto entro sotto-culture criminogene e criminali. Ogni nazionalità comporta delle specificità potenzialmente anti-sociali e pure anti-giuridiche. La decisività della (sotto)provenienza etnico-culturale è rimarcata anche da Cuomo & La Greca & Viggiani (1982), i quali asseriscono che “[ad esempio, ndr], i ragazzi nomadi hanno molte difficoltà di comunicazione e di linguaggio. La maturità è data [anche, ndr] dalle capacità di apprendimento, dagli stimoli positivi che si hanno, dalla scolarizzazione e da tante altre cose. Magari, su un piano pratico sanno lavorare rapidamente, però la maturità è anche capire che quel gesto ha una connotazione non positiva […]. I loro modelli sono sbagliati”. In tema di nomadi, viceversa, Roli (1996) si dimostra meno protettiva e meno iper-garantista, poiché osserva che “il rom, a quattordici anni, si sposa e ha figli. Forse questi fatti, in realtà, non sembrerebbero prove di maturità, ma, semplicemente, abitudini culturali, però, dal punto di vista psicologico, il fatto che un ragazzo viene messo nelle condizioni di dover avere la responsabilità di una famiglia, di mantenerla, sicuramente gli spiana la strada verso la maturità precoce. Invece, l’italiano è una persona immatura, perché non ha avuto modo di confrontarsi con la realtà esterna, ed è stato tenuto in una situazione privilegiata. Se ne deduce, allora, che venga concessa più facilmente la non imputabilità ad un ragazzo italiano piuttosto che ad un ragazzo rom”. Tale c.d. “indagine socio-ambientale” è proposta o imposta come essenziale anche ex Art. 9 DPR 448/88, ai sensi del quale “il giudice deve acquisire elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne”. Dunque, di nuovo, l’Art. 9 DPR 448/88 ribadisce la natura fondamentale della contestualizzazione, anche con afferenza alle radici etnico-culturali dell’infrattore minore degli anni diciotto. L’ambiente e le tradizioni del gruppo sociale di appartenenza sono ancor più basilari in un ambito estremamente delicato come quello del Processo Penale minorile. L’infra-18enne processato reca, ex Art. 111 Cost., il diritto ad un “giusto processo”, che “giusto” sarà nella misura in cui il reato verrà valutato nel contesto dell’intero vissuto concreto del minorenne. L’analisi di ogni stimolo pedagogico sarà determinante per addivenire ad una conoscenza autenticamente completa del grado di maturità del ragazzo. Contestualizzare lo stile di vita dell’infra-18enne è la forma più alta di applicazione pratica dell’Art. 111 Cost. al Diritto Penale Minorile. All’opposto, ipostatizzare un solo parametro significa violare la ratio costituzionale della “proporzionalità della pena”.

  1. Il parere della Criminologia.

L’eziologia sociale del grado di maturità è fondamentale anche in Certo (1976), ossia “quando si fa una valutazione [di un ultra-13enne] bisogna sempre tener conto dell’ambiente socio-familiare in cui è cresciuto, perché esso ha una notevole importanza. Ad esempio, quando i ragazzini entrano a far parte di un gruppo, questo influisce in modo significativo anche sui loro livelli di maturità, perché imparano stili di vita, abitudini, usi […]. Il contesto sociale ha una grandissima importanza sullo sviluppo della maturità di un adolescente, perché tale sviluppo dipende dagli stimoli, che possono essere positivi o negativi, dallo stile di vita delle persone che stanno intorno all’adolescente […] L’osservazione del contesto socio-culturale-ambientale ha una grandissima importanza”. La variabile “ambiente” è basilare pure in Barsotti & Calcagno & Losana & Vercellone (1975), nel senso che “[il contesto sociale] è un aspetto che è stato accettato, nell’osservazione peritale, solo in epoca recente. Prima era solo un rapporto io-te, CTU e minore; ora, invece, questo elemento viene richiesto ed osservato, perché non si può disgiungere l’osservazione del minore da quella del suo contesto sociale. In fondo, per ognuno di noi, persino per gli animali, c’è l’apprendimento di certe regole, di certe abitudini, di certi usi, di certi stili di vita; e così anche per il minore c’è l’apprendimento. Ma l’apprendimento dove si svolge? Nel luogo dove uno nasce, cresce e si forma. Siffatta attenzione al “contesto socio-familiare” è necessaria da quando l’Italia e, più latamente, l’intera Europa hanno abbandonato gli stili di vita della tranquilla società rurale, concentrata in piccoli borghi, ove l’educazione dell’adolescente risultava meno problematica. La criminalità giovanile è assai mutata a seguito della rivoluzione industriale ottocentesca, la quale ha azzerato secoli e secoli di tradizioni di stampo contadino. In effetti, Fazzo (1984) specifica che “il boom economico ha generato una massiccia immigrazione verso le aree industriali, e ciò, culturalmente, ha significato sradicamento e colonizzazione; l’alienazione di massa da un sistema produttivo che non si controlla e non si sente come proprio; la creazione indotta di sempre nuovi bisogni per soddisfare le esigenze di crescita della produzione; il proliferare onnipresente dei mezzi di comunicazione di massa, invasori incontrollati di ogni momento della vita sociale ed individuale; l’indebolimento e la ridiscussione dell’autorità parentale, trovandosi la famiglia in difficoltà nel preparare il giovane ad un mondo sempre più complesso; la grande velocità delle comunicazioni, che comporta una tendenza alla relativizzazione dei valori ed all’evoluzione dei fenomeni culturali in tempi prima impensabili”. Addirittura, Roli (ibidem) giunge a conclusioni vicine all’irrazionalismo giuridico di Frank, poiché “qualunque sia l’approccio prescelto, di tipo biologico, psicologico o socio-ambientale, il concetto di maturità [ex comma 1 Art. 98 c.p.] resta ancora poco chiaro […]. La maturità psicologica è una metafora e al fine di poterla misurare viene deificata; ma non si può misurare una nuvola, o, meglio, ognuno la misura come vuole”. Tuttavia, a parere di chi redige, esiste il pericolo costante di una lettura marxista del lemma “maturità”. Il pericolo è che taluni interpreti ultra-progressisti si spingano al punto di ipostatizzare i “condizionamenti ambientali”, sino a negare, sempre e comunque, la responsabilità personale e la “capacità d’intendere e di volere” del minorenne infrattore. Il reo, tanto minorenne quanto ultra-18enne, è condizionabile, ancorché non giustificabile. Tranne nel caso di psicopatologie invalidanti, chi delinque reca comunque una propria sfera di responsabilità, a prescindere dagli innumerevoli difetti dei meccanismi sociali, collettivi o familiari. Chi scrive avverte il concreto pericolo di scriminare l’infra-18enne ponendo troppo l’accento sui malfunzionamenti delle strutture collettive. Ex comma 1 Art. 27 Cost., “la responsabilità penale è personale” e tale rimane al di là degli influssi negativi della famiglia, dei coetanei e delle tradizioni del gruppo culturale di riferimento. Esiste, a parere di chi commenta, un sottile approccio ultra-abolizionista che pretende di minimizzare le responsabilità del giovane reo per scaricare l’anti-socialità individuale su strutture istituzionali reputate anti-democratiche. Si tratta di un pericoloso approccio “collettivizzante” che ricorda le tristi esperienze eversive degli Anni Sessanta e Settanta del Novecento. Condizionare la responsabilità penale personale non significa annichilirla in misura totale. Del reato, anche Fornari (1997) lascia intatta la natura “personale” della responsabilità penale, in tanto in quanto “si presume che il minore, con il progredire dell’età, sia sempre più capace di previsione delle conseguenze dei propri atti. Questo, d’altra parte, è logico perché la previsionalità […] è un qualcosa che ha a che vedere con l’ accumulo dell’esperienza, oltre che con la maturazione del sistema nervoso […] [Il ragazzo] impara a sue spese ciò che è giusto, ciò che non è giusto, fa propria una serie di norme di comportamento che gli vengono inculcate, in termini culturali, prima dalla famiglia, poi dalla scuola e, comunque, dalla società, e che vengono pian piano fatte proprie e costituiscono un corpus di esperienze che permettono di valutare anticipatamente quella che è la conseguenza del proprio agire”. Come si nota, Fornari (ibidem) concilia gli stimoli esterni con l’io interiore dell’adolescente, ma, alla luce del comma 1 Art. 27 Cost., non si spinge sino al punto di negare la personalità della responsabilità penale. Il “fattore ambientale” può diminuire, ma non azzerare la “capacità d’intendere e di volere” ex comma 1 Art. 98 c.p. Maggiormente “psicologista” è l’approccio di Domanico (1995), la quale evidenzia che “nell’ adolescenza, a differenza di quanto avviene nell’adulto, non c’è proporzione tra la gravità dei sintomi e la patologia”. Si può avere un adolescente sregolato e ribelle, ma sano, o un adolescente buono, ma malato. Bisogna valutare se c’è un arresto del processo o una sua prosecuzione. Freud lo diceva molto bene: spesso gli adolescenti hanno semplicemente bisogno di un tempo e di un luogo per evolvere; però, talvolta, non ce la fanno e, allora, c’è quello che si chiama il breakdown adolescenziale […]. Oggi si sa che anche molta psicopatologia comincia nell’infanzia, e che, quindi, è possibile una prevenzione, perché molta parte della psicopatologia è legata agli eventi”. Il surrettizio ed involontario errore di Domanico (ibidem) consta nel proporre una lettura esclusivamente “psicopatologica” del lemma “maturità” e dell’espressione “capacità d’ intendere e di volere” ex comma 1 Art. 98 c.p. Il rischio è quello di una lettura unicamente medica del reato minorile, il quale, viceversa, è, anzitutto e soprattutto, un fenomeno giuridico. Tanto l’approccio “sociologico-ambientale” quanto quello “neuro-scientifico” dimenticano che i Magistrati, anche quello minorile, sono chiamati a valutare una devianza anti-giuridica e non una malattia. Lo psicologismo oltranzista rischia, più o meno consapevolmente, di negare anch’esso la presenza della “capacità d’intendere e di volere” sulla base di valutazioni sanitarie che nulla hanno a che fare con la Giuspenalistica. La capacità delinquenziale dell’adolescente non è mai totalmente condizionata da una patologia, tranne nella fattispecie della piena infermità mentale. Tuttavia, nella maggior parte dei delitti minorili, un conto è parlare di un disturbo borderline, un altro conto è negare la “maturità” del giovane reo a causa di ordinari scompensi di matrice evolutiva. Il medico non può sostituirsi al Magistrato, poiché il ruolo dello psichiatra forense può essere eventualmente quello di consigliare al giudice un trattamento penitenziario che comporti anche un percorso di riabilitazione psicologica. Tuttavia, la responsabilità penale può essere “condizionata”, non “annullata”, salvo in casi di vizio mentale radicale. Il rischio dello psicologismo giudiziario è quello di “medicalizzare” ad oltranza l’anti-socialità e l’anti-giuridicità. Anche Morello (1982) si dichiara contrario alla dittatura della psichiatria, giacché “se siamo di fronte ad una patologia infantile conclamata, evidentemente il problema non si pone: un ragazzo con aspetti autistici, oppure con disturbi che poi daranno luogo, in un secondo momento, a veri e propri disturbi della personalità, da adulto avrà sicuramente una maturità minore. Ma questo è l’aspetto più facile del problema […]. Ci sono, però, patologie più sfumate, ad esempio le patologie fobiche. Ci sono dei bambini che hanno dei disturbi fobici molto precocemente, che poi mantengono, più o meno, per tutta la vita. Ora, il disturbo fobico può sì modificare lo stile di vita di una persona, la quale sarà più terrebonda, eviterà certe situazioni, ma, sicuramente, non dovrebbe incidere più di tanto sulla capacità di prevedere il proprio comportamento, nel caso di un comportamento anti-giuridico. Altri casi, invece, come quelle forme di disturbo dell’attenzione con iperattività […] sono delle patologie che modificano altamente la capacità di giudizio e di valutazione del comportamento, producendo come effetto una maturità ben diversa”. Dunque, Morello (ibidem) si dichiara contrario ad una lettura esclusivamente o prettamente medica dell’Art. 98 c.p., tranne nella fattispecie di psicopatologie conclamate ed invalidanti. L’apporto dello psicologo sarà utile, post judicatum, nel predisporre, con il Magistrato di Sorveglianza, un’esecuzione penitenziaria che tenga conto anche delle deficienze mentali transitorie del minorenne recluso.

Non va dimenticato che, in ogni caso, esiste la “socialità”, esiste la “(semi)infermità”, ma esiste anche la “moralità”. Ovverosia, come rimarcato da Bandini & Gatti (1987), “se una persona non riesce ad elaborare un codice morale, agisce secondo il principio dell’interesse, del piacere, senza tener conto delle conseguenze del proprio agire, finché è ragazzino. Dopo, anche se il codice morale non lo elabora, gli viene in qualche modo imposto da una sorta di condizionamento sociale: uno impara, a sue spese, che certe cose non si fanno […]. Ora, sicuramente, la mancata elaborazione di un codice morale costituisce [nell’ ottica dell’Art. 98 c.p., ndr] un deficit di sviluppo, perché nello sviluppo armonioso ci deve essere anche questo aspetto. Se questo aspetto viene meno, non viene elaborato, certamente c’è un’immaturità settoriale. Magari sono persone che nelle loro attività, come al computer, riescono a fare miracoli, persone bravissime in qualunque cosa, tranne che nel riuscire a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, il che sarà comunque un concetto relativo, ma che diventa stabile in un certo contesto sociale, in una certa cultura”. La Dottrina criminologica del Novecento e dei primi Anni Duemila ha dimenticato di coniugare il comma 1 Art. 98 c.p., dunque la ratio della “maturità”, con il possesso di uno stabile “codice morale”. Si insiste molto sui condizionamenti sociali e sulle eventuali deficienze psicologiche o affettive, ma si parla poco del profilo etico-religioso. Una morale equilibrata aiuta anch’essa un sano sviluppo della “capacità d’intendere e di volere” ex comma 1 Art. 98 c.p. Troppo spesso si dimentica che la maturità normativamente intesa dipende dalla moralità meta-normativamente interiorizzata.

 

B I B L I O G R A F I A

 

Bandini & Gatti, La minore età, in Gulotta, Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale,

Giuffrè, Milano, 1987

Barbarico & Lanza & Vercellone & Pazè & Morello & Vaccaio, Risposte giudiziarie alla criminalità minorile, Unicopli, Milano, 1982

Barsotti & Calcagno & Losana & Vercellone, Sull’ imputabilità dei minori tra 14 e 18 anni, in

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Bettiol, Diritto Penale, Parte generale, CEDAM, Padova, 1986

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Cuomo & La Greca & Viggiani, Giudici, psicologi e delinquenza minorile, Giuffrè, Milano, 1982

De Francesco, Diritto Penale, Giappichelli Editore, Torino, 2011

Domanico, Minori ultraquattordicenni tra esperienze recenti e mutazioni sociali, in Diritto Penale e Processo, n. 6, 1995

Fazzo, L’ imputabilità del minore ultraquattordicenne, in De Cataldo Neuburger, Giudicando un minore, Giuffrè, Milano, 1984

Fornari, Trattato di psichiatria forense, Utet, Torino, 1997

Lavori Preparatori del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale, Relazione sul libro I  del progetto del guardasigilli Alfredo Rocco, Volume V, Roma, 1929

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Morello, L’ imputabilità del minore, in Barbarico & Lanza & Vercellone & Pazè & Morello &

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Vercellone, La imputabilità e punibilità dei minorenni nella legge penale italiana, in Atti del Convegno della Società di neuropsichiatria infantile, Camerino, 1980.

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